THREE YEARS IN VIA CLAUDIO MONTEVERDI NUMBER 3/A

DANZA MODERNA 1Non illuderti: chi vive di passione
non viene mai perdonato.
Non ti perdono nemmeno io
che vivo di passione.
P. P. Pasolini

Whatever nevermind
Kurt Cobain

Alle intime delizie e ai perduti orrori di tutte le mie stagioni all’inferno.

PROLUSIONE IN FORMA DI PREGHIERA

RELIGIO MEDICI

(Variazione sul tema del sonetto omonimo di José Louis Borges)

1.

Difendimi Signore. Difendimi dal passato.
Dalla miserabile attitudine al rimpianto
Dal vuoto, molesto e triste incanto
Dei «se avessi avuto…», dei «se fossi stato…»,
Se mai non muove, muoverà, né mosse foglia,
Senza che un dio del tutto disumano
L’imperscrutabile fato non lo voglia.

Vieni a chiamarmi e destami, e resta sulla soglia
Cosmico incanto, silenzio ultimo, oltreumano,
E così assorda il canto di sirena del futuro,
Vanità che ammalia quanto più sia immonda,
Che mai più al presente eterno si confonda,
Che mai più al vivo e vero istante faccia muro.

Non dal demonio che nella fiamma danza:
Difendimi Signore dai ricordi, e dalla speranza.

2

Difendimi Signore. Da chi ti paventa
Incarnato nelle consuete e vane forme
D’animali e d’uomini, e vede orme
Certe d’un tuo passaggio in sogni che tenta
La miseria umana e a cui stancamente
La stanchezza cede. Vieni, riduci in polvere
Denaro, potere e vanagloria, le povere
Eternità, che il tempo dissolve alacremente.
Caccia e disperdi i tuoi millantatori umani,
Che mentono i tuoi impensabili attributi
Ammantandosi d’oro, di pizzo e di velluti,
Che della vanità di vanità più sono vani.

Non dalla devastazione del tempo che procede:
Difendimi da chi ti usa e non ti crede.

parte prima:

COME UN’INIZIAZIONE

DUE FRASI (in crescendo)

1.

Guarda.

Guarda là…

….é la danza.

(Si, la guardo…

…la guardo…)

La guardo, si:
la guardo e vedo e odo
e odoro e gusto e tocco
il suo volo,
alto, sempre più alto,
altissimo,
col suo immane gorgheggiare di serpente,
coi suoi capelli ultimi e selvaggi,
levati in lenta cabrata di biplano,
petalo e vela di rosa erosa dal vento d’unghie della brina,
oh, voci di Giovanna d’Arco fra canti di deserti e nebbie,
fata protesa e appesa a un vasellame di castelli in aria
cristallina che infranti e spruzzati si innalzano
su vertiginose fondamenta di adescati e arabescati cirrocumuli
nell’esaltato e fragrante sfuggire in eco dell’alloro,
bandiera immensa di spalancato e splendido tramonto,
alba di cuore impazzito,
rincorsa d’amante a perdifiato
viva, vivida, sfrenata!

Guardala.

Guarda com’è alta ormai,
come va lieve il suo dire addio,
come si volta
sorridente, impensabile e festante
mentre batte con polpastrelli d’alabastro,
primaverili e avidi,
il tamburo di segrete vertigini del sogno,
al ritmo del fantino, della ruota
e del coltello!

Da qui
il panorama è un altro
o, forse,
è l’Altro!

Così
resto qui,
per questo resto qui,
assiso in un vertice o in un vortice
di balconi di frastagliate spoglie,
in un sognare di scoiattolo volante alla memoria,
fra dischiuse terrazze di pupille avide e ancestrali,
assaporando una canzone di miele, di bulloni e di rossetti,
ventaglio tremante e aperto
su queste ciglia d’indistinto corollario d’uragano,
frana e stordimento e dovunque un definitivo desiderio di fuggire,
via, da queste porte ansanti e già socchiuse
verso i lumi perduti nel tenebroso e vacillante
ansare del funambolo,
fra cori di nebbie e fantastico pietrisco di riflessi,
fra un intrigo di tenui sentieri di torbido velluto,
correndo immoto se si scatena e mi incatena il passo
se ovunque vi infrango e vi seguo
leggi amare, amarissime del finché devo,
tragici editti del finché posso,
decreti finali del finché il piede troppo lieve
troppo acuto e troppo stanco non scopra
come può e come deve e come pazzo
l’irreale tumulto dell’irreale realtà,
laggiù, laggiù,
di là dell’orizzonte impensabile
di un denso frammentarsi di cometa,
di là – oh, si di là! –
oltre il sognato stormire del risveglio,
oltre il dissimulato e divelto sussurrare di un Amleto
sottile velo a velare e disvelare il nulla,
carezza a cui pure ad ogni istante cedo,
germoglio inevitabile che puro intenerisce
pianto che mi frena
e mi ferisce,
angoscia che mi dilania
e in cui non credo.

2.

Davanzali risoluti, oltraggiosi, ornati
da un lontano stormire di frutteto,
spalancati da un’immane finestra di scintille
aperta da un’insaziabile galassia di narcosi
e da un furioso eruttare di deserto
di incalliti e sordidi rimorsi.

All’orizzonte si affacciano, o spiano,
cirrocumuli trapunti d’avorio, madreperla
e d’ogni sorta di biancori e di bianchezze
che misteriosi si avvolgono e si dispiegano,
che misteriosi si mostrano e si occultano
e poi riappaiono
più e più volte,
finemente e finalmente popolati
di stambecchi e gorgoni in orgoglioso equilibrio
su svaniti sudari di fandango,
giovane eredità
dei tempi del sole in bianco e nero.

Oltre l’orizzonte poi,
sfiorata da polpastrelli fatti di brezza di petali di rose,
ecco l’estasi di oscurità socchiusa,
ecco l’eco del sogno moribondo dell’orchidea impazzita,
laggiù, laggiù,
in fondo al pozzo di vino senza fondo
dove Ofelia sogna di addormentarsi con la luna,
immersa fra archetipi di encomiastico proclama,
spalmata di un succulento frinire di rubini,
incoronata da un sanguinoso turbante di emblemi senza meta
che si stringe, si avvita e si precipita
nel costretto e accecante precipitare dell’imbuto.

È l’estasi.

È un germe di colombe e di colonne impazzite,
e intirizzite,
è una fonte nervosa, stentorea,
ultraterrena,
issata fra le stanze solitarie
del labirinto ansante del tramonto.

Mi addentro prudente,
silenzioso,
timoroso di svegliare
un Minotauro che non dorme.

parte seconda:

SETTE ODI

1. ODE ALL’HIP HOP

A Ricky

Orde cenciose e stanche
sul disseccato e sterile confine
di quel che potresti definire
un borgo
o un sobborgo,
una periferia,
o un suburbio comunque
di quel che resta di questo povero universo.

Eccoli là.
stracci e straccioni difformi e informi,
intestarditi e impastati di lacerti
grigi eppure mille e mille volte colorati,
meravigliosamente algidi e violenti
eppure schivi, timidi e frugali,
eccoli là,
sotto una curva di lampioni splendidi,
splendenti eppure chini,
oscuri, vaghi e minacciosi,
razziando pomeriggi di un nulla razziato dalla polvere,
loto galleggiante sul fango dei torbidi riflessi
di una lacustre e deserta distesa di ventri di vetrine,
specchio di specchi a morte inondato
dalla sacrosanta purezza dei bidoni sfondati,
divelto inchiostro di ruggine di liquefatti marciapiedi,
trepido incurvarsi di un vagito di olio minerale e di cravatte
mentre intanto – ah, intanto! –
eccoli, vengono,
eppure immobili in un tempo
che nulla ha mai saputo e nulla saprà mai dell’orologio,
che meno di nulla saprà mai del calendario,
foglie svitate e poi avvitate e ancora riavvitate
in un vento inutile,
un vento gettato al vento, si,
fra giornali mai letti,
frasi mai dette,
volti mai visti,
lussureggiante e vagabonda visione
in volo nel lisergico vuoto a perdere
del videogame, della scommessa,
e dell’intrigo.

Dove andate,
orde e onde inutilmente inseguite
dal fatuo e maniaco ticchettio dell’orologio,
dalla manna di spossata polvere
e dal fatuo cimitero di fiori del calendario,
dove volate ora,
orde e onde cavalcando
escrementi di genuflessa e riarsa elettrolisi
fra catrame torrido, ultimo e spavaldo
in un ansioso melodramma di granite,
di bacino in fiamme e di foruncolo?

Perché,
perché così inafferrabili svanite,
perché non riesco più a seguirvi,
a sognarvi ancora qui,
qui e ora,
all’ancora in un porto di saluti e di incertezze,
perché vi negate infine
persino al giogo di frementi aspirine dell’oracolo,
alla neve del tenue e sbandato cotone dei confetti,
al funerale della fiaba accecata, smarrita e fatta a pezzi
al rombo dei camion che umiliati e distratti
da un fulgore di filo spinato e di compasso
travolgono il fiume dei fradici e frenetici gemiti del pongo
il già disseccato rivolo delle lacrime della biro esaurita,
esausta,
ah, abbandono ultimo dell’incarnata e incancrenita cartapesta!

Orde dunque ormai perdute,
si,
inseguite e poi ancora e ancora
catturate e poi perdute,
ancora,
dal teschio orrendo e smisurato del fachiro
dalla dolcezza insinuata e insinuante
del toro, del gabbiano e del giaguaro.

Orde sepolte,
dimenticate e dunque in fuga,
inseguendo un sogno di drastica flottiglia,
e nevrotiche suggestioni di cosmica
e comica profezia di baiadere.

Orde in fiamme, orde ardenti, si,
abbacinate e abbacinanti flottiglie in lontananza,
fra i raggi di un sole putrido,
sorridente e perduto in un taiga digitale,
in un deserto di circoncisi melting pot
e di balbettanti e recondite antenne di cosmici Caronti,
e poi, poi…

….poi….

…….poi…
…una lattina di Coca Cola, fosforescente e lurida,
schiacciata da giganti di stupida, stupita e sterile frontiera,
poi un pattino ubriaco, uno skate-board fradicio,
sconvolto e allucinato,
poi un’auto gongolante e derubata
su preghiere e brughiere di sincopi sgomente
e steppe di accenti senza giunture e senza vite
– e poi, ah, poi! –
stanco ciondolare di un bambino negro
sospeso a fili di chewing-gum e pulsanti,
disteso come un marciapiede
nel feretro ridente dello smog e del riflesso,
teso e proteso al gracidare glorioso e inutile del clacson.

Si accende così,
e mi accendo e, finalmente,
– ecco! –
una frenesia di pallone di cenci e di tappo di bottiglia,
eccomi, si,
templare annegato in jeans informi,
intreccio sussultando lampioni, birra e marijuana,
burattino appeso a un filo di yo-yo
uccido e vengo ucciso da spade di legno in guerre di cartone,
balzo e sobbalzo in un’eterna infanzia
di sughero e pozzanghere,
amico fra gli amici,
perduto fra i perduti,
palla di gomma fra onde di cortili.

2. ODE ALLA DANZA CLASSICA

Farfalla del femore,
pesce volante del tallone in fiamme,
abissale e agile tormenta
di un metatarso lieve come il vento,
sono qui ancora,
ancora mentre ti osservo
con occhi increduli di sponda,
però stanco, si…
stanco perché ancora
altro non afferro
che un rifiuto
muto o pronunciato sull’orlo di un rullare informe
di invisibili sussurri di ardesia,
e di serrata ghirlanda di ruggine e colbacco.

Poi, come sfuggendo su corolle di immobile tempesta,
– ecco! – un turbinare di gemme di compasso,
ecco un aprirsi cosmico di un nulla di ventaglio,
ecco un issarsi di bandiera, invisibile cifra
al vento abissale di un arco di trionfo
ebbro di visioni di Atlantide corrotta e
sommersa da un diluvio avito di sette e di sifoni,
di arenate meteoriti affacciate sorridendo
su un immenso portone tramontato oppure
su un triste oceano di onde inesistenti su cui tace,
abbandonato dal suo sigillo arido e definitivo
e dal suo stemma di cosmico asterisco all’equatore,
il galeone fantasma, stranito e straniero,
deluso fino alla morte dai suoi antichi corollari di cardano,
e così solitario ormai
nella sua sommessa preghiera di salnitro!

