22 MILONGAS

tangoAnonimo Fiorentino

22 MILONGAS

Dal Circolo del Boschetto a Via Rocca Tedalda 40

DEDICA

1.

Capire le ragioni per cui vi si arriva può anche risultare molto difficile.

A volte accade perché un caro amico lo ha caldamente consigliato. Altre volte invece, perché un conoscente particolarmente e segretamente detestato lo ha assolutamente sconsigliato.

In casi speciali, può accadere che l’ispirazione insorga improvvisa e misteriosa da un manifesto mezzo strappato e strapazzato dal vento. In casi ancor più speciali, per non dire del tutto eccezionali, la freccia scocca da un annuncio adocchiato di straforo su un giornale abbandonato sui sedili di un autobus, preso di corsa per andare oramai nessuno si ricorda più dove, lasciato aperto alla pagina fatale da un ignoto quanto ignaro ispiratore di svolte esistenziali.

Più spesso però, sono sufficienti la curiosità di provare un qualcosa che non si è mai provato, oppure la noia, o il non saper che fare il mercoledì sera con la fidanzata o con gli amici.

2.

A volte, si scopre che l’ispirazione non è arrivata da niente in particolare. Si pensa e si riflette, e ci si rende conto di non ricordare nulla di preciso, e che dunque ci si trova lì più o meno per le stesse ragioni per cui ci si trova a vivere in un certo posto, o a fare un certo lavoro, ovvero per una massa di cause o pretesti talmente incalcolabile da risultare infine completamente indefinibile, persi come ci troviamo fra tutti quei fantasmi che si intendono concludendo un discorso ripetendo con l’aria di chi la sa lunga « eccetera, eccetera, eccetera.. ».

Questo però non è un fatto importante, perché, in effetti, le ragioni con cui e per cui vi si arriva non fanno parte dell’incanto.

3.

Il luogo è molto spesso la sala antiquata e disadorna di un circolo di periferia di qualche genere, culturale o meno non importa, affittato per poche o troppe lire, oppure preso in prestito da chissà chi e chissà come. Più raramente vi sono strutture ampie e specificamente dedicate, con quadri e luci a tema, mentre è praticamente impossibile, almeno dalle nostre parti, trovare delle scuole con nome altisonante, prestigio consolidato e una lunga e gloriosa storia alle spalle. Se si è in cerca di primizie del genere, occorre rassegnarsi al viaggio, e dunque prendere l’aereo e trasferirsi come minimo a Parigi o, meglio ancora, a Buenos Aires.

C’è da dire però che in questo caso ancora più che in altri, conviene senz’altro seguire la sempiterna saggezza che consiglia di risparmiare tempo, fatica e soldi, perché, come fin troppo presto ci si accorge, nome, prestigio e storia non fanno parte dell’incanto.

4.

I frequentatori sono per lo più persone di mezz’età, che prima di all’ora con danza e musica non hanno avuto mai o quasi mai nulla a che fare. Non sanno quel che significhino le note e le parole, probabilmente non lo sapranno mai e d’altra parte neppure gli interessa, visto che sono lì giusto per tentare di passare una serata un po’ diversa.

A volte – ma non capita molto spesso – si vedono in giro persone anche molto giovani, magari con molteplici esperienze di danza e di teatro alle spalle, e dunque culturalmente all’avanguardia e fisicamente preparate. Persone dunque molto belle a vedersi, affascinanti nel parlare e desiderabili nel portarsi. Questa è una cosa che risulta per solito molto eccitante, e sul momento produce ogni sorta di romantiche e come al solito del tutto vane fantasticherie, anche perché, per strano che possa sembrare, gioventù, cultura ed eleganza non fanno parte dell’incanto.

5.

Girando un po’ per la sala, fra gente che potresti trovare in un bar o in cinema qualsiasi, si vedono anche persone con vestiti e, soprattutto, scarpe eleganti, delicate e dedicate. In effetti, frequentando un ambiente del genere ti puoi abbigliare più o meno come vuoi, ma la scelta delle scarpe, propriamente parlando, non è libera, anche se non è del tutto obbligatoria.

Quindi, chissà: forse, per qualche imperscrutabile motivo, che però solo Cenerentola e il Principe Infelice sarebbero in grado di spiegare, le scarpe fanno parte dell’incanto.

6.

La musica, un tempo figlia unica e al tempo stesso possessiva e ossessiva madre dell’orchestra, proviene per solito da una della mille diavolerie elettroniche di ultima o ultimissima generazione, connesse a un impianto di amplificazione che però, in omaggio agli anni ruggenti e struggenti può risultare, almeno nell’ineffabile e irripetibile magia di certi istanti, un po’ gracchiante e improvvisato.

