LO SVILUPPO DEGLI STILI MUSICALI

tango (1)34.

Da tempo ormai cerco e mi sforzo di correggere le fissazioni che mi sono preso nei brevissimi eppure già troppo lunghi mesi passati a vagheggiare, aleggiare e tangheggiare con Elisabetta. Acquisto cd didattici, contenenti selezioni di pezzi storicamente ordinate e orientate, e, a furia di insistere, scopro che l‘originale di “Vida mia” è stato scritto e interpretato per la prima volta da certo Osvaldo Fresedo, un autore a quanto pare storicamente ed esteticamente più importante del suo interprete, fatto di cui, stante il funesto permanere delle mie ombrose, amorose ossessioni, continuo a fregarmene bellamente e ad ascoltare e a riascoltare, in spregio a qualsiasi intendimento storico–didattico, sempre e comunque quella stessa versione che a Elisabetta come un drago di incendiate farfalle lievemente aleggiando e volteggiando fiammeggiando e – soprattutto – ahimè – atrocemente tangheggiando mi riporta.
Nei manuali del tango che mi sono premurato di consultare si spiega doverosamente che Osvaldo Pugliese, il mio artista preferito, ha scritto nei circa settanta anni in cui ha accompagnato l‘evolversi del tango, un bel pò di pezzi a quanto pare ben più diffusi, famosi e celebrati che quei due con cui consumo da un annetto i miei non mai esausti timpani (sul manuale trovo citati, per esempio, “Recuerdo”, con testi di E. Moreno, poi “Negracha”, “Malandraca”, etc., tutta roba a quanto pare molto più fondamentale e famosa che “Gallo ciego” e “Zum”, anche se, a mia parziale discolpa, posso dire che alle milonghe fiorentine questi due pezzi li mettono quasi sempre). Così chino la testa e cerco di fare il mio dovere di aspirante milonguero, di ascoltare tutto, e tanto mi piace quest‘autore che una volta ho retto addirittura un‘ora intera ad ascoltare pezzi di ogni sorta – ivi compresi i da me non molto amati tangovals e milonghe – anche se devo riconoscere che di solito, nei casi normali, dopo aver finto un ascolto attento e concentrato per non più di cinque minuti, ritorno a quei soliti due che amaramente e dolcemente, stancamente e inesorabilmente mi ripetono nella misteriosa lingua del bandoleon e del contrabbasso, del violino e del pianoforte il nome più dolce fra tutti i nomi: “Elisabetta”, naturalmente, o “Ella d’Essa” che dir si voglia.