Sguardi, poi, a incoronare l’iperuranica pupilla dell’Idea,
monumento eretto a piramidale memoria sé stesso e cioè
a un dio che non ha nome, né volto, né altro simbolo,
né altro premio che non sia
una gloria che non conosce altro che il marmo e la cicuta,
immoto e immenso slancio verso un Altrove
ch’è quello stesso immoto e immenso slancio,
perfezione bramata, si, ma solo per non mai ottenerla
altro che in un trito e mitico passato,
in un triste ristagno di fangoso pianoforte,
fra scampoli di decaduto pianeta
e dune che non conoscono miraggio.

Amo tutto di te.

Ti sento
in ogni atomo d’osso,
falco del seno e del bacino,
rosa sulfurea della bocca inondata
da un nostalgico sogno di battigia,
fronte levata a un pallido tramonto
di vela e di stendardo!

Così,
ti rimpiango,
stretto fra cori di brina e di martello
ti lancio mazzi di fiori anneriti dal sipario,
scrivo per te biglietti segreti su ansie di vascello,
e tu allora ti volti, ancora mi sorridi,
per mano mi conduci a un’altra vita,
fatta di stasi incantate in astrazione
fra trine di vergine giaciglio,
a un’altra storia,
dove tutto è fragore di spade, di vino e di risate,
a un’altra nascita,
dove il dolore è solo una bambola euforica,
un mito arduo e bizzarro,
brama di chierici indemoniati dall’assenzio.

3. ODE ALLA DANZA MODERNA

Fragole di tossico e frenetico giaguaro,
comete di albe fossili e stranite dannazioni di canguro,
osseti ossessi dell’Ossezia,
salmone impazzito che va con la corrente,
fatua attesa di un presente
che non giunge mai, perché sempre più in là,
sempre più simile al vicino e irraggiungibile futuro.
Che dolce parlare e non aver nulla da dire,
dolcissimo viaggiare senza più un posto dove andare,
viaggiare per viaggiare, danzare per danzare,
così, senza più alcuna luce di speranza
e dunque liberi dal dilaniante incombere
di libertà e disperazione:
andare via vuoti, in un vuoto perfetto,
saldi eppure su fondamenta dissennate
di velluto, satiro e sequoia!
Avvitarsi così,
in uno schianto di sambuco e di sorgenti,
rullare in un fondale di setole e conchiglie,
amore dei nemici, nemici dell’amore,
fango impastato di tenebre e diamanti,
si, sangue indistinguibile dal sangue – ancora! –
non ci sarà mai fine
perché mai ci fu l’inizio,
o si è dimenticato e tanto vale….

Ed ecco finalmente il Demone:
un drago di biblico silenzio,
morte di tutti gli immortali,
eco di carne lentissima in deliquio,
di sensi che non hanno un dio, né un sé,
né un senso…..

4. ODE ALLA DANZA DEL VENTRE

Egitto di un mondo antico,
e dunque troppo felice, troppo crudele, troppo vasto….

Le colonne d’Ercole come fragili antenne di farfalla
divelte dalle nubi di gesso del tempo ciclico e del mito,
il deserto inghiottito dal suo stesso orizzonte
di dromedario immobile e piagato e piegato
da un carico insopportabile d’infecondo cielo:
sabbia come gettata in una gigantesca clessidra
di incredibile intestino di serpente,
ozio sbadigliante di bronzei coccodrilli in fiore,
piramidi a guardia d’un dio fatto d’inondate corna,
di gatti e croci piumate e gigli,
pesce annegato in un fiume di tappeti che non scorre.

Così – sognando – nel tuo sognato ventre
m’insinuo e tu mi muovi,
onda di fondotinta radente, di campanelli e seta
che distilli e che instilli
la morbida essenza dell’ombra e dell’ambra del felino,
il buio velluto della disossata e fragile albicocca.
Poi, tenue come disciolta neve,
mi sciogli e ti disciogli
discendo e discendi giù per le tue perle
e giù
per le mie vene,
schiena di giunco piegato dalla carne furiosa
di un mucchio di serraglio,
selvaggio stelo di ferito incenso
che si dipana in agonie di dattero
e aghi fluorescenti di sultano.

Infine,
un dolce perdersi
nell’intreccio sinuoso di fianchi e seni e polsi,
archi di miele da sempre tesi
a mediterranei stupori di broccato,
freccia da sempre infitta nel suo centro di corallo,
forma eterna e rugosa del granito,
bocca velata e inondata di sete e dalla sete,
tenera e dorata nostalgia di sangue,
sangue di festa,
orgia di divinità strette al macello.

5. ODE ALLA DANZA JAZZ

Ombre ansanti e ricurve del sassofono, devastato
devastante e scombinato palinsesto
di cacofoniche minuzie di mangusta,
cancelli annegati nel rovere agonico e stridente
d’un palcoscenico assetato di giardini pensili
nel circo dei biblici e babelici silenzi
del tamburo sfondato e della scimmia ammaestrata.

Ah, come, come è possibile
essere perduti
in questo labirinto di abbaglianti Minotauri,
come è possibile inabissarsi
fra e in questa paccottiglia di tappeti volanti ammaestrati
da una scimmia assetata di olio esaurito
e canzoni di vessata e clamorosa
ansia di fessura?

Vago
come solo una cometa impazzita
può vagare.

Corro e sudo
come solo la più fantastica e fantasmagorica
delle bilance festose può correre e sudare.

Così
m’inoltro in una grotta di surrogate ceneri
e svuotate pupille di crostaceo,
fra nostalgie di condominio ammaestrato
e specchi di organza rapiti da una notte di pony in calore,
progetto una vendetta di zaffiri e pause di ormoni
sacrificati alla dodecafonica regina di Dancalia:
oramai ebbro ascolto un eco di fari di macchine
a rotta di collo in un assolo di samba accecato di magnolie,
con il solo accompagnamento d’un basso rimbombare
di paradisi allergici, lisergici e
di inferni di nicotina e di sciroppo e poi..

E poi…

E poi: tutto è così
fatto e finito?

Ma, no, no, come dimentico!

Questa era solo la premessa,
promessa occulta
di un fato nascosto in una crepa livida e sottile,
l’intrecciarsi come tela di ragno e come seta
di coincidenze incredibilmente stranite
precipitando attraverso un imbuto di lapidi e leccornie
in un vaso di Pandora ancora vergine,
ancora intero,
ancora incredibilmente pieno di un meraviglioso arcano
di sotterranei rifugi,
amato e ricamato d’insipidi orrori
e di un fraterno e sanguinante e orrendo
e girovagante girotondo di miracoli.

Un vaso, si,
che sta in piedi su un solido e irreale
piedistallo alla memoria,
in perfetto equilibrio fra un arcano di orpelli e di rintocchi
stretto fra un futuro di furie e
un passato di gangli e colombe senza meta:
un sospiro, un attimo di riposo,
uno sguardo perso in un vuoto di bottiglia
e un’allusione di cancan,
e poi…

Maestro, per favore: musica,
si,
ancora,
ancora musica….

6. ODE A CRISTINA BOZZOLINI

Seduta parlando con l’allieva
levi la mano a esempio del tuo dire
in un gesto ch’è qui, ora,
– reale, si! –
pure lontano e passato
e irreale
come l’incredibile incendio delle sere equatoriali,
o come il settimo cielo che si annuncia
nel nostalgico e immenso incombere delle albe boreali.
Sorridi
– ancora –
e vedo Dio apparire fra le tue dita inalberate,
tese e lievissime
come vela incisa su un doblone.
Dio, si,
nella tua mano sospesa come un’attesa di….
e, si, come il profumo sinuoso e sottile del sandalo,
germe paradisiaco e fecondo
della troppo passeggera e umana, troppo umana
vittoria su tempo, spazio e gravitazione universale!

È Dio, ancora….

È il Dio che non premia e non perdona,
che non toglie né dà, che non innalza né sprofonda:
è il Dio pura essenza della brezza,
che scrive salmi di schiene inarcate
al calice trafitto della gloria,
inni di braccia tese al sole della perduta terra,
il Dio ch’è pura luce, pura altezza,
purissima piuma ebbra di volo,
che crea vortici di giravolte,
profezia di levità di punte infitte al cielo,
ieratica e incantata purità di un gesto
folle di troppa armonia.
È il Dio che cambia il toro in daino e l’aquila in farfalla,
e daino e farfalla in danzante idea,
e l’idea in te, e in altri che furono
o saranno come te,
Cristina.

Sessant’anni, che importa,
se l’eternità può essere
in un braccio che si posa?

7. ODE AL CSD VIA MONTEVERDI

Oh, gioia segreta delle porte che cigolano,
dei tubi a vista che si scrostano e che perdono,
morte a Venezia nella laguna innalzata
dalla doccia che si intasa e che ristagna,
frenesia di mistica febbre nella polvere annidata
in anfratti irraggiungibili che crescono
simili a castelli incantati o a grotte di Aladino,
estetica furia della ruggine,
del vicino di casa che protesta per il volume troppo alto,
allusione oscura della caldaia spenta,
degli avvallamenti nelle sale
che paiono tenui voragini di mirto o trappole per elefanti alati,
surreale parata dei divani in folle ascesa,
dell’acquario dove forse da sempre e per sempre
nuota un pesce invisibile o forse, chissà,
addirittura inesistente,
canto degli specchi incrinati, disallineati e curvi,
favola delle macchie di umidità,
delle nubi di fumo che avvolgono
l’inascoltato cartello che con mirabile pazienza
da sempre ripete VIETATO FUMARE,
fango oscuro e benedetto
dove cresce il fiore di loto della danza,
fiore di profondissime carezze
che colgo con un bacio di sudore,
di sanscrita memoria e sacrosanta fatica di volare….

…e non fui mai più perfetto, né puro, né felice!

AGGIUNTA DEL FEBBRAIO 2017

ODE AL TANGO

Il tuo corpo nel tango:
non più il tuo corpo dunque,
e non più
non mai il mio,
e forse
nemmeno il nostro.

Un vortice invece
spirale che vibra e che si avvita
in un turbine incontrollato ora
e poi lentissima
fra spirali di sognante
e florida e rorida galassia
immersa e persa
in una spirale di spire di galassie
altre che segnano e sognano un divino,
cosmico,
splendido giocare,
un vago vagare di stordimenti, ebbrezze,
vertigini e orizzonti,
gorgo di gorghi
in cui sprofondiamo
uniti in un per sempre
che solo un attimo dura,
ma che importa
se il tuo corpo nel tango
non è più il tuo e dunque,
come il mio,
non è più il mio
e forse non più nemmeno
il nostro,
se nell’abbraccio perduti
la perduta l’immensità dell’universo
amiamo,
sogniamo.
ritroviamo,
in questo corpo non più tuo
e non più mio,
in questo corpo non più nostro
e non più di niente e di nessuno,
o, chissà, forse oramai solo
di Dio.

parte terza:

INNO ALLA MUSA

SIGNORA DELLE VALLATE DAGLI OCCHI TRISTI

dalla ballata di Bob Dylan Sad eyes lady of the lowlands

Con i tuoi passi di cigno risorto dalle ceneri di danza
coi tuoi pensieri come rupi annegate in un liquore di Bisanzio
coi tuoi ricordi come fumo divelto in veglia funebre
e il tuo ombelico come nido di polline che migra.

Con i tuoi capezzoli come buio sepolcro di moneta
con il tuo ventre di miele, di lontra e di ventaglio acuminato
con il tuo inguine come delta di venere e mercurio
e la tua fronte d’ira falcidiata da diamanti:
con le tue dita di arabesco e la tua testa di vessillo.

Con le tue mani di scrigno che divora il suo tesoro
con i tuoi seni di limone segreto imbiancato dalla luna
con i tuoi occhi di sconfinato delfino quando il cielo nuota
ed i tuoi cantici di illuminato scorpione che si intrecciano nel vento.