I pezzi sono quasi sempre dei classici reinterpretati infinite volte da innumerevoli cantanti e musicisti, e quindi può capitare che neppure i maestri sappiano dire di chi e quando fu la versione originale.

Da qualche tempo però, la modernità elettronica, che col computer si è infiltrata in ogni dove, ha mutilato le immutabili abitudini, stravolto gli schemi inamovibili, riempiendo così anche quell’angolo di perduto paradiso con inconsolabili quanto inutili rimpianti dei bei tempi andati.

Questo in principio può preoccupare un bel po’, perché, in effetti, data l’ingannevole complessità e la vaga e insinuante oscurità delle circostanze, si può anche credere che, non solo i bei tempi andati siano parte inalienabile dell’incanto, ma che addirittura ne costituiscano l’imprescindibile essenza.

7.

I bei tempi andati, di cui la nostalgia inespressa e inesprimibile segretamente e interminabilmente ovunque si respira, sono quelli irrimediabilmente perduti nell’immensità fatta di perdizione e sperdutezza della pampa argentina, quelli oramai per sempre sprofondati nelle luci oscure dei lupanari, a malapena ravvivate dallo scintillare degli sguardi languidi o feroci, dal tintinnare del vetro polveroso delle bottiglie sempre mezze piene e dei bicchieri sempre mezzi vuoti, dal vorticare aspro e sinistro della danza, che quasi per miracolo scorre con equilibrio sempre più precario sul filo vertiginoso delle note sensuali, delle parole oscene, e quello ancor più sottile delle lame porteñe, argentini riflessi di un acciaio sfrontato e suscettibile, di un coraggio assetato di sfide e offese che l’orgoglio come per gioco ferito potesse vendicare con quell’altro tango, quello che inesorabile apre il petto agli ultimi e sospirati sospiri della morte. Vampe che furono di vite furibonde e brevi, anime e corpi stretti nell’abbraccio di passioni ormai difficilmente nominabili e forse non più nemmeno vagamente immaginabili, dopo che a Parigi questo rito aspro e selvaggio è diventato alta o a volte perfino altissima cultura.

8.

I bei tempi andati dunque sono questi, ed è forse con un romantico e borghese sospiro di sollievo che possiamo confermare con chiara coscienza e serena sicurezza che sono per sempre e forse da sempre ormai perduti. Ma questo in fondo non rovina la festa e tantomeno la vita di nessuno, nemmeno quella di chi, per qualche oscuro motivo, li rimpiange seriamente, perché né la memoria e tantomeno l’oblio fanno parte dell’incanto.

8.

Le prime poesie di questa raccolta sono dedicate a Elisabetta, di cui mi sono innamorato nel settembre-ottobre del 2006 al primo tango, e a cui ho dedicato un romanzo dal titolo Tanghi Lontani.

Le ultime sono dedicate a Giovanni Eredia e a Stéphanie Fesneau, maestri della Pablo, dove ho imparato quel poco di tango che ho imparato.

Firenze, luglio 2016

VIDA MIA

Entre mi amor y yo han de levantarse
trescientas noches como trescientas paredes
y el mar será una magia entre nosotros.
J. L. Borges

Il cielo vuoto, si, quasi
morente,
eppure
torni in mente:
come un martello,
come un ritornello,
stella pallida e ardente,
stasi di vele, vagamente,
gorgo di miele e di mantello,
stella cadente, turbinando,
stella di stelle e fango
caduta dal cielo o dall’inferno
a inebriarmi di vino, candelieri
y tango…

ANGEL DEL TANGO

Ya no es mágico el mundo. Te han dejado.
Ya no compartirás la clara luna
ni los lentos jardines.
J. L. Borges

1.

Il cielo, ancora, del tuo abbraccio.
Specchio di specchio, fragile miraggio,
Febbre di colline, omaggio
Di albori, che nominando taccio.
La mano tua di neve sul mio collo,
Il lento e tenue ardire del tuo passo,
Estasi di gemma al suo midollo,
Grazia di denudato, puro sasso.
Va via il tempo su adagi di violino,
Su echi di tramontato contrabbasso fino
Alla curva fatalità di canto e pianoforte:
Ecco il tuo volto oscuro, estremo: ecco la morte.

2.

Ecco la morte. Coi suoi lucori
Di marmi, visioni, meraviglie,
Il suo vento impuro, le sue flottiglie
Di polveroso tempo, i suoi cori
Spaventati, cupi, ossessi,
Il suo franare di galassie,
Musica e canto degli abissi.
Il nero gorgo guarda fisso:
Cerco invano un tuo senso,
Invano domando, invano ti ripenso.
Il silenzio dura – non so come –
Anche al dolce sognare del tuo nome.