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Pure non voglio arrendermi, non devo arrendermi, non posso arrendermi e dunque non mi arrendo e non mi arrenderò mai! Quasi come una cura, cerco di appassionarmi alla storia del tango, come per spiegare a me stesso che gli orizzonti di un uomo possono essere ben più ampi che gli occhi di una dolce fanciulla, per quanto grandi o, almeno in questo caso, per quanto enormi ce li abbia. Insisto così a consumare le pagine del manuale, mi getto nel capitolo che racconta della crisi degli anni cinquanta e sessanta, ove l‘autorevole, prestigioso non meno che costoso manuale racconta dell‘arrivo del rock con il giovanilismo, il progressismo e il modernismo connessi, che tendono a mettere in un angolo il tango diventato di colpo un genere “vecchio e superato” (il manuale sarà pure autorevole e prestigioso, ma le ragioni che offre di una tale crisi mi paiono in patente contraddizione con le parallele crisi economiche che sconvolsero l‘Argentina con dittature e dittatori militari annessi, che non pare lasciassero poi molto spazio a giovanilismo, progressismo, modernismo e cose del genere (questi dittatori erano dei tipi strani che, a quanto pare, per motivi non molto comprensibili, se la prendevano col tango e lo accusavano di più o meno latente “comunismo” (!?): non è chiaro cosa c‘entri il comunismo con il tango, chissà, forse i tangueri del tempo e del luogo volevano togliere una televisione ai dittatori in questione, o magari si scandalizzavano se andavano con le escort minorenni, o se mescolavano la cocaina comprata con tangenti sugli appalti pubblici con le loro pompinerie private, boh…). Ma, comunque sia, l‘epoca della crisi non è poi molto interessante, dato che, a ben vedere, non produce nulla di particolarmente buono, se non qualche pezzo sparso e disperso di Astor Piazzolla e poco più.
Così, per eccitarmi un pò nella lettura, debbo andare al capitolo precedente (sappia il lettore che è mia costante abitudine di leggere i libri andando all‘indietro, dato che non sopporto la tensione di andare a vedere come vanno a finire: meglio sopporto la tensione di vedere come vanno a iniziare) ovvero al capitolo che parla degli anni che si trovano fra il ‘30 e il ‘40, ovvero niente popò di meno (anzi: tanta popò di più!) che dell‘Epoca o Età dell‘Oro del Tango che dir si voglia, con le orchestre che si ingrandiscono, diventano “professionali”, nel senso che i musicisti sono oramai dei professionisti che conoscono la musica in senso tecnico, e, stante anche le dimensioni dell‘orchestra, con quattro o cinque bandoleon, quattro o cinque violini, etc., nessuno si può più permettere di suonare a orecchio, o di improvvisare (e questa sarebbe l‘Epoca d‘Oro, il trasformarsi di un cuore che batte in una penna che scrive? mah…): il tango si diffonde via radio, diventa un travolgente fenomeno di massa e a volte perfino di Carrara, sorgono grandi, ma che dico, immensi personaggi che, essendo quell‘inqualificabile cialtrone che sono, mi rassegno a citare a caso, ovvero nel modo piuttosto distratto e confusionario in cui li ho letti e ascoltati: Carlos di Sarli, Lucio Demare, Azucena Maisani, Hector Pacheco, Cézar Strocho, Homero Manzi, Anibal Troilo, Hector Maria Artoila. Di quel periodo felice il citato Cézar Strocho – bandoleonista di genio – ricorda pieno di nostalgia che furono attive in Buenos Aires più di trecento orchestre, che vi furono indimenticabili collaborazioni fra poeti, musicisti e cantanti, indimenticabili esecuzioni di indimenticabili pezzi, indimenticabili serate, indimenticabili amori scoppiati in modo simile a quello in cui scoppiò il mio per Elisabetta (a quanto pare non sono stato il primo e probabilmente non sarò l‘ultimo ornitorinco che ha perso la testa al primo tango per la prima ornitorinca che passava (per il significato della parola “ornitorinco” si rimanda a una successiva nota in parentesi)).
Comunque sia, si, va beh, ti ringrazio Cézar Strocho, racconta pure quel che ti pare, ma tanto è inutile, è tutto inutile: leggo e rileggo il libro al capitolo in oggetto, ascolto e riascolto orchestre dell‘Epoca d‘Oro del tango, ripasso i nomi di poeti e cantanti ma non c‘è niente da fare: per quanto mi sforzi di indirizzarmi altrove nella mente torna sistematicamente il cantato di “Vida mia”, le lacrime mi salgono agli occhi, scendono per le gote, inzuppando infine il manuale che costa quasi cinquanta euro e che quindi meriterebbe di essere utilizzato in modo diverso che come sostituto di un fazzolettino. Tossisco, cerco di darmi un contegno, ma non ci riesco, è più forte di me. Scusate: ma a me che me ne frega della storia del tango, delle interpretazioni coreografiche durante la ronda, se esista o meno il “Tango nuevo”, visto che in ogni caso io sono un tipo all‘antica, e dunque, anche se esistesse, non me ne potrebbe fregar di più che del fatto che la NASA ha scoperto forme di vita intelligente al Tg 4 (pare che siano degli esseri monocellulari che si annidano nel microfono di Emilio Fede e che ogni tanto lo fanno guastare (è da questo precisamente che i tecnici della NASA hanno dedotto che sono “intelligenti”: o, almeno, più intelligenti di quelli che lo stanno ad ascoltare (con questo non voglio svalutare la professionalità e la buona fede del buon vecchio Emilio, al contrario: essendo io stesso, come vedremo meglio in seguito, uno studioso di filosofia, per quanto scassato, scalcinato e dirupato, ben mi ricordo che della sua futura e fulgida opera di direttore di una testata giornalistica ancora più dura della testa di Bossi parlava già più o meno nel 400 a.C. nulla di meno che un arcinoto arcirivale di Platone, il celeberrimo Gorgia, quando diceva che “Nulla è. Se qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile. Se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Se fosse comunicabile, sarebbe comunicata al Tg 4.”))).