Con i tuoi sogni di cornice inchiodata alle sue nuvole
con le tue tempie carezzate da pulpiti di aurora e di tramonto
con le tue labbra festanti di cristallo impuro
e le tue sopracciglia di riccio racchiuso in ruote di sconforto:
con i tuoi cori di fango e i tuoi sorrisi di carbonio.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
a quale cielo si tende il demone fecondo del tuo alloro
con quale tempesta hai scatenato i tamburini di Manciuria
come fermare questa frenesia di altare in fiamme?

Coi tuoi monili dove tintinnano il ruscello e l’usignolo
coi tuoi rimpianti di brina nel focolare appassito di Babele
con le tue spalle di orgogliosa torre e di sigillo
ed i tuoi fianchi cui il mare fa il verso con le onde.

Con le tue palme come specchiarsi di profumo
con le tue natiche di cupola rivolta verso il vento
con le tue guance di stanchezza erosa fra gli scogli
ed il tuo fiato come un crepuscolo inciso nel risuonare della nebbia:
coi tuoi sussulti di cerbiatto e le tue tenebre di trina.

Con i tuoi lobi di fenicottero cinto in vita dalla notte
con le tue ossa di cobra nascosto nelle orbite
con le tue reni come un coro di vallate in piena
e i tuoi sospiri come uccello scomparso all’orizzonte.

Con i tuoi polsi come tempesta impigliata in mezzo ai rovi
con le tue cosce di cerbiatto che si protende in fuga
con i tuoi piedi come giardino incatenato alla sua foce
e le tue lacrime come perdute aurore di fachiro:
coi tuoi saluti come un velo e i tuoi polpastrelli come calendario.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
come cancellerò ora il tuo nome dalle grotte
come si racconterà questo stupore di sciamano
chi monterà questi cavalli di concerti inceneriti?

Con le tue risa di muschio innalzato su nubi di viole
coi tuoi capelli come strenuo sospiro di bandiera
coi tuoi polpacci di avorio denudato dal martello
ed il tuo sesso come cripta scavata nelle foglie.

Con le tue grida di drago vergine sepolto nella roccia
con il tuo sangue di vino tenue che si desta
con i tuoi fasti di Biancaneve avvitata in spire di serpente
e le tue palpebre che levano calici d’ebbrezza:
con i tuoi vezzi di fosforo e le tue smorfie di farfalla.

Con il tuo mento dove brucano scorie di armadillo
con le tue orecchie fra congiure di intangibile corona
con i tuoi indici puntati in un nodo di fantasmi
e le tue ginocchia piegate a un dio che si dissangua.

Coi tuoi furori d’aquila segnata da rivoli d’inchiostro
con le tue scapole come stemmi su anfore di schiume
con il tuo collo di conchiglia cullata da brezze coloniali
e le tue unghie percorse da sentieri di velluto:
col tuo profilo di regina ed i tuoi pungoli di seta.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
stalattiti di vana attesa si sospendono amare
su un vuoto di stormire di cancrena
orge di sussurrata brezza si contendono il tuo volo.

Col tuo avanzare fra nudi di sussurri fracassati
coi tuoi avambracci poggiati su balconi di polvere annodata
con le tue ire di specchio intrappolato in petali di squame
e le tue sere annichilite in un porto di vaghezze.

Con le tue vene come un vello in estasi di rondine
con la tua schiena come lontano bastione in controluce
col tuo sudore di Saturno che gioca coi suoi anelli
e la tua lingua come rubino proteso sugli scogli:
con le tue narici di martora e i tuoi sapori di Calcutta.

Con i tuoi amori d’ombre cinesi proiettate su un tamburo
con le tue ciglia di terrazza aperta su abissali meraviglie di rapina
con le tue iridi arruffate in un astrale delirio di radici
e le tue braccia di congiura di fragole in attesa.

Con il tuo cuore rapito da veglie di liquame
con la tua peluria di angelo che geme nella pioggia
con i tuoi denti di reliquia in un trionfo di catene
e le tue note di flauto che si meraviglia in un sudario:
con la tua saliva di menta e le tue storie di sambuco.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
il libro aperto dei tremuli templi dell’abiura
decanta tori scoscesi e cirrocumuli morenti
e freme, e grida, e resta e si commuove.

Con i tuoi gomiti di tumulto di vernici fra le spore
con le tue falangi di spade incrociate su alibi di spago
con le tue vertebre esultanti di fragranze di sarcofago
e i tuoi cortili perduti fra cattedrali di cobalto.

Con la tua spina trattenuta fra refoli di tormentoso fiume
con i tuoi palpiti di fata lanciata su prede di Murano
con la tua lussuria orgogliosa fra una folla di mirtilli
e i tuoi segreti come polvere su alfabeti di letizia:
con la tua allegria di stranezze e i tuoi richiami d’acquavite.

Con le tue furie di Cenerentola raggrumata in un ossario
coi tuoi puledri assopiti su pistilli di aranceto
con il tuo dorso come culla di sonno e di antimonio
e il tuo bacino come demone illuminato dall’ebbrezza.

Coi tuoi polpastrelli seminando incanti di scintille
coi tuoi arcobaleni come promessa di archetipi e tempeste
coi tuoi cuscini amareggiati di dolcissima sciagura
e le tue giade acute di disorientato violino e saltimbanco:
coi tuoi divani diroccati e il tuo palato di ametista.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
perduta in una fonda nebulosa di fanghiglia
vedo congiunte la rosa, l’oro e la cicuta
la morte arida dei gigli e la sacra avidità dell’orco.

Con il tuo muco d’ambra preziosa negli albori
con il tuo femore come antico frammento fra le fronde
con il tuo delirio su calici rivolti verso il nulla
e le tue vesti come luce che si distende in una roggia.

Con le tue giunture come un inno in frange d’alabastro
con i tuoi amanti come urne di sfrenato corallo e di lentezze
con il tuo ano come cratere in una danza di pianeti
e il tuo orgasmo come folletto che gioca con cuccioli di rosa:
con le tue stanze d’agonia e le tue gengive di frantoio.

Con il tuo sterno come ardente trasporto di colomba
con la tua gola come gondola che incanta il suo fantino
coi tuoi intestini come catrame in un’ipnosi di vetrate
e i tuoi argomenti di labirinto rappreso in un presepe.

Coi tuoi polmoni di caravelle affittate a una bonaccia di sciarade
coi tuoi palazzi di Biancaneve avvinghiata a un santuario
coi tuoi colori sillabati da una zebra in perdizione
e le tue stravaganze annunciate da un morso di circo abbandonato:
con i tuoi assoli di tango ed il tuo stomaco di cornamusa.

Signora delle vallate dagli occhi tristi
dove tristi profeti narrano nessun uomo può giungere:
potrò finalmente prostrarmi alle tue volte
o dovrò ancora aspettare ai tuoi cancelli?

parte quarta:

DUE CANZONI DISPERATE

INTRODUZIONE IN FORMA DI MEMORIA

UN SUICIDA

A R.

Non ti ho conosciuto mai. Di te
So soltanto il tuo nome e che non eri
Quello che sembravi. I nostri veri
Connotati sono oscuri, forse non c’è
Altro modo di comunicarli che tacerli.
Stupito eppure, li sorprendevo guardandoti
Come fremere di foglia nell’atmosfera immota,
Quei moti oscuri dell’anima, quei silenziosi tarli
Che sono poi l’oscura e silenziosa sorte
Di noi tutti. Anch’io li ho conosciuti.
Anch’io so come si possa vivere perduti
In un orrore che fa la morte
Orrenda dolce come in estate una frescura.

Cercasti invano nel cuore la paura…

PRIMA ODE.

A D.

Io…

…io…

…io….non penso…

…non penso, no….

….non penso:
eppure vado.

Vado:
verso rogge fugaci in incredula e florida torsione
di agonie andaluse assopite
su bassifondi di circonfuso conio
e ferramenta di lisergiche correnti di cornici e…

….io
non penso…

…..io non penso e dunque….

…..io….

…io …non sono….

…non sono…

….eppure scorro.

Scorro
su are di vento
distillate ardendo misconosciuti stracci
di incoronato fulgore di olio minerale
e di diafano tabacco di colonia,
su fiumi di vino abbietto cantando
su basi di tempesta elettrica urinante
su computer portatili vanitosamente proni
a un abisso di vati tuberosamente caleidoscopici
e di salti al propilene infrangibili e infranti e poi….

….poi….

….poi
mi immergo nel sotterraneo diluvio
di frustranti codici di piñacolada
e di cavillante eredità di torride costanti,
annego in frane metropolitane crudelmente stereofoniche
e biancori ansanti di secondo bagno in fuga,
fra uno stanco galleggiare
di scrivanie erette come un profluvio di avidi scorpioni
e miserie stacanovistiche di flanelle abbandonate:
e qui….

….solo….

…..solo….

….qui….

…..alla fine….

….finalmente….

…..vedo.

Vedo
moltitudini
di moltitudini,
popoli di popoli,
mortitudini
di mortitudini.

E ognuno e tutti
chiusi in un destino infame e raggiante
di catapecchia assonnata
e di pistillo sepolto fra misconosciuti archi
di satura e sontuosa viscera di canzone
e chiodi – ovunque – scacciati da altri chiodi
e polvere – ovunque – scacciata da altra polvere
e silenzio che annega
nel silenzio.

E – soprattutto – no!
no! non una rivelazione
ma piuttosto:
una conoscenza.

Una conoscenza, si,
fatta dell’ardente e malinconica strage del giglio incancrenito,
di scandalose canzoni di struggente clausura di melone,
di gorgoni abbandonate al tormento registrato in playback
di sorgenti di scatolette roventi, rabbiose e rantolanti.
Una conoscenza, ancora, fatta di
canzoni di concubine perdute fra arcaiche strenne
di ubiquitario curvare di mezzelune inaridite,
e, si, si, fauci di Erinni innalzate dal cerchione in fiamme
riflesso da specchi di pomate spalmate fra la corruzione
di cosce inenarrabili di prostitute immonde
e cieli che non conoscono fine al loro abisso
si…

Perché io so che il mondo non è altro che
un immenso tribunale
dove tutti e ognuno sono accusati
e si accusano
semplicemente del fatto
di essere vivi
e per ciò solo intenti a
condannarsi reciprocamente a
varie forme di morte
una della quali
la mia,
si, la mia,
che solo questo è mio
mio
solo…

…solo…

….mio….

Ora………..
………mi disperdo, si…

Perché chi conosce
qualche altra cosa da fare,
qualche altro demone da invocare,
qualche altro dio a cui sacrificare
qualche altra fortuna cui aspirare?
Dunque mi disperdo.
E seguo
una nevrosi di scombinata segatura di neon in fuga
in un’agonia di via lattee claudicanti
cosparse di pupille principescamente metalliche,
mi getto in una dannazione di saltimbanchi
contorti, contaminati e concavi,
di autoclavi ammansite e sordide giunture di frattaglia,
su ritratti di scafandri imprecisati fra nebbie di grondaie
e su dislessiche ondate di cortigiane informi
sature ormai di saliva stagnante di corrida astrale,
di eresie di acqua ragia e rotocalchi imperiosi di galeone e….

….oh, che sorpresa, trovarti!

….proprio tu, proprio qui….

…..tu…..

….nella cantina dimenticata dal fuoco negro e appassito
e dal sudato riccio folle di manganese,
nel sussultante soliloquio del soldatino di piombo
nutrito da uno psichedelico humus di portali,
nella vergine prateria di ermetici streptococchi
in perenne lotta per il trono conchiuso del furgone…

…proprio tu, proprio qui…….

…….a scaricare una piantagione di consessi di assegno postdatato,
di cirrocumuli squarciati dal letame di formicai impazziti,
fra le stagioni neutroniche della cornice astratta e cinica,
tu qui
a denudare le cronache inchiodate dei fulgori marziani
e gli albicocchi alati nella taurina neve del sodomita di cartone
si….