MILONGA

Plus de lendemain,
Braises de satin,
Votre ardeur
Est le devoir.
A. Rimbaud

Ali di seta. Ali lentissime di velo.
Ali come di vellutato airone
Planato su pianure di canzone
Immobili e vuote come il cielo.
Schiere di oscure, denudate schiene,
Stormi di rilucente seta, di trina e tacchi alti,
Di oscurità riflessa in scuri smalti,
Incanto e controcanto per le vene
Ardenti di andanti e ritornelli,
Tenue rifluire di tabacco e vini,
Di satinati satiri e ilari ospiti divini.
E noi, lontani come migranti uccelli,
Via, da questo mondo vuoto e tragico,
Che, s’è tuo, è alto, è puro: è magico.

SANGRE DE TANGO LLENA

Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch’alto mistero d’ignorati Elisi
Paion sovente rivelar.
Giacomo Leopardi

La tua pelle, stendardo di seta e di biancore,
Vaghezza di luna, via lattea di splendori.
La tua bocca fiorita, sfiorata, notturna porpora fra ori
Di impliciti sensi nelle ciglia distratte in un pudore
Che brilla fra lame di socchiusa conchiglia.
Cantico d’assenzio l’abbraccio dolce che mi artiglia,
Frenesia di comete, vortice il tuo respiro, fragore
Carsico, di fonda fonte, miele e fatale ardore
Sulla guancia offerta, cuscino alla tua fronte.
Dolce spina lo smalto, rosa di rose la tua mano, ponte
Sul mio abbraccio, catena e anello d’orizzonte.
Il fiume scorre dei passi come in lenta piena
Carne svelata che nell’anelito finale si disfrena:
Marea d’ali, naufragio immenso, sangre de tango llena.

ALMA DEL TANGO

Quali colombe dal disio chiamate
Con l’ali alzate e ferme, al dolce nido
Vegnon per l’aere dal voler portate.
Dante Alighieri

Senza un dove ormai, perso fra musica dispersa,
Nel buio vaghissimo e sommesso che dipinge
Di viva fiamma i suoi lucori: mano che si stringe,
Malinconia di brezza, che ferrea ci sospinge. Tersa
La translucida seta si accende di sensi e colori
Di milonga: il viola e l’oro, il nero e il rosso;
Trascolora il passo in rapsodia di densi chiaroscuri
Di cieli arcuati di chitarra, abissi di cupo contrabbasso.
Petto incontro al petto, e poi, respiro con respiro:
Brucia la pelle di profondo sale e d’agonia,
Brucia il tu nell’io,e il noi nel noi, fragile sospiro
Della ronda, tramontare d’incanti e frenesia
Fra le spaesate note. Altero, incantato, stanco,
Muore il serrato abbraccio, alma del tango.

GALLO CIEGO

Donc tu te dégages
Des humains suffrages,
Des communs élans !
Tu voles selon…
A. Rimbaud

Dorme, dorme ancora il sorriso sul tenue corallo
Della tua bocca inebriata d’ambra e di gemme
Di sospiri. Dorme ancora e ancora il cavallo
Orgoglioso delle reni, scultoreo volo, Icaro indenne.
L’avorio del chiarore si fa lucente giada
Sul rame profondo e dolce dei capelli,
Fra l’orchidea aspra dell’ombra che di pupille
Si accende, filo ridente di snudata spada.
Fonda conchiglia il tuo segreto orecchio
Mistero che ascolta e dove si ascolta il mare,
Bianchissima la guancia, argenteo specchio
Che il sogno riflette del silenzio. Poi chiare
E lontane scie i tuoi passi vanno dove si ridona
Al corpo la sua luce, nume che avvince, ultima corona,
Armonia che cresce, divampa e non perdona.

COLOR TANGO

Elle est retrouvée!
Quoi ? l’éternité.
C’est la mer mêlée
Au soleil.
A. Rimbaud

Come foglie, lievi, nel baratro lievissimo del vento.
Vortice folle di sorte e morte, cielo di vertigine,
Perla persa nel mare del vagabondo volo, tramonto
Di fate e di lentezze, e brezza fra l’ebbrezze, cecità vergine
Così va la tua grazia se il mio ordinare altro non è
Che un tuo comando. Così tremando salpa, ondeggia
E vaga la gondola d’inviolabili farfalle che vagheggia
Il tango, gorgo di valva, nubi di nuvole, senza perché.