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Forse per districarmi da quei tre pezzi che proprio come Elisabetta hanno preso a ossessionarmi fino alle ossa, anche se, almeno spero, non fino alla fossa, ho bisogno di qualcosa di più forte, di più profondo, di più originario. Ma certo! Certo! Il tango, appunto, originale, quello dei suburbios, dei bordelli, dei peringundines, dei gauchos e dei compadritos, questo è quello che mi ci vuole, quello che il grande Borges celebra con parole alate: “Tango que he visto bailar contra un ocaso amarillo por quienes eran capaces de otro baile, el del cuchillo…”: un ballo che, come Borges scrive in “Evaristo Carriego”, era praticato dai machos, ovvero da uomini duri, ancor più duri della suddetta testa di Bossi che, come è noto, è il vero zoccolo duro della Lega; uomini senza legge, che ballavano fra di loro al tintinnare del coltello perché le donne non erano disposte ad arrischiarsi in questa nuova danza, maleducata, spavalda, dissoluta e maledetta. Si, forse è proprio questo il tango di cui ho bisogno per risollevarmi dalla Grande Depressione in cui il ricordo d’Elisabetta mi sprofonda!
Faccio dunque ancora un salto indietro nel mio manuale e mi dirigo intrepidamente verso il suo inizio, e intanto che leggo mi faccio una lista dei dischi da comprare, ma solo per scoprire poco dopo che non è che questi tanghi delle origini si trovino poi così facilmente. Gira e rigira ne ho trovato solo delle versioni recenti, interpretazioni di musicisti che poco o nulla hanno a che fare con gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900. Dovrei farmi coraggio e provare a scaricare qualcosa da Internet dove, a quanto pare, si riesce a trovare di tutto, compresi i cori che dall’eternità i cherubini cantano all’Eterno nonché gli sbadigli dell’Eterno Stesso, che dei cori dei cherubini non ne può proprio più e, senza farsi vedere, si è messo le cuffiette per ascoltare “Hell’s Bells”, noto capolavoro degli ancor più noti “AC/DC” (a proposito, ma che vuol dire la sigla “AC/DC” Avanti Cristo/Dopo Cristo o che?). È solo che io intrattengo con le diavolerie della modernità più o meno lo stesso rapporto che i condannati alla ghigliottina con il mal di testa: comincio a cercare le versioni antiquate di pezzi come “El choclo”, “Señor comisario”, “No le hagas caso”, “Queco”, “El Entreterriano”, ma, ahimè, l’unica cosa che riesco a ottenere sono dei virus di nuova generazione che, come mi ha spiegato il gentile tecnico dell’assistenza on site, sono in grado bloccare il computer fino al giorno del Giudizio Universale, o in alternativa, fino alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, nel caso il Giudizio Universale dovesse arrivare troppo presto (anche se, mi si assicura, arriverà senz’altro prima di quello di Berlusconi).
Per di più, la lista dei nomi della Vecchia Guardia del tango, quella che per convenzione si fa partire dal 1880 e terminare con il 1920, comincia bene ma finisce male, molto male. Citando di nuovo cialtronescamente a caso incontro nomi come quello del violinista Casimiro Alcorta, del pianista Rosendo Mendizabal, un altro violinista, Ernesto Ponzio, Sebastian Ramos Mejia, che il mito decanta come colui che per primo introdusse il bandoleon nelle orchestre dei payadores – musicisti di strada che all’inizio avevano solo chitarre e che la tradizione – ma non Borges! – vuole all’origine del tango, e avanti così: Tano Genaro, Juan Maglio Pacho, Juan Carlos Cobian, Francisco Canaro, fino – ahimè – al maledettissimo e stramaledettissimo Osvaldo Fresedo, musicista che si situa a cavallo fra la Vecchia Guardia e l’Epoca d’Oro, compositore della versione originale di “Vida mia”, titolo fatale che, com’è del tutto ovvio, mi fa pensare di nuovo a Elisabetta e sollevare lo sguardo dal ponderoso e autorevole Manuale di Storia del Tango Argentino prima che cominci a inzupparsi eccessivamente di lacrime anche nei primi capitoli (ormai mi manca di infradiciare anche la prefazione, poi il mio compito a casa di studente del secondo anno può considerarsi soddisfacentemente concluso).

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