Perché io so che il mondo intero non è altro
che un immenso cimitero
dove morti neppure troppo viventi abitano
in tombe in affitto a volte perfino
a prezzi ragionevoli, e abbastanza
confortevoli, e
ben arredate e ben scaldate in una
wasted land di crudeli inverni di illuse delusioni
e primavere uscenti di desideri impazziti,
un cimitero di furie nutrite dalla loro stessa furia
e di ombre e indecisioni e nebbie
un cimitero
dove a ogni domanda l’unica risposta possibile è
non so
si….

…non so….

……eppure in fondo,
laggiù
proprio nel fondo più fondo
nella fossa che inghiotte ogni altra fossa
e ogni fede, ogni sogno, ogni speranza,
ogni disperazione e ogni
rassegnazione,
e ognuno e qualsiasi altro genere di conforto, ebbene
qualche cosa la so:
perché conosco questo cimitero
meglio di tutti
meglio di voi
che mi guardate con un cannocchiale rovesciato
solo per dire che sono un microbo
e che niente e nessuno
è più grande di una pulce
si….

….si…

…. pulci eleganti e fragorose però
in un manto rosso di Cristo
flagellato dalla sua stessa brama di martirio,
vere perle in vere conchiglie di vero sterco
date in pasto a veri, evangelici porci
in ermetica tonsura di ermeneutica santità.
Foglie, si, solo foglie,
che non sono in nessun senso
di nessun ramo e di nessun vento:
pulci che non hanno altro vizio
che un destino di seme infranto
dal creolo odore del lupo sazio e addormentato,
pulci che non hanno altra virtù che dormire
e sognare d’esser pulci,
in un universo che non ha altro limite
alla sua densa e incompresa follia di nullità
che questo affondare verso tenebre adamantine,
tenebre di generosa e alacre salsedine
disperse nella loro stessa immensità di formicaio
si…

Perché io so
che il mondo intero non è altro
che un cervellotico inferno di colombe intristite,
strazio di Andorre e di fugaci ansie
di suppurata ferita di unicorno,
un inferno di sconsacrati cocci di bottiglia,
di rame fecondato da un sapore di scalo e di vetrina,
un inferno, comunque,
di distoniche carezze di sesamo e salvagente,
di sporadici flutti di sopore di crotalo ammansito,
e di spongiformi coronarie di scarabei in fiore.

Ho percorso ogni sentiero
di quest’incredibile,
incredulo,
increduto inferno.
Ne ho visitato ogni angolo, ogni anfratto,
e ho assaggiato ogni coda e ogni singolo capello e dente
di ogni singolo demone, e poi, naturalmente, anche
ogni singolo strazio di fiamma o di gelo che sia
di ogni singolo girone, e ogni follia di ogni poeta
che quest’antro di brume, sangue e salgemma ha generato.

L’ho visto in viso….

….quest’inferno…..

Ne ho incontrato
gli occhi,
ne ho scrutato
l’imperscrutabile abisso,
toccato il fondo senza fondo.
Ne ho conosciuto la fame nerissima
e irta di sfortunate, intime rose,
e di infranti microcosmi di scirocco.

Ho conosciuto
il pianto soffocato del bambino che annega
nel gelo della palude ossessa e impudica,
nella melma orrida e infame impastata
di merda d’uomo e saliva di rospo
della pedofilia.

Ho conosciuto
l’orco atroce e febbricitante
in maschera di prefica o di prete,
il gorgo untuoso e lascivo di una fede
ch’è solo un miasma putrido di colpe crocifisse
a croci marce di bestemmie travestite
da preci, inni e invocazioni,
a onore e lode e gloria d’un dio ignavo e pallido,
nostalgico solo di propria e d’altrui morte.

Ho conosciuto
la solitudine senz’aria, senza patria e senza fine
dell’esiliato, del reietto e dell’escluso.

Ho conosciuto
il grido stranito e straziato dell’amante
con il cuore spaccato dalla freccia al curaro,
e dal flagello di ortica e di rovi dell’amato.

Ho conosciuto
l’abisso d’illimitate sbarre del drogato
che dilania grida di verme pravo e calpestato,
stretto nella bara di chiodi del rebound.

Ho conosciuto
le minuziose notti d’alcolizzata insonnia affondando
in un baratro fermentato da indemoniati spettri
di uccello ridotto a macchia di crudo sangue per i cani.

Ho conosciuto
lo specchio senza ritorno dell’amico tradito e senza amici,
la stella a sei punte dell’ebreo innocente
epperò atrocemente colpevole
d’essere un lurido, putrido, porco, dannato, maledetto,
stupido, stronzo, corrotto, drogato, comunista,
negro, frocio, tardo, complottardo
d’un ebreo.

Ho conosciuto
la nera e folle risata della puttana che si ingegna
di offrire al cliente una luna di sangue marcio
ovvero
un buco di culo libero da affanni
in cambio di un danaro che altro non compra
che un sordido e furente rimpianto di esser nato.

Ho conosciuto
l’innominabile, interminabile terrore
di labirinti di vuoto impazzito e urlante
scavati da fauci di angoscia insaziabile
e saziata solo dal pasto feroce di sé stessa.

Ho conosciuto
il disseccato oceano, l’orizzonte senza orizzonti
della noia,
del tedio che si avvita in lucidi e suicidi spasmi
intessuti lungo festivi deserti
fatti di morta polvere e carne martirizzata
da uno scheletro che reclama i suoi diritti
di futuro nulla e di fantasma.
.
Conosco quest’inferno, si,
in ogni baratro, in ogni rivolo, in ogni goccia,
in ogni palmo, in ogni fosso
e dunque…

…dunque…

……dunque rotolate,
rotolate per me
perle e comete perdute della danza,
intrecciate collane di fumo inesorabile
e di ansiosa steppa di collirio,
virate in coro intorno a una Caballà di vento
abbracciate a sirene infrante di psichedelica candela,
scivolate su pianure di impensabile liuto di aeratore,
innalzate un grido di fantasmatico piccione posato
su un monumento al Piccione Qualunque Ignoto
un grido che finalmente ci si doni un abbraccio,
un abbraccio d’oblio, di scudo e di corona,
un addio che mani e piedi e busto e collo e testa
possano finalmente celebrare,
un addio in cui svanire
in cui esultare
con tenue e divino saltare di serpente!

SECONDA ODE

Angeli travestiti da nubi e nubi travestite
da comuni ospiti di strutto in un inverecondo ospizio
di miserie e legnami profumati di isterica lacca
e lambiti da una risacca di ciclopici vaniloqui di rossetto.

Cani giganteschi
eppure bastardi e randagi orinano, annusano e se ne vanno,
estraendo dal cilindro impensabili ozoni
di ali di liquefatto pipistrello e riti celtici frastornati,
masticando cervicali di chewing-gum ferito dal cerino,
e dissetandosi di bestemmie
intinte nel fruttosio o nel carbone.

Angeli….

Angeli travestiti da recalcitranti stemmi
di ammaliato fantasticare di rettile dipinto
o da impiccata insinuazione di fragile liocorno.
Angeli senza più casa e senza più desiderio di cielo,
inarcando vagli di ludibrio e scapole di ventoso uranio
fra le ombrose fronde del cupo sospiro della rosa ammaestrata,
angeli nascosti negli anfratti del leone incartapecorito,
angeli che russano addormentati
su un moribondo cuscino di stanchi fragori di stanchezze.

Si, ma….
….. angeli comunque…

Angeli, si,
eppure attaccati alla terra con furia di postino
squartato dal suo stesso spaventoso ventre di coriandoli,
angeli che somigliano a un tramonto
che sprofonda in abissi di concerto,
angeli che lasciano impronte di Tantalo
nel fango del diluvio e che accendono
scavi di infartuata vetrata nelle fiamme di Sodoma
e nell’archivio dei violini drogati di Gomorra.
Angeli, si, che non conoscono altro paradiso
che il sogno insospettabile dell’onnipotente fame,
angeli che guardano in viso il dolore e l’agonia
di un furibondo godere ch’è eco e nostalgia di Tutto e Nulla
e un tenue sospiro di autunnale coro greco
o di ramo appeso alle sue foglie.

Angeli, si, lo ripeto. E lo ripete
la cuspide musicale che in alto li trascina,
ridente e violenta, anche forse solo
per poterli un giorno precipitare
in abissi di luminescente e lamentoso fiele,
per seppellirli in un chiostro fatto d’ombre di lavatrice
incastrata in un canyon di furie di cameriere ammaestrato.

Angeli….

….comunque…

Angeli di debole e inafferrabile mercurio,
angeli assetati di Cornovaglie frastornate
dal fragore fulgido del cartone insinuato
nel ricordo perduto di un dedalo di champagne,
o in una misericordia fragrante di sdentati succhi gastrici.
Angeli che giocano con monetine di menta
solcata da fulgidi chiaroscuri di dolente brezza,
angeli frementi di febbri ereditate
da un crepitare di scirocco
e da una malinconia di lussuriosa Venezia tra le foglie:
angeli perduti fra fiabe di fangosi e illuminati
mercanti di strenne, di cianuro e di scafandri,
angeli che cerco con il ventre perduto della conturbante follia
del corridoio assaltato da un vascello d’ombre pensili,
e da un’eredità di scoperti sussurri di vitalba.

Angeli: eppure privi di ali,
eppure dimentichi di cielo,
eppure nudi
pur con ancora indosso
le bianche vestigia della luna.

Angeli senza cuore di tenebra e senza oro di nebbia,
angeli senza più un soldo o un solo centesimo di memoria,
profughi perduti nella mistica parvenza
di un tiro di cornuti bisavoli fra concerti di pallido elettroshock,
e annegati in intrighi di scivolosi orpelli di lupanare sulle spine:
angeli con ali spietate di vilipesa caffettiera,
angeli sardonici e misticamente legati a un futuro di vetriolo
angeli appesi a un vasellame di sconclusionata dentiera,
angeli luminescenti con ali di confusa e risibile cometa,
angeli chiunque siate portatemi via, via, vi prego,
verso quell’Onnipotente Ovvero Ovunque
che un tempo gli uomini chiamavan Paradiso.

parte quinta

QUATTRO ELEGIE PER UN’ALLIEVA

PRIMA ELEGIA

Liquore d’armoniosa e intangibile agnizione,
Coppa che immobile eppure già trabocca
Di un brindisi di grazia per la bocca
Arida di troppo nulla. Gioiosa redenzione
Del collo, curva lentissima del dorso
Che sale deliziosa dalla gamba già maestra
Di lievità, antica e altissima finestra
Aperta su un immenso che bevo a lento sorso.
Un piede appeso alla testa, appesa al cielo,
Giravolte di cirrocumulo in tempesta,
Onde di mare mosso, esaltato, in festa,
Il tuo busto nel vento del pianoforte come un velo,
Celeste assenzio, ali che doni col tuo gesto levitato,
Armonia che l’attimo redime, gioia d’esser nato!

SECONDA ELEGIA

Lente cabrate di dissanguato airone,
Uno scatto orgoglioso, un cielo immenso e antico,
Poi foglia tremante in un vento nemico.
Un ticchettare, un battere, come eccitato scorpione,
Il braccio proteso in arco, indietro, forse
Verso un improvviso splendore di memoria,
Poi ancora avanti, ruotando a gloria
Di un dio di fame e fiamme, ebbro di rincorse.

Voli, gazzella cacciatrice di leoni, taiga
O pampa che divora il suo orizzonte vuoto.
Ipnosi di cima, elegiaca cifra il tuo moto
Come eco profonda nel profondo si propaga
Tenero e tenue come la neve, eppure forte,
Immane come la nebbia, bello come la morte.

TERZA ELEGIA

Splendi: come di tersa giornata ora fatale.
Scolpita nel ritmo vai con l’angelico passo
Dell’Arte che non si può incidere nel sasso.
Come bandiera, fremente, lo zefiro musicale
Ti confonde con luci soffuse di crepuscolo
Con l’azzurro che cede al giallo, al viola, al rosso.
Il tuo profilo vago, sperso nel tantalico fosso
Del tramonto immenso, si fa punto minuscolo.
Ridi, giochi e ridi ancora, con l’ultimo bagliore
Della melodia che muore, ancora e ancora
Protendi il busto fatato come rotonda prora
Verso un’onda in cui annega il gesto con languore
Denso di distillata agonia. Lieve: così cede l’inganno
Amato alla vile e vuota realtà, marmoreo danno.