Come foglie, lievi, nel baratro lievissimo del vento:
Ori di perduto candelabro nei tuoi occhi, archetipo
Di antichissima neve il tuo sorriso, riflesso alchemico
Al raggio del tuo seno, ara di carne che consuma il tempo.
L’armonia traluce, altra, e altro più non posso, e alto
E altro più non sento che un velo di acuto e puro smalto,
Le tue mani come foglie, lievi, nel baratro lievissimo del vento.

PARA DOS

Mon âme éternelle,
Observe ton vœu
Malgré la nuit seule
Et le jour en feu.
A. Rimbaud

Ah, l’anima non più intangibile, incorporea forma della carne,
Ma il suo segreto centro infine, il suo profondo, estremo Tutto,
Il suo ultimo abisso. Mutevole superficie al cieco flutto
La tua pelle nel battito del bandoleon come un carme
Di fremiti, fra gorghi di rossori e di sospiri che della tempesta
Del tuo cuore in estasi divelto sono le ondate in festa,
Lampi che gli occhi scolorano, nido a luci straniere,
A errabonde furie di sensi da altri mondi insorti, da altre ere,
In cui il vivere si stagliava alto e altro dall’insistere così,
A lasciarsi esistere, a lasciarsi andare all’esser qui
Ormai null’altro che attendendo il sonno in cui del tempo
Inutile e vuoto non conosceremo mai più bonaccia o vento.
Y por eso quiero otra vez oir al poema segreto de tu voz,
Es por eso quiero otra vez bailar ese tango: Para dos.

DESDE EL ALMA

Elle est retrouvée!
Quoi ? l’éternité.
C’est la mer mêlée
Au soleil.
A. Rimbaud

…dunque perché non risolversi, dissolversi nel baratro
Accecante, bianchissimo, nel dolce, ultimo oblio?
Perché vivere ancora, se la morte ‘sì tanto assomiglia al dio
Immortale che ci trasse al fato onnipotente e atro
Del suo incomprensibile volere? Fiume immenso
Fluiscono le note, ora languida calma, poi fragore di cascate,
Ora furiose onde di piena, poi disseccate e dilavate
Rive. Nei tuoi occhi la luce, l’enfasi acuta del violino, incenso
Lugubre, poi gioioso gorgo, vortice che piega in volteggi
Sempre più lenti e lievi, in liete fantasie di pianoforte,
Diafani, ebbri sensi in ritornello, echi di tempo e sorte,
Memorie di troppo perduti Aprile, ora risorti, se tu reggi
Corone di tenerezza nell’abbraccio, ora in festa, ora in calma,
E il silenzio cresce come infinito ventre, desde el alma.

CABULERO

Nos buscamos los dos. Ojalá fuera
éste el último día de la espera.
J. L. Borges

Un labirinto: di fiati, sudori, tenerezze. Corridoi d’istanti
In agonia, sfrenatezze, rossori, sfrontatezze, uguali si, ma solo
Perché tutti diversi, persi nell’inesausta attesa d’inatteso, che sempre
Dietro ogni curva attende, Minotauro d’estenuati incanti
Labirinto d’abbracci, stanchezza di stanchezze, lentezza di volo
Labile che trasporta dal sonno al sogno, mentre…
Ah mentre, non so: chi sa che accadrà mai nelle spire
Di quest’anaconda, vuota, profonda, di miele e fiele, di gelo,
E vampe d’infinità infinitamente protese allo svanire,
In un andare immoto sotto un cielo ch’è stelo, ch’è velo,
Sirena ebbra d’ignoto, divino vuoto che anelo, avvinto
E vinto da questo vino ch’è la mia sete, salata, arida fonte,
Ignota, occulta viscera d’inenarrabili sguardi, indistinto
Profilarsi di …, ultimo svanire d’orizzonte.

PARA PIAZZOLLA (LUNA)

Jamais l’espérance,
Pas d’orietur.
Science et patience,
Le supplice est sûr.
A. Rimbaud

Ah, lentezza, lentezza… pazza, pazza lentezza, spazi
Che si propagano, leggiadro funambolo di perle e giade,
Azzurra, eterna adolescenza d’ombre e miele, zaffiri di topazi,
Stanco fermentare d’incosciente febbre, d’incrinate spade,
E ancora e altro che più non so dire, no non so dire
Né dare, tango che ti rinchiudi e ti dilati in sciarade
Di fisarmoniche e disarmoniche atmosfere, d’ire
Gigantesche e tenui di passo e contrabbasso, chitarra, pianoforte
Incanti che non so capire, mano che non so carpire, fluire
D’orizzonte senza orizzonti che mi trascina, languida morte
Che di giro in giro ci bagna, ci accompagna, ocho adelante,
De tras, tigre fatale, fatata, agonizzante delle contorte
Rime di queste note ignote, remote, eco di pampa lancinante
Dioses di nubi appese al vento, amore cupo, tetro, abbacinante…