QUARTA ELEGIA

Echi di svanita eternità, simili al vento.
Cori di un Cielo perfetto e sconosciuto,
Sepolto con arcadiche mura, perduto
Col ritrovarsi in vita, irreale tormento
Di deformati specchi che dipana il tempo:
Fantasmi, monete false, polvere e vanità
Di vanità, caso di caso, immensità
Di sterile deserto. Poi i miasmi e il lamento
Della fine, del nulla che incessante infine
Concede la sua immensa e dolce nudità
D’oblio bianchissimo, finale carità
Di non più sentire o sentirsi. Ala di trine
Mano di cherubino: tu rubi al tempo
Echi di svanita eternità, simili al vento.

parte sesta:

IN EXITU

DUE FRASI (in calando)

1.

Il treno immobile
e il paesaggio invece
come corre via come
immobile
per quanto è veloce
per quanto feroce
divora il tempo
e il vento
e così vola
vola….

…via…

Vola via.

Come in un’allucinazione d’infernali albicocchi
come in un delirio lisergico
spremuto dal violaceo albore del neon
che spegne gli anfratti ultimi del sonno
e il sentore ultimo del sogno e il gelo demente della brina
vado e vedo urlando e poi ancora urlando
scintillii e scampoli di ansanti fuscelli di frullatore
e sorde campanelle azteche
iniettate in insalubri astrolabi di pollini,
precipito nel precipitare,
impazzisco d’incontrollate vastità e vertigini
m’inebrio in un’angoscia ineluttabile
di sospiri avventurosi
di notti scampate ai furiosi e futili rancori
del cosmico mulinare del muco vomitato
dai vuoti a perdere del veggente insipido del chiostro
e dal rutilante e demoniaco disperdersi
dell’antimonio in un antro assonante
di sé stesso:
notti inutili,
che pure ancora voglio vive
e vegete fra la pletora di argentate e vanesie upupe di scroto
e fra le corolle disincantate del vellutato frinire
dell’ambra e dell’ardesia.

Lontani lenzuoli – laggiù – stesi al ricordo del sole
accecante e accecato in un’estate che altro non era
– ora lo so! –
altro non era che il pretesto
per ricordare qualcosa, un’altra cosa,
anche allora…
….anche quand’era lì, viva e vera:
solo un indizio frammentato
di valli perdute d’Albania di Russia
di malinconiche aspirazioni
indemoniate da spezie di mandolino,
un riflesso vaghissimo
– laggiù! laggiù! –
testimone di un astro impazzito,
ignaro, gemente, e marchiato a fuoco.

Il treno è immobile
ancora
e dunque il viaggio
non conosce né mai conoscerà
alcuna sosta…

….mai…

…mai!

Fugge dal finestrino
la santità dispersa e perplessa
del satiro nascente col cilicio in fiore,
del fluorescente destino del cranio filmato
dall’amianto morente e dalla rabbiosa fuga del solstizio,
fugge
la purezza inenarrabile del cilindro indorato
nell’incandescente rosario del cartomante assunto in cielo
– ancora, si! ancora! –
ancora spio attraverso il vetro
un fuggente paradiso di fogliame e frutta,
ancora resto nascosto
dietro una tenda di nebbia sottile
osservando senza darlo a vedere
il centro sussurrante e sbracato delle Baleari in fiore,
umori di contratta fisarmonica di pianto,
vaghezze che altro senso, altra memoria non hanno
che una dinastia di faraoni inquinati e deformi,
perché
– si, sono qui, sono proprio io –
io che vi guardo
con occhi di frantoio e malinconia di minareto,
sono proprio io
che vi scruto annegato in un succo di pianoforti,
in un angolo dimenticato della circoncisa soffitta
dove giaccio cieco, e sordo e muto,
abbandonato
assieme a scribi defunti dalla nascita, salmodianti e umili
e umidi vampiri, e bambole idiote
di gomma da masticare e di bambagia.

Sono io, si, su questo treno
di interminabili e addolorati folclori in decomposizione
sanguinando da irreali ferite di chitarra,
disteso in una fossa comune in affitto
dove dormo ad occhi aperti indistinguibile
da irreali mummie di esteti impastate di ardesia e aspirapolvere,
primordiali mostri
che simulano un gigantesco sospiro di frontespizio.

Sono io, ancora,
che mi mescolo a un dissanguato
e disingannato pubblico di putrefatte distrazioni,
a scodinzolanti monete aramaiche in equilibrio di mestizia
e scivoli di un emisfero scontroso e sconosciuto
su orizzonti vertiginosi e mistificanti
di teorica disfatta e incrudeliti elementi,
giù,
a perdita d’occhio,
a vertigine
e a capogiro.

Ma poi…..

…poi….

….rifletto….

Rifletto che nulla conta
nulla,
che anche idea e bellezza infine
sono solo fantasmi cacciatori di fantasmi,
ombre che si aggirano di tasca in tasca
senza riuscire a divorare altro che sé stesse
e allora cosa rimane,
cosa dire, cosa fare, cosa pensare,
cosa maledire, cosa ci resta da bruciare,
solo l’ansia di bruciare, bruciare…
(…bruciare?….)

………….bruciare……

2.

Un brivido mi sorprende, e mi fa voltare.
Scatto come con una molla nascosta dentro al collo
verso una preda designata da una polluzione
di divinità assonnate e da un bisavolo contendersi
di fragili e spasmodiche cuspidi di odalisca in fiamme.
Ma non trovo nulla. Solo appunto
un soffio
un soffio che sembra un respiro,
e invece non è altro che uno stolto diffondersi
di scaramantiche radici di marmi in fiera,
una folle agonia di delirante e sommesso paravento,
un sospiro di petroliera cosparso di crasse invocazioni
a una divinità che dilania sé stessa
con fauci di invisibili correnti di contrari,
nell’urlo di un annuncio
di catastrofi troppo confidenziali e sorridenti
per poter essere credute.

Intanto, ovunque,
neri schiavi vengono scambiati con uteri di toro,
neri schiavi che coglieranno nero cotone
in inenarrabili piantagioni venusiane
sature oramai di vermi, brezze e matrimoni in bianco.
Neri schiavi
rivoltati in paradossali mugoli di fieno
e gravidi solstizi di alabastro,
schiavi che grideranno
smodati grovigli di maledizioni ingentilite
da un nastro di crolli di torri e templi,
e ritardi di treni diretti verso il nulla.

Io iene, io stesso vi invoco:
divorate questo cadavere
liberatelo dal peso di questa morte che non cessa,
da questa morte che non muore,
che non finisce
neppure con la fine!

FINE DI TUTTO
DEDICHE
O QUASI UN’APPENDICE

UN ULTIMO SOSPIRO

A Laura

1.

Ah, la tenebrosa cuspide dell’ebbrezza del rospo,
freddo cuscino aperto sul profondo gemito della lavatrice
e custode demente del cornuto alibi dell’ortica!
Non vedo tracce di avventata e pugnalata cenere,
non vedo centrifughe nubi sospese sul cimelio,
non vedo vasche arpionate dal feretro della lince
né altro torbido e sognante lavacro del sandalo.
Non vedo code o superfici avvelenate
dalla sciagurata peste del fantomatico cocchio della spina,
non vedo serre di ruggente e ruffiana ruggine
né scafandri armati di celibe vernice
o di scaltra veste di chitarra.

Vedo solo,
sullo sfondo di depravati e convessi fremiti di cielo
uno sterminio di ragni impiccati alla loro stessa tela,
alla loro stessa sterile trama,
al loro terribile arrampicarsi
su specchi di fossile crema mussolina
e vertigini di alambiccato veltro.

Vedo cromate e condannate speranze di caffetteria all’aperto,
vedo tazze ripiene di profumato lievito di schiena,
aspidi amare di gloriosa pietra sulle ciglia,
aghi di impazzita e vergine murena,
rancori di foglie avvitate in un vortice di dentifricio
tese al vento immortale e felice dello scoglio:
lassù, da quest’altezza senza cima
io vi guardo
mie ultime sterili e lascive
are di sperduta speranza!

Un mare aperto….

Un amore aperto,
di scandalosi e dissonanti diverbi di profumo
una sagra di festanti corolle di mistura,
un orgasmo di totem ossigenati dal canile
un ossario di tenebrosi spray di cartolina,
un duello di becchi argentati dalla salma del pontile,
un fulgente e ligio arcobaleno di sembianti liane di colera.

Ancora, più oltre,
folle in coro di sussurrato stemma di caimano,
nove teste e dodici corna senza drago
Caio e Sempronio reciprocamente divorantesi
in un’orgia di accaldati riflessi di cornice
e di archetipale imbuto di leccornia,
fra sprazzi di paludosa e argentea misericordia di stilema,
fra inarcati frammenti di intima salsedine amplificata dal colono
abissi di alcol, di tabacco e di fonduta:
e tutto per te, vita umana,
frase sconnessa che parli di altre frasi,
parole che inseguono parole
vento perduto in altro vento.

2.

Un universo di sterile sapienza il mio,
che non c’è universo che non sia tutto,
e non sia mio, che non sia
interminabile clessidra di stelle,
pendolo di inutili pianeti, pletora di inappuntabili galassie,
labirintico inferno di cartoline e feltro,
abisso vanamente adorno di fiamme di albumina,
dirupo di sognato centauro e di vero atroce e infinito buio,
voragine dove pendono stalattiti di gnomi concupiti e assordati
dal miserabile asilo di lacerate e malcelate veglie
e di assassinate feritoie di ermeneuta in fiamme.
Universo questo mio fattosi con gli anni
prigione indistinta in un corollario di puri picconi di magenta
e saluti e baci e abbracci alla stazione ferroviaria di Andromeda
e fra le fole di taxi sui balconi di Tannöiser.
Carcere ultimo e lercio,
fatto di balconi e di zampilli, imperscrutabile scolo di sconcerti,
frastornato dileggio di impudenti frattaglie,
città stanca e dispersa, crittogramma di disarcionati lupi,
tempio di demoni armati di filosi pifferi e bisunte cornucopie,
spiriti assetati del sangue senescente del canceroso giramondo,
altalene in studiato girotondo, in girovita,
giromorte, ah! come ti penso ora più intensamente
come ti vedo stagliata sullo sfondo
di un Minotauro armato di tappi di bottiglia
con uno scudo di nubi e un elmo di triturati sbadigli di formica!

Tu, sempre qui con me,
ombra che proietti una luce di elettrolitiche giunchiglie
e di ansanti gigli impiccati a uno stendardo di pistoni.
Sei sempre qui, sempre con me,
più di me stesso me,
me,
mia, mio,
mio io, mio Dio,
specchio delle mie sbranate brame,
specchio incendiato e disperso in un cortile di aspirine
specchio disarmato e disarmante che riflette
un comodino assetato di misericordiosa cruna,
soma di un dattilografo stentatamente accigliato e infetto,
ornato da un crogiuolo di giulivi e ondivaghi trapani di spugna
e anche, naturalmente,
da una mandragola di assetati labirinti.

Sei sempre qui, sempre con me,
mia dannata nutrice, mia furibonda compagna,
con me,
in quest’abisso di trine e di marmoree memorie di conchiglia,
frantumata in gigantesco servito di condoni,
sempre qui, sempre allerta,
con i tuoi sguardi di Satana addormentato fra le foglie,
con le tue unghie protese in uno slancio di lampadario,
con le tue grida che non distinguo
dal sopore distratto di un fulgente calendario.

Quasi un matrimonio il nostro,
quasi una perfezione la nostra reciprocità di assenze,
quasi perfetta, quasi felice
la nostra distillata e folle indifferenza:
quasi un cosmo il nostro perderci
nei nostri perduti e perdenti
atomi di sgranati sguardi.

3.

Iperbarico fulgore del concusso e atro catrame del loglio,
semi sistematicamente fusi
in un centrifugato serpente di mammelle,
vecchi e decrepiti segnali di ingannato collo di bottiglia
un raggio tutti vi attraversa ignaro
di sé, di voi, di ogni altro chiodo
piantato o meno che sia su palme di mani,
o palme di spiaggia grondanti di africano sudore di meretrice.

Intangibile graffito il cileno pugnale della volta del bollo,
intangibile ara il cielo quando un sole di chiodi di garofano
segnala aspirazioni di nebulosa di arabi e spremute
scudi, fantasmi di dattero e danze in costume nascente
sulla scheda sensitiva del coleottero ebbro di giaguari.

Ma ora so leggere, ora so ricordare. Ora so che il sogno
non è altro che la sola faccia di questa oscura medaglia in cui
fra graniti sepolti in un tumulo di drogate ceneri,
fra polveri ispirate dal sospiro tenue della formica,
fra tragedie annerite sullo scheletrito feretro del risucchio,
fra troie immonde e perciò meravigliosamente guarnite
di congelate ferite di scombinata e labile lussuria,
fra usure intente e intenerite e intangibili e intonse,
fra armadi di ammucchiate orme di codarda falena,
fra orchidee di vento sensibile al vanto del mandarino
fra orde di petrolifere cocchiere iridate di silenzio, si,
ora so intravedere che il destino di ognuno
è scritto sulla millantata cabala del conchiuso delfino
che cuce mare e cielo e si diffonde
in concimi di tela impregnata di furiosa poltrona
e di altalenante porcile di contrari.

Ma ciò che è scritto è scritto,
e non interessa me,
né gli altri
né forse nessun Altro.
Quello che non è scritto
voglio leggere, ridere,
pagine invisibili e defunte
voglio graffiare, voglio strappare:
I know what I like, and I like what I know,
getting better in your wardrobe,
stepping one beyond your show…..

4

Ah, la sommessa e sconsolata Venezia del tuo sguardo
soffuso incontro della foglia ammansita
col nerbo oscuro del silenzio
fra labirinti di concupita metafora di incarcerato quadrifoglio,
dondolando fra gondole di disperata ortica
e sfrenata indole di assordante e inondato cratere di verruca!

Si, la sognante, la profonda, la vaga,
l’intricata e indefinibile Venezia
delle tue iridi di coranico fuoco
intinto nei sordidi accordi della luna,
l’antica Venezia irta di speziati tributi di facoltosa lucerna
di innamorati stuoli attenti agli acuti febbrili del corallo,
la Venezia dimentica e dimenticata
del fiume, del pepe e dell’imbuto
labirintico intrigo di archi di polverosa, intima pece
e uccelli anelanti un nido di eczemi e di ventagli,
la Venezia dei dogi di plastica e sambuco,
disarticolata, frammentaria e stanca
urlando bestemmie di pizzicato segnale ferroviario
fra disamine di umbratile escrescenza
e putrida sbarra di sentori.

La meravigliosa, la putrida, la moribonda Venezia,
i ponti, i porti, le cattedrali inamidate del tuo sguardo!
Il bianco orizzonte intorno, l’avorio profondo della tua cornea
dinosauro disperso in un declivio di monete
ventura di accordi di azzerato mandolino,
il tuo sguardo, si, ancora, percorso da infiniti canali
adombranti un seno fulgente di moltitudini acquisite,
il tuo sguardo cavalcato, risonante e dipinto
da interminabili sentieri di arcuato pesce morto,
percorso dai mitici carnevali
maschere strette in un conclave errabondo di incancrenito toro,
unto di conchiglie, arroventato dal velluto,
il tuo sguardo splendendo
di ricordi di mercantili facezie di giaguaro!

La Cina di Marco Polo sembra oramai un mitico serpente
di vandaliche e marziane sirene sul liocorno.
Fatui fantasmi gli arabi pirati di vergine mulattiera di clamori,
vele al vento ora nelle tue palpebre inchinate e inclinate
al sogno benigno del sonno senza sogni,
a un ricordo di una bocca che ripete
di stare tranquilli
perché ogni cosa nasconde il suo perché
ed ogni perché nasconde
il suo privato Nulla.

5.

Asta di sordidi splendori,
di assonnati rubini il tuo da me respirato respiro,
la tua folgore eretta a magione solitaria
di uno spirito libero di incatenare aridi misantropi
e arcadi astratte e sognanti immortalate
sull’orlo di un mare di cornucopie di valletto.

Accanto vedo un conclave di misericordiosi vampiri,
un colonnato di verghe spaventevoli sorreggendo
mulatte sodomie di unicorno abbandonato.
Quando, quando tornerà la luna
quando si assaporeranno i suoi sapidi appunti di frumento,
quando la puntiforme agonia del manovrato ospizio
regalerà fondamenta di cinico fermento di battaglia?

Sospirati sensi del pianeta in costume,
sospirati sospiri dell’amante in camice di scolo,
sospirata brezza del mattino uccellato dalla rabbia arida del freno
quando l’ape sognante del liuto si rastrema ansando
su pirite di fresco indorato da spugne di corolla!
Io non ho né patria né orecchie,
io non ho sopore, né cruna, né altra bollicina di champagne
che risalendo nell’anima esploda nel mondo assente
con paradossale e informe cornice di scirocco!
Io non ho più nulla, amore, che possa ricordare
a te, a loro, o anche solo a me stesso
il tenue ruscello del frangiflutti scagliato
sulla parabola ansiosa della menta.
Non un solo corpo, non una sola anima,
non una sola parola, non un solo respiro,
non un solo sussulto, o brivido eterno o transitorio purchessia
che mi ricordi la labile luce dei tuoi occhi di sfrenata rugiada!

L’abisso mi accoglie, mi frantuma:
una rete orrenda di stralunati vizi di palombaro in coda,
un folle reticolo di girini arrancando
su filiformi correnti di mistica ferramenta di cordoglio,
un abisso di canti che assorda la sfollata fantasia della colonna:
cado, perché, se non vi è vuoto in cui cadere?

6.

Un abisso….

….un abisso di languente e rapinoso miele
di nebbie miste a clamori di fango, a essenze di frutta
a glabri e profumati ossi di seppia
derubati a un poeta fatto di scabbia e serre
triturati in finissima polvere
in finissima gruma
di ammaestrata nube.

Un abisso
fatto di splendente sale e sangue,
di the, di caffè, di lugubri agonie di tenero giglio imbalsamato.
Un abisso di vortici e di immagini del Nilo in piena,
ricchezza di un faraone macchiato di colon e di stambecchi.
Un abisso eretto come cucina e come tomba,
piramide immota a perimetrale e soave memoria di sé stessa.
Un abisso decomposto in cloni di avventurosa fibra tessile
un abisso dove non mancano bar e vie affollate,
guerre, orge di noia e sereni pomeriggi di domeniche
troppo vaste per essere interamente percorse dal silenzio.

Un abisso comunque, questo è sicuro. Posso vederlo,
toccarlo, respirarlo, umettarlo di brina con le unghie,
posso percorrerne il profilo stanco e arcuato,
acuto di guglie di farmaco stridente,
di stalattiti di sordido incanto di cianuro,
incantato da sonniferi e lassativi sodomizzati
in un’abluzione di acqua attorniata da concorsi,
un abisso di lattiginose, eterne tartarughe
un abisso che perdo
e in cui mi perdo,
vagando fra indistinte stanze di segnale
brancolando nel buio di accecanti balzi di osteria
implorando la guida di un sarcofago di crema,
inondando di lacrime la sordida ciurma dello spago,
un abisso che ingoio, che aspiro, che divoro
fino al punto da non poterlo più
distinguere da me stesso.

Dunque
io – e non altri, e non Altro! – ma io sono
quest’abisso di prime pagine,
di mostruose pagelle e di cruccianti sortite,
quest’ abisso di sconsacrati istanti
che assedia ogni sconsacrato istante,
che pervade ogni singhiozzo,
ogni speranza,
ogni memoria.

Io, un abisso fatto di sfumati e ingigantiti ciclopi di detrito
di lune traforate dal senescente quadrifoglio del letame
un abisso di latranti sanatori in fuga
su vermi di manovrati succhi di Leopoldo
un abisso di peroranti
e celibi ardesie sul manubrio.

Io, un abisso di colori attenti al minuetto,
un abisso che si attorciglia alle mie orecchie,
che inonda di contrito appicicume
le mie mani adoranti una cattedrale di freni e di tamburi,
io, un abisso che riempie la mia gola
di assortite bibite di vandalica mammella
un abisso che ara i miei occhi
di semi di seta e di scogli lavativi infitti
nel marocchino diluvio di selvaggia fanghiglia
e nel rugginoso sussurro dei broccati.

Un abisso di orrori,
che riempie le mie grida
di altro orrore
di lestofanti miserie fra brani di conati e struzzi
di misteriosi, loschi figuri
intabarrati in un bagno di incubati fiori di loto
fra tremori di piano bar e infantili angosce
di pescecane sfibrato e stramazzato lupo,
fra dipinti di disperato e quadrupedico cortile
fra storpiati dirupi e stelle mirate da vagheggiate finestre
e atroci misture di ventilatori coloniali.

Orrori fatui, vuoti,
per me, fatuo e vuoto,
zelanti, premiati, encomiabili orrori
minuziosi, scrupolosi,
pronti per la coda all’ufficio comunale,
orrori distrattamente comminati per inferni
fatti di nulla
che non puniscono nulla
che non distruggono nulla
che non arrivano a nulla e che pure
non riescono mai nemmeno
a essere
nulla.

7.

Grida….

Inutili grida che urtano
contro mura oramai divenute
cieche e insopportabili.

Mura di echi di labirintica trina di risate
e di pietrosa vanità di arida suburra
mura senza pietà né orecchi, mura di marmo e di murano,
mura pietrificate in un ronzio di squinternata mora,
cinta di crudeli abbandoni e inutili ricorsi,
scollate, a pezzi, decrepite, divelte eppure
bastioni inesorabili, inevitabili, invalicabili,
istanti di un assedio in cui colui che assedia è lo stesso
di colui che è sotto assedio, perché, si
I’m so tired I can’t sleep,
I’m anaemic royal tee
I’m a layer and a thief….

Si: il suicidio e i suicidi sugli scudi.
Mi odio e voglio morire, si,
I hate myself and I want to die, yes,
I love Kurt Cobain in primo luogo
il primo dei
fuori luogo.

Si, sulle prime pagine….

…..anch’io….

……volando alto
verso le brune e ardenti liturgie dell’irreale fama
anch’io sulle labbra di ogni grigio lettore di giornale
con un onanistico suicidio di briciole di stancata betulla,
un fanatico stormire di saluti ambisco,
anzi, pretendo, per un simile trasporto
verso un al di là di fangoso bollire di obnubilata fanfara
e di compunta brina abbracciata
a una cospirazione di maree.

Un al di là in cui capire,
in cui fuggire
scalpitando fra futuri sentieri inorriditi
intrecciati in scogliere di ermetico amianto e di sudore
un al di là che sia definitivo e vittorioso rifiatare
da tutta questa troppo labile e immotivata melma
che non so capire, che non so lenire,
palude laica e indefettibile,
pantano di storpi e di drogati,
palude di fuggitive sottrazioni
e di sostanze oscure inerpicate su edere di collage,
pozza dannata su muschi rifiutati
da una lumaca di scarti di plastico e bicocche,
acquitrino, si, di orrendi peccati
che non infrangono però nessuna legge
fossa di una dea inconoscibile
se non nel suo essere inghiottita
da una gola spalancata d’affogato
ansiosa di ritorni a superfici inesistenti,
perché tutto, tutto è melma, tutto è palude
dunque tutto è, se e anche, naturalmente,
invivibile, perché si ama
solo ciò che si ama
e si odia
si, solo ciò che si odia
destino inesorabile, inappuntabile, perfetto,
fatto appunto di mura inappuntabili
e, appunto, insopportabili, perfette,
un destino così duro che solo
un acciaio triste e immaginario potrebbe imitare
curvandosi sotto il peso di un guscio d’uovo
di una foglia, di un ultimo respiro, di una gridata preghiera,
di un ultimo lamento, di un ultimo grido,
di un ultimo…

8.