ODE DEL TANGO PROFUNDO

Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème
De la Mer, infusé d’astres, et lactescent,
Dévorant des azurs verts ; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif parfois descend ;

Où, teignant tout à coup les bleuités, délires
Et rythmes lents sous les rutilements du jour
Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,
Fermentent les rousseurs amères de l’amour !
A. Rimbaud

Lenti velieri, vele lievissime, come d’inavvertite ragnatele,
Su oceani di polvere, fra polverosa luce indistinguibili,
Inestinguibili. Orizzonti vuoti, che da ogni dove chiamano. Tele
Dipinte di miraggi gli occhi fissano le stelle di impossibili
Punti cardinali, disorientati anch’essi in questo cielo sconclusionato,
Ubiquo, dove ogni dove è ovunque se tu gli inconcepibili
Spazi, se mi stringi, come m’apri! Stanchi deliri in un fiato
Li percorrono, se tu, vinta al mio petto sospirando gonfi
Tempi profondi nel profondo tango. Così, fra brume di fato
Di nota in nota in volo aperto, disordinato stormo, graffi
Sul vetro, intarsi di disarmoniche agonie, sparse, riarse,
Che ad andare o a restare ci sospingono, solenni, alti, goffi
Aquiloni in preda a un vento intarsiato di stranezze, comparse
Cui sfugge delle scene il farsi, il disfarsi, il forse,
Andiamo, veri attori dispersi tra maschere di false farse.

OBLIVION

No habrá nunca una puerta. Estás adentro
Y el alcázar abarca el universo
Y no tiene ni anverso ni reverso
Ni externo muro ni secreto centro.
J. L. Borges

Scale rovesciate, poggiate su colonne che poggiano su niente.
Porte che sullo stesso niente serrandosi spalancano
Corridoi che sospingono a balconi che a un falso oriente
Di pietra si sospendono. Balaustrate su cui i passi inciampano,
Svolte che perdurano in spirali, increduli loggiati capovolti
Come animali supini arrancando al cielo vuoto, dove avvampano
Incendiati da un sole immaginario specchi che dai folli e sconvolti
Orizzonti dell’illimitato labirinto dilapidano d’ogni parte
Raggi che come spade si dibattono in duelli infine poi risolti
Da risvolti d’ombre, vaghe, irreali, astratte, che come l’arte
Più vere del vero agli occhi si protendono. Ah, spazi
Disorientati di Escher, simili all’oblio, all’Oblivion, che le carte
Rimescola e distribuisce ad ogni quarto, ad ogni passo! Pazza
Si protende la nota ai perplessi amplessi, ai vorticosi spiazzi,
Foglie che il vento d’autunno in mille ghirigori, in mille arazzi,
E scherza e spazza.

OTOÑO PORTEÑO

Me asombra que una llave pueda abrir una puerta,
me asombra que mi mano sea una cosa cierta,
me asombra que del griego la eleática saeta
instantánea no alcance la inalcanzable meta,
me asombra que la espada cruel pueda ser hermosa,
y que la rosa tenga el olor de la rosa.
J. L. Borges

Rosa. Rosa di spine, spine di rosa, strana, strana
Cosa, che mai non posa, mai, mai non posa… Rosa
Di voci, atroci, portentose rime, mulinello di vana,
Esausta farfalla, butterfly, papillon, mariposa,
Che mai non posa, mai, le sue ali di velo, di vele al vento
Vago, mago di colori e luce che cuce e ricuce la rosa
Con la spina, la spina con la rosa, dolce portento,
Dolcissimo tormento, otoño porteño, brivido
Bianco, stanco, come amando, amore che sento
Scivolar via col sangue, addio di bastimento, livido
Fiato di tedio, di lamento, grido di gioia soffocata,
Da sé stessa estasiata, dilaniata, ultimo nido, ultimo lido
Prima del mare senza fine aperto, inarcata, fatata
Sirena dell’onda che senza fine cresce, si posa, che inarcata
Si perde, che in carnale abisso si volge, si avvolge, si dilata…

PARA UN TANGO VALS

Ma femme aux jambes de fusée
Aux mouvements d’horlogerie et de désespoir
Ma femme aux mollets de moelle de sureau
Ma femme aux pieds d’initiales
A. Breton