Non ho più di te altro che indistinti ricordi
mia indistinta Beatrice che scorrevi come sabbia,
in questa grottesca clessidra che è il momento
strozza inesistente fra le coppe del cielo e della terra
pura e mobile Verità dei mossi e puri sensi
occhio di frattale e sensibile colonna di friniti,
pupilla vuota eppure
protesa all’ineffabile orizzonte
che ancora pure in qualche modo
si offriva ancora come scontata e inevitabile meta
come ultimo scriteriato indaco di sperma
che si tuffa a piè pari nell’abisso.

Scorrevi con me,
e io ero in te,
e tu eri me,
sabbia fra le sabbie e dunque non mai sabbia
ma mistiche e arate campane del farneticante e friabile potassio,
fulgide, turgide e serenamente cullanti
barche di falliche e incrociate colline nelle brume,
alba di fantomatici terremotati incubi di struzzo
e codificate e algide strettoie di inveterato scherno di borsello.

Ma ora non ho più di te altro che indistinti ricordi e allora,
forse proprio per questo
il deserto mi viene incontro da solo
e proprio come deserto
e la sabbia da sola, anche lei,
e proprio come sabbia.

Così traverso il deserto, e le dune, e la sabbia
mentre si inerpicano attraverso sistematiche furie
di Minotauro ebbro di colorata e intossicata sirena,
di ammaliatrice e distillata afflizione di cloruri
francobollata a stormi di frementi tarocchi imputriditi,
come un drago cavalcando
piste asperse da ammirevoli frane di cognac,
fonti troppo alte nel cielo troppo bianco
che instillano disperazioni avvampanti di mercurio
e sventurate grida di marcita spugna.

Ma io….

….parlo, io….

…parlo eppure….

….non ho conosciuto mai la gioia
io….

…..solo….
……solo……

…………sempre solo, si………

………..solo un delirio di

leziose e avventate cave di spuma
di lombrichi lungimiranti e solitari,
di pianificazioni di fulgido e santificato meretricio
fra gli idolatrati cammelli in vuoto d’alambicco,
fra ombre avulse di arabi in nero
con scimitarre arroventate nella tenera albicocca
nel bianco sanguinare del quarzo dello stolido meriggio
misterioso e pingue, e perciò impenetrabile e assoluto.
Oasi sognate ingombravano le mie pupille ardenti di sudore,
un clamore d’acque assetava la mia sete
che di sé stessa solo si disseta
un vapore di lingue spongiformi sul solaio
mi impediva la vista
di un serpente avvolto in un guanto di escrescenze.

Avanzavo come schiavo spingendo
un frantoio di sussurri e combattuti resti di sciamano,
un disperato amore che acceca il sole negli occhi,
una nostalgia senza fine, perché senza fine è il deserto
che annebbia pensieri fatti di nebbia,
di orti di dimenticata infanzia di febbrile girotondo,
di molteplice e nera rosa di incoronati bassifondi
e di gelidi ventri di infermo contabile
avanzavo, eppure restavo.

Restavo
fra unna folla casuale di strabici mercanti,
in un fetore armonico di camomilla irsuta
di dilatati schermi di fontana,
riflettendo spensierati pensieri
su specchi dove incide in minore il mio lento,
inesorabile disastro,
il mio disagio di clessidra dimentica
di me,
del mio tempo inutilmente perduto,
sperperato, sprecato, dilapidato
lapidato
che non chiede più altro che una morte
che un più immobile e intuibile cessare.

9.

Ah, il freddo monolite della tua assenza,
dolciastro turbinare di cronache di Tavor
e franti semenzai di scorticato sermone immerso nel bitume:
nelle mie aspre stanze dilatate dal sambuco
m’inebrio del tremolante lombrico
ebbro della rabbiosa, satura ed errabonda insonnia!

Oltre
è un consiglio di pianeti di fragile anguria,
un rantolo di sciolta pinguedine sospesa su un balcone,
dei affacciati sul balcone odoroso della notte,
si, è lui, ancora,
il freddo monolite della tua assenza
che allude a severi passatempi di sottopagato arcobaleno
che diffonde megalomani sussurri di teiera
che sperpera argille di mobile e stentata mansuetudine,
che apre abissi di perdurante misericordia di limone
inamidato, inafferrabile, e infine anche
anticamente franato e perciò duro, ansa di fiume
e di coltello che squarcia con lapilli di ripida ventosa
viscere bifronti di attoniti sudari senza meta!

Mentine di vuoto cosmico,
aperitivi di mortale aneurisma di feluca
e la testa che gira immortale
intorno a una piramide
di piramidale vomito di Xanax:
e nessuno mi guarda
nessuno mi ignora
nessuno mi ripete
sei
nessuno…

………..nessuno.

Vago
fra demoni di spenta e spaventata ansa di betulla
fra intontiti sensi di sperduta cenere e fandango,
gesticolo inutilmente in un orizzonte di spine e di petrolio,
cerco in ogni pertugio, in ogni fessura, in ogni vicolo,
frugo, scavo,
mi immergo in ogni spermatozoo di ignorata landa
e in ogni sacco di fottuta e lurida immondizia e

…..nessuno….

…….nessuno.

Riemergo poi nell’orridamente scaltra muffa,
inutile resto di ogni pianto di bambino abbandonato,
mi adagio sospirando
nell’orgia di sospiri di ogni malato,
di ogni dannato, di ogni escluso,
mi drogo di solitaria nebbia impiantata
fra le corrose misture di fango e otturazione,
guardo ovunque,
anche fra il frastornato muggire di inviperite spugne
eppure
non trovo altro che quello,
infine,
quella nera, spaventosa pietra che mi ripete
che non domani
ma che ieri!
ieri!
ieri! sarò morto
morto
com’è morto
un morto…

È lei…….

………lei……

….lei, infine
quella nera pietra
che non ascolta le mie grida e i miei lamenti
ch’è insensibile e ignara alle mie carezze
di fragola, di ortensia o di mercurio che sia
ombra di impensabile montagna proiettata
dal mio scheletro di corride e spumoso vento,
tentazione di salma instancabile che mi inebria di ferite,
di nostalgia di feretro
e di non mai fottuta felicità.

Scelgo dunque, com’è giusto,
la via scoscesa, stretta e derelitta
del mio privato e perciò più che pubblico calvario.

Bevo il tuo amarissimo calice di vie affollate
e luminescenti insegne di vaporosi archetipi,
di offerte al dio increduto delle polimorfe sirene
della felicità stanca e ammansita
di cartelloni pubblicitari in bocca al vate
percorro calvari di niente e nulla,
bevo caffè e alcolici come un ardente fiume che ti nutre
monolite dei miei giorni perduti in sogni che sogno di sognare
di giorni che sogno di non avere già perduto
mia vita, mia morte, mio tutto
mia agonia…

10.

Ah, il demone biondo, trasfigurato emiro
che dorme appeso alla tua guancia,
pipistrello rovesciato su due piedi
fra contrarie sodomie di palombaro!
Io non capisco più un solo cantico o un solo corredo,
urto sui cristalli scaleni e inafferrabili del sonno
come impantanato moscone rimbalzo in una nenia,
come un cammello dannato non entro più in nessuna cruna,
tutte diventate catacombe di vellutato sauro,
tutte ormai troppo simili a ombrosi polmoni
a conchiglie adagiate nel fango atro e dissennato
di condomini di varechina e di petrolio,
annegati in scalfitture di mosche offuscate dal catarro
e da ritmi assassinati, stravolti, senza fiato,
scritture di scribi incancreniti nell’aura sacrale
di una puntuta saliva.

Fra le figure scaltre impazzite
che ora come coralli popolano una piazza di malcelato loto
scorgo un sentiero di caribù plastificati,
ma, ecco, non riesco a trovare
un solo, uno e uno solo frattale scoglio,
nessun ritaglio di bosco o di congiure
nessun frinire di scartoffia ammansita.
Non riesco ad argomentare un solo naufragio
che non sia di pietra sbranata o di polvere crudele,
di sottile corona o cordoglio ammaestrato,
sorgente impura di impure purezze
di franate verruche di giumenta.
Rimango qui, solo, fra arcuati depositi in celibato di strenna
fra argenteria barocca e portafogli,
solo si, come solo un uomo
privo di ogni valigia, scopo e bersaglio
può mai esserlo.

Mi rifugio così
in un etereo alito di antica porcellana
avvolto nel cuoio plebeo della formica,
consunto da lingue argentate di mitologica sardina,
da polpastrelli incurvati sotto il peso di arcobaleni bisunti,
accomunati da troppa scaltrezza e precisione,
da macchie di collina e penne che non hanno conosciuto
né volo né scrittura
e dunque nemmeno
l’innalzarsi sgomento vanamente tormentato
di un solo canto
di un solo grido
di un solo verso.

Solo
cifre di cifre,
cifre senza cifra,
senza artico collare di angostura,
senza misantropico grido di mollica,
senza disarticolata sospensione di calligrafici incastri di magnolia,
senza più una sola immagine allibita o infatuata
senza più senso, senza più speranza
per questi giorni stremati da un’alba boreale che si sgrana
fra rimorsi, smottamenti, dirupi, germi e stradivari,
il cuore impantanato in fontane di cui mai ho conosciuto
il crudele destino di messaggere di nulla.
Fontane fatte di conchiglie di marmo,
ornate da un putto di marmo che orina acqua di marmo
un putto, o forse un demone,
un angelo nero che orina nebbia e patrimoni impalliditi
sul sole straniero di un deserto di perle e di incrostati riflessi,
orrendo gigante, troppo vasto, troppo sterminato
un sole troppo inafferrabile
per non essere una prigione, una bara, un stretta di corda,
un gatto torturato, bruciato, impiccato,
un ultimo barbaglio di…,
un ultimo…

….sospiro.

SEI DISTRAZIONI O

PER ELISA

PRIMA DISTRAZIONE: IL SONNO

Squallidi amori dell’aneurisma di plastica,
ermafroditi Esseni dilaniati da un fervore di chitarra
spalancato e spalmato sul giallino chiaro poi oscurantesi
di una limonaia di tramonti, si,
e ancora:
la luminosa scheggia del tuo frastornante deliquio
il ventre arcuato verso una quarta dimensione inesistente
ah, come punge alata e gemente
la tua voce che acclama al mio calvario
mentre un sistema di genuflesse nocciole
si erge a giudice di un’alba schioccante di smeraldo
e anela a un filamento di corone
a un reame di nani e cenerentole imbiancate dalla bruma
mentre una sottana di martellante e scontrosa nebbia
si fracassa contro un muro di dimenticata corolla di sospiri!

Improvvisi risvegli mi dilaniano:
ebete dislessia del giaguaro dissolto nei turbini
a vuoto e ancora a vuoto del tormento,
perduto nella fogna ardente di broccato e di scirocco,
compasso orrido e fuggitivo
il sonno che disegna nel suo nulla
cori di fuligginosi rostri in un bagno di termiti
in cui esulta il fauno decapitato e l’eremita di cosmici bottoni
in cui nuotano delfini coatti in mitiche manette
di squinternato letame e di carezze,
si, si, il sonno che voglio,
il sonno che non è eterno e che non cessa
abisso in cui orchi setacciati di guinzaglio
e di immolata e rifranta corteccia di meloni,
preda inseguita da cosacchi di vernice e liturgia
l’atro mistero di inconsapevole buio che dimostra
che ragioni ha l’uomo
che il cuore non sente e non comprende…

SECONDA DISTRAZIONE: MERCOLEDÌ VUOTO

Ah, la tua fronte ardesia di liquori,
la tua fronte al tempo stesso Labirinto e Minotauro
gorgheggiante martirio di rose e di colombe,
la tua fronte pallida e oscura
torrido orizzonte nel tramonto!

Oh, si, ancora, ancora la tua fronte,
proprio la tua fronte
sulla tua fronte
come si alza in piedi e poi svanisce
in questo Giudizio Universale
in questo diluvio particolare, tutto mio,
infarcito d’asma pellegrina dentro al vento,
oh come si colora di albe appese al lampadario
questa mestruata genuflessione del corvo
infestata di coleotteri, di Caronti assassinati,
e di comici di ragia!

Il mercoledì vuoto si dipana
in inutili occhiate verso la porta
che inutilmente s’apre
per far passare altri
che tu non sei:
ed io con te non sono.

TERZA DISTRAZIONE: PER ELISA

Il fauno di ombelichi che siede sul trono vanitoso
del tuo paffuto ventre di biscotti
la colomba di martirizzato liquore di mantelli
che vola sul clitoride assonnato
e sul violento ansare della giumenta scrostata
e sulla zanzara in filigrana delle zolle.

Orgasmi di brine e trine
tambureggianti conigli inerpicati
fra le foglie e le sfuggenti fantasie del toro che sbadiglia:
e non c’è altra via, non c’è altro scampo
che fuggire come il vento che sui tuoi capelli
danza, si attorciglia e vola.

QUARTA DISTRAZIONE: MANCANZE

Mancanze di frivole e frodate giumente di carezza,
lordi esseni del fulvo fronte dell’Ontario
andando travolte da ondate di culle abbandonate
e arcobaleni di lussuriose misantropie di fantesca.

La brezza resiste, sia pur piegata
sul gelido trascorrere di un miope residuo di giudecca.

La domenica si dipana in volte di cocchiere
si arriccia su campanili inondati da un mantra di nebbioso corvo
si avvita e rivolge in sorrisi di mulatto e malizioso corvo
mi svuota le viscere con archetipi sorrisi di vomere e di pugnale
mi impicca a nubi di deserto frinire di miraggio
mi spinge in girotondi di fistola e di franato corno
e io grido in silenzio fino al sangue, fino al vomito
fino al calvo esplodere delle pupille

Vivo perché la vita mi trascina al vivere
vivo perché spero e dispero il tuo ritorno.

QUINTA DISTRAZIONE: AS LIKE AN ENDLESS END

Estinti e lascivi cammei di conturbata vernice
semafori rossi accesi in un accesso
di tramontante e martoriata crisalide di mitrie, si,
ed ecco un’angoscia risorgere come tomba dagli occhi
di una defunta e omicida e sommersa
mummia di smantellato e scriteriato ansare di bradipo
inumidito di alcantara e frangiflutti.

Essere dilaniato da fauci di vermi
da fauci leonine di cubi in un turbine di mastice
essere dilaniato da un martirizzato e martirizzante sospiro
di nostalgica abitudine e di sicura fine all’ombra di un cleptomane
dilaniato da passeggiate inseguite da un solstizio di canguri
dilaniato da dentiere di cassettoni ammalati di fandango
dilaniato da mistiche e artistiche campane
di fantomatici argonauti di fragile fustagno
dilaniato da bestie qualsiasi purché bestie
impiccato a lampadari di agile mustacchio
decapitato da sudari di fine settimana in latrine di carbone
fucilato da bestemmie di frastornato ed eletto sbrodare di dirupo
squartato da incroci di filo spinato e da rose di spine e di martello
arso da fiamme di masticata e infausta malinconia di mercimonio
torturato da ogni sorta di introverso costume di formica
imprigionato a vita in ogni macerazione e in ogni morte
e in ogni dolore e in ogni insignificante noia
di insignificante agonia
di insignificante significato
che non riesco mai più a dare
a questa mia non voluta
non goduta
non dannata
non esistenza.

SESTA DISTRAZIONE: SUNDAY TIME IN THE AFTERNOON

Trepidi fantasmi del peninsulare e profondo addio
dell’univoco e unico unicorno,
abisso senza risparmio dell’arbitrio e della mancanza
ecco il mio destino:
uno scoccare di superbe protuberanze di zefiri
un grondare informe di frenetiche collane
appena distinguibili da un trono di letame e di giornali.

Abbandonato mi abbandono al sonno, al pianto
e allo scomunicato frinire del pitale,
disperato mi getto in un funerale di giorni e di albumina:
e nessuno che io cerchi
più mi cerca.

DA “UN ADDIO”

IL TUO TANGO I

Il tuo tango
onda fra le onde
brezza fra le brezze,
tedio e lentezza,
tempesta fluente,
ridere di festa.

L’andare instancabilmente stanco,
il ritmo oscuro del bandoleon,
i cieli acuti e strazianti del violino
la troppo stretta cartina dell’Europa,
il vortice di vertigini,
l’immobile viaggiare dell’ebbrezza,
l’oceano valicato,
l’orizzonte perenne da cui sorge,
con il sole accecante,
cieca la nostalgia d’Altrove:
ah se la tua leggerezza ti salvasse!
Non sarebbe patito invano quest’addio
per cui morto e ancora morto mi vorrei
e ti vorrei,
mio amore, mia ferita,
che sanguini inutilmente,
se ogni destino infine s’assomiglia,
s’assottiglia,
se l’universo intero altro non è
che una rinchiusa stanza,
se non dura la gioia
più che il gioioso fulmine,
il culmine furioso
della danza.

IL TUO TANGO II

Il tuo tango
ultimo sfuggire in eco
di cosmico e abbandonato
grido e nido e rito di abbandono,
simbolo che a sé stesso
ed in sé stesso stringe,
che si avvolge e si svolge
giù, nelle viscere,
galassia immensa eppure persa
nell’infinità che neppure
sappiamo di non riuscire
a immaginare.

Ricordare il tuo corpo
avvinto e come vinto nella danza
mi fa male alle viscere dell’anima
come un tempo
mi ha fatto male guardarlo vivo e vero
e mi ferisce
come un tempo mi ha ferito
l’abbracciarlo
vivo e vero.

L’estasi la riconosci
solo perché al suo cospetto la parola
arrossisce,
trema,
e si fa muta.

La trovi
solo se e quando la provi
sai che è già perduta.

IL TUO TANGO III

Il tango.

Il tuo tango.

Il tango in fiamme.

Il tango uragano di sete,
nebbia o nebulosa di sospiri,
vortice di abbagli, di sudori, di bonacce,
fiume infestato della puttana e dell’innamorato,
coro altissimo dei cieli acuti e soverchianti
della terra da sempre promessa che si avvita
intorno all’immobile centro
della sua stella polare oscurata
da una nube di fango, di luna e di falene.

Il tango.

Il tuo tango.

Il tango in fiamme.

Il tango incredulo incendio
di nostalgia fermento.

Il tango pianura disseccata,
orizzonte senza orizzonti,
amato e disarmato abisso dei tuoi occhi
percorsi da un vento di sogni e di faville,
lontananza perduta fra perdute lontananze,
nomi impronunciabili fra speranze sorde
di un mondo fatto di parole
che non saprei dire.

Il tango.

Il tuo tango.

Il tango in festa.

Il tango languida e sfinita fissità di sguardo,
sudato ardore di carne bestemmiata,
di alcol tracannato
fra sguardi e scricchiolii sospetti,
strisciante, negato amore,
sepolto e nitido rancore,
odore di grasso bruciato,
di sughero antico e quasi marcio,
brezza salata nella sera
ansiosa di violino e di coltelli.

Il tango, si, il tuo tango…

Il tuo tango…

Ah, nostalgia dell’esilio impossibile,
ah, desiderio del desiderio,
ah, cadavere perennemente risorto
delle mie notti insonni!

Dove sei, dimmi,
dove sei?

Sei tu infine
a torturare la memoria
con un Gardel travestito da Pierrot
che piange e si addolora del dolore,
che lamentosamente si lamenta del lamento,
e che può morire
solo se muore la nostalgia
di cui sta morendo
interminabilmente,
sei tu che susciti
questo Piazzolla di cenere in tempesta
che esplora gli spazi cosmici
appeso alla boheme della sua fisarmonica
di vento fresco di risate mentre afferra con artigli
di aquila scolpita nella pioggia
una cometa di furia e di abbandoni,
sei tu che dal cielo precipiti come cometa
sorvolando un Pugliese che emerge
e che ancora poi sprofonda
in un oceanico coro di lentezze
aspre di fumo, di grida e ancora
di risate!

Non più sognare,
certamente.

Ma interrompere il sogno è impossibile
se è impossibile dormire.

Ah, se la morte per sempre svegliandomi
mi ridonasse sospirata consolazione
di un infinito abbraccio!

IL TUO TANGO IV

La gelosia:
perché non mi colpisce,
perché non mi rapisce,
perché
non mi tradisce?

Ti vedo come foglia solitaria,
abbandonata,
unica,
mentre ti avviti nei vortici
di un vento invisibile,
insensibile,
di una musica fatta del più abissale
e armonico vortice
di silenzi
che mai a questo mondo
si sia udito.

Dunque
se qualcuno di certo ti stringe
e ti porta
mentre balli
io non lo vedo.

La sala è grande e piena
eppure
è come vuota
se tu la riempi di un centro ubiquo
che ovunque la sommerge
di armonie.

La coreografia così
non conosce difetto
ed per questo che la gente infine
applaude
si alza in piedi
grida il tuo nome
ed per questo che io
non posso mai sentirla.

No,
non c’è nessuno attorno
e se ti guardo
è come se tu fossi ormai
sola con Dio
se nel guardarti in te si perde
quello che un tempo
si chiamava “io”.

IL TUO TANGO V

Ti vedo
mentre balli stretta a un lui
che amo solo perché altro non posso fare
che amare qualsiasi cosa tu stringi
o che ti stringa.

Tanto mi appare splendido
il tuo corpo perso nell’abissale armonia
di accenti e onde
e musicali intenti e movimenti
che altro non so che invasarmi nell’angoscia
e dell’angoscia folle di quel folle
che ama la bellezza
piangendo e pur sapendo
che amarla e desiderarla è lo stesso
che amare e desiderare nel sesso
la propria stessa morte.

IL TUO TANGO VI

Il tuo tango.

Il tuo corpo
nel tango:
non più il tuo corpo dunque,
e non più
non mai il mio,
e forse
nemmeno il nostro.

Un vortice invece
spirale che vibra e che si avvita
in un turbine incontrollato ora
e poi lentissima
fra spirali di sognante
e florida e rorida galassia
immersa e persa
in una spirale di spire di galassie
altre che segnano e sognano un divino,
cosmico,
splendido giocare,
un vago vagare di stordimenti, ebbrezze,
vertigini e orizzonti,
gorgo di gorghi
in cui sprofondiamo
uniti in un per sempre
che solo un attimo dura,
ma che importa
se il tuo corpo nel tango
non è più il tuo e dunque,
come il mio,
non è più il mio
e forse non più nemmeno
il nostro,
se nell’abbraccio perduti
la perduta l’immensità dell’universo
amiamo,
sogniamo.
ritroviamo,
in questo corpo non più tuo
e non più mio,
in questo corpo non più nostro
e non più di niente e di nessuno,
o, chissà, forse oramai solo
di Dio.

IL TUO TANGO VII

Giocare a non dir nulla con quel nulla
che non si è mai detto
e che non si ha più da dire,
parlare per non tacere,
tacere per non parlare, bisogna,
qualcuno ha detto, dire che non c’è nulla da dire,
ma per quanto ancora questo gioco
può durare?

Pensare alla morte
per avere qualcosa a cui pensare,
fare, dire, baciare lettere
che non spedirò a nessuno,
un testamento in cui non lascio
il mio silenzio a chi non l’ha mai ascoltato: eppure
solo un anno fa nel chiuso nel tuo abbraccio
il tango mi parlava, e io rispondevo e dunque
allora qualcosa c’era da dire e da capire,
anche se non dicevo nulla,
anche se capivo meno,
anche se…

Solo un anno fa…

Adesso invece
sono solo,
senza nulla più da dire, o da capire,
perché non ci sei tu
né ci sarai più
a dire quelle parole che l’oblio di me
in te resuscitava come un mago
il tuo tango.

Ascoltami!

– vorrei gridarti – strozzandomi
nella vanità di questo vuoto,
di questo abisso gelido, folle e informe,
catastrofe che nulla può distruggere se nulla rimane più
se non la tua, la mia stessa
assenza –

Ascoltami! Ascoltami, ti prego!

Ma tu non ascolti, non mi senti,
e non mi sentirai più.
se dormire non posso
e il sogno è tutto quello che mi avanza,
se la corsa al prossimo treno,
al prossimo taxi,
al prossimo aereo
vola più alta e più lieve
e più lontana
di una danza.

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