La tua schiena improvvisa, onda orgogliosa che cresce verticale,
Che volge poi fiorita e rigogliosa ai fianchi, dove infonde
E dipana un vortice dissennato di dilatate scie, fusione astrale
Che sprofonda nell’abisso crudo del ventre, nudo che scende
In torrenti lenti, sempre più lenti, sempre più struggenti, verso
Il mobile flusso della gamba, confuso gorgo di veli che nasconde
E svela, nel ritmo fatale, sfrenato, quel sole vasto e diverso
Che il mare inquieto della milonga inonda di riflessi.
Quel mare che sullo scoglio del petto frange e rifrange il verso,
Poi riverso della marea siderale delle note, onda d’abbraccio
Che labile e lenta ci sospinge, ci costringe, fiato nel fiato,
Il sole della fronte all’ombra delle ciglia, così che laccio
E ghiaccio si sciolgano nel canto di sé stesso inebriato,
Indistinzione, delirio, istante fragile e perdutamente amato,
Goccia che torna all’inesausto mare, utero increato.

MEDITANGO

Ya no seré feliz. Tal vez no importa.
Hay tantas otras cosas en el mundo;
un instante cualquiera es más profundo
y diverso que el mar.
J. L. Borges

Oro. Oro di valli che si rovescia poi in valanghe d’orizzonte
Su pianure che fissano negli occhi un esercito di allineate
Lune piene, di soli distorti e afoni pianeti di liocorni. Un ponte
Si staglia tristemente, doloroso arcobaleno di ricurve fate,
Cariche del faticoso zaino, zeppo di ricordi, speranze, illusioni,
E polvere… Cosmica polvere, si, di altre vite mai nate,
Mai state vere neppure nel sogno di quelle mitiche stagioni
In cui s’ignora che il sogno è solo sognare di sognare
E che vivere è solo sapere che si sta sognando. Così le ragioni
Muoiono, rotolando pietre sulla cima d’un monte ch’è un franare
Di monti verso il fondo dell’abisso senza fondo: così nasce e perdura
La paura, la vuota sua minaccia. Io non ho più ragioni: solo il cantare
Mi resta, solo la festa di questo precipitare senza fine, senza cura,
Questo tango vero solo nel finale, perfetta agonia, femmina impura.

LE GRAND TANGO

Tardes que fueron nicho de tu imagen,
músicas en que siempre me aguardabas,
palabras de aquel tiempo,
yo tendré que quebrarlas con mis manos.
¿En qué hondonada esconderé mi alma
para que no vea tu ausencia
que como un sol terrible, sin ocaso,
brilla definitiva y despiadada?
J. L. Borges

Nubi di fiamme in fiamme. Lame però come spente, riversate
In un calice di lontananze, ingordo di tramonti. Un sollievo
Di vento un dubbio di carezze, e poi unanimi tornano, le fate
Dell’unione acerba fra amore e contrabbasso, i cieli dell’evo
Soffocato del triste pianoforte. Eccovi ancora acute frenesie,
Frenetiche lentezze, eccoti lugubre feccia del bandoleon che bevo
Con aceto di inutile mitezza, con slanci di crude fantasie,
Volando in un interminabile cadere e poi cadere, fra atroci
E teneri silenzi, in un franare inverso di violino, fra follie
Che cullano sé stesse in un rollio di ritornelli, ecco le voci
Antiche che a tracannare e a maledire mi protendo! Solo in queste
Risorgo, sia pure coronato di spine, condannato, inchiodato a croci
Di rose, a rose di spire… libero però dal tempo e dalle Erinni
Funeste, Oreste finalmente illuso, che del futuro che non esiste
Canta gli inni.

TANGO A VARSAVIA

Varsavia, 3 aprile 2011, Zlota Milonga

Ah ! les haillons pourris, le pain trempé de pluie,
l’ivresse, les mille amours qui m’ont crucifié !
A. Rimbaud

Debo fingir que hay otros. Es mentira.
Sólo tú eres. Tú, mi desventura
y mi ventura, inagotable y pura.
J. L. Borges

1.

Cielo di notturno silenzio dei tuoi occhi, sopito fuoco
Fra lacrime d’ebbrezza, fiorito e dolce stupore del sorriso,
Giglio sensuale come il loto, vampa che fa il respiro roco,
Onda che lenta si tende lungo il torso, sul collo che ripido e deciso
Sale al morso di miele delle labbra, alla lingua di rosa
Di fragola e ciliegia, al dente di levigato avorio che porto inciso
Qui, nel mio cuore che duole se ti vedo, o se ti sogno, penosa
Tenerezza, male che si dibatte quando ci sei o se manchi,
Perché sempre altrove è il luogo dell’amore, e dolorosa
La gioia degli amanti. Così, ecco il freddo rogo degli stanchi
Versi, ecco queste parole, vuote e tristi come un commiato,
Ecco il tocco tenue e stremato della nostalgia, ecco i suoi bianchi
Doni, ecco un’immagine che lascia senza mani, senza fiato,
Ecco un tuo gesto fatto di brezza, ridente, struggente, come alato.

2.

Velo di seta in ebbrezza la tua pelle, volo di seta su seta
La tua gonna, che avvolge e svolge la luna del sorriso,
Vita che si avvita nel mistico caos del sangue, segreta
Febbre, acre nostalgia del tango. Astri inondano il tuo viso,
La lenta e tentante carezza dei tuoi passi, che lievi
Tornano e vanno, tenue risacca, brezza, mare d’altro mare intriso,
Farfalla che su farfalla si posa e prende il volo. Levi
Un istante la testa, nel sigillato abbraccio dell’amante
Nascosta e offerta come biancore di perla nelle nevi
Di rilucenti oscurità dell’intima conchiglia, e in un istante
Di nuovo la sprofondi. E come il delfino l’arco teso del salto
Ridona al vortice dell’onda, così una nota tremula e distante
Ti ridona all’abisso, al gorgo di seta dei tuoi giri, alto
Come il cielo quando dopo la pioggia il sole ne fa smalto.

3.

Incanto, dove si cela il dio del tuo tormento nel tutto o nella parte?
Dimmi: dove inizia a far male la tua grazia, dalla tumida brocca,
Ardente, della bocca, dal rosso denso, intenso, accesso d’arte
Che strazia l’anima con estasi d’incenso? Oppure che scocca
La suadente freccia è la luna d’oriente delle labbra, l’insinuante
E obliquo sbocciare del sorriso, sole d’avorio che la rocca
Salda e acuta dei denti dissolve in una luce? E cosa ama l’amante
Di te, il diafano velluto della pelle, la giunzione ammiccante
Della vita con i fianchi, o il passo rotondo, elastico, ondeggiante?
Oppure è la voce roca che dal fondo dell’anima vibrante
Il filo delle tue forme avvolge e svolge in sensi di frusciante
Seta, e che velando e svelando fa di parti ottuse il tutto lancinante?

Io non so dire di più, se non che tu sei bella, nostalgia danzante
Di patria che ho perduto, seno di sole che s’offre dal levante,
Armonia stupenda, che quanto più vicina sei distante.

4.

Afferrarti, stringerti, perché, perché volerti, se anche il solo
Sfiorarti è poterti perdere, ultima sete e luce di speranza,
Ultima stanchezza, che forse non sei più che il volo
Labile di un sogno, vaghezza d’un pensiero che nella vana danza
Dei giorni m’accompagna perché all’inganno lieve del suo velo
Si celi questo deserto fatto di vento e tempo che si avanza
Inesorabile a quel nulla che senza vedere eppure vedo
Come sola eternità e solo essere cui la vita umana
Nel suo breve sussulto si protenda. Così, solo sognando ti cedo,
Tenerezza, e solo con passi di sconsolata, grigia e quotidiana
Nostalgia ti seguo nel tuo andare non so dove, stonato aedo
Che questa sorda ballata affida al vento, al caso, alla strana
Divulgazione del fato perché ti giunga, fato in cui non credo,
Caso in cui non spero, vento che non amo, cui più mi nego
Più mi lego.

APPENDICE GRECA

I.

PENELOPE

Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, oh lames,
Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,
Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.
A. Rimbaud

Itaca lontana, dalle torri d’argento.
Itaca cantata, nel tramonto silente,
Foglia in cui galleggia la corrente,
Infante di sogni in braccio al tempo.
Itaca alata, salata, del dolore:
Cuore di pietra, rifranto come l’onda,
Mare senza tempo, senza sponda,
Ebbra e perduta fragranza dell’amore,
Confuso com’è confuso ogni ricordo.
Oh diafana sera, oh morte in cui non credi,
Il canto che odi non conosce accordo
Se ciò che fu orizzonte è suolo indietro i piedi,
Se il viaggio finisce nel suo dissolto incanto:
Solo mi brucia il fatuo inferno del rimpianto.

II.

ANASSIMANDRO

Là da dove tutte le cose vengono, esse devono anche ritornare, secondo necessità. Esse pagano infatti l’una all’altra il fio delle loro colpe, secondo l’ordine del tempo.
Anassimandro

Ondate scure, lente come l’orma al sasso:
E’ l’intima, immota risacca della notte
E’ il rifluire del Tutto a quelle grotte
Ove l’amara vita anela al contrappasso.
La nera vasca riluce di sempiterne
Scie. Vascello armato di lanterne
La Via Lattea adorna di perduti raggi
L’arcano domandare che istupidisce i saggi:
Che resta di noi a noi stessi, supremo
Tacere delle stelle, se svolta il remo
All’atro porto, dove ogni luce è spenta,
Se altro è il mare che voglio e che mi tenta
Quello dove ogni simbolo si scolora e tace
La morte che non giunge a darmi pace?

DUE STUDI D’AUTORITRATTO

I.

QUANDO

Nadie hubo en él; detrás de su rostro (que aun a través de las malas pinturas de la época no se parece a ningún otro) y de sus palabras, que eran copiosas, fantásticas y agitadas, no había más que un poco de frío, un sueño no soñado por alguien.
J. L. Borges

Quando morirà “io”, non morirà nessuno, o morirà, forse,
Quel qualcuno che non sono mai stato. Una muta presenza
Svanirà dagli occhi muti e vuoti, nel vuoto specchio,
E muto, del mattino, e una muta assenza, la mia presenza,
Nel vuoto specchio, e muto, di altrui occhi. Vecchio,
Forse, vittima del tempo inesorabile, o, chissà, forse
Della mia stessa non più incerta mano, forte di una risoluzione
Che dimenticò ogni dubbio, che ogni morso, rimorso,
E ogni rancore si lasciò alle spalle, infine, per abbracciare
Quel nulla che nell’oblio ci promette la fine del percorso
Di illusioni aspre e deluse, e di memorie vaghe e amare.
Così giungerà la da sempre e invano cercata rivelazione:
Saprò finalmente chi è colui che si domanda “io chi sono?”,
Chi da sempre mi cerca, mentre io da sempre non ci sono.

II.

EPPUR MI SCHIACCIA

En los sueños (escribe Coleridge) las imágenes figuran las impresiones que pensamos que causan; no sentimos horror porque nos oprime una esfinge, soñamos una esfinge para explicar el horror que sentimos. Si esto es así ¿cómo podría una mera crónica de sus formas transmitir el estupor, la exaltación, las alarmas, la amenaza y el júbilo que tejieron el sueño de esa noche?
J. L. Borges

Un arido morso, morto dolore, arida fonte, da cui sgorga
Arido quel nulla, quel deserto uguale, avido e immenso
Ch’è il silenzio che da sempre dentro di me, nulla sentendo,
Sento. Un silenzio fatto di un buio denso, e così intenso
Che a volte luce accecante appare, pur nulla ancor vedendo.
Un silenzio che penso col pensiero, e che il pensiero ingorga,
Pur restando immenso, che parole diverse mena al foglio,
Pur restando uguale, che d’allegorie mi bagna, però restando
Quell’avido deserto, arido morso, morto dolore, arida fonte
Che sempre fu. Così vorrei gridare, però non mai gridando,
E vorrei domandare, non domandando, cos’è che questa fronte
Opprime e stringe, questa corona di un martirio che non voglio,
Che non ho mai voluto eppure che m’agghiaccia, m’abbraccia,
Questo peso lievissimo, che al cielo dell’abisso eppur mi schiaccia.

ODE IN MEMORIA DI..

Es, ya lo sé, el amor: la ansiedad y el alivio de oír tu voz, la espera y la memoria, el horror de vivir en lo sucesivo.
Es el amor con sus mitologías, con sus pequeñas magias inútiles.
Hay una esquina por la que no me atrevo a pasar.
Ya los ejércitos me cercan, las hordas.
(Esta habitación es irreal; ella no la ha visto.)
El nombre de una mujer me delata.
Me duele una mujer en todo el cuerpo.
J. L. Borges

Appoggiata al balcone che sul ciglio dell’orizzonte ti sospende, la mano levata come in un saluto che staccarsi non può
dall’ultima eco di quell’ «Addio!» impronunciabile,
che come l’onda sul mare da te mi separa e in te mi getta,
sospeso come il viola scuro nelle bianche nubi
che sull’ultimo verdognolo e giallino tremare del tramonto,
fra schiume di accecanti brine che si perdono in una bruma d’oscurità di cui nulla so dire se non «..di cui nulla so dire.. ».

Tu hai impugnato lo scettro e pronunciato l’incantesimo.

Il bardo cieco e muto muove le labbra,
imitando i movimenti che la sua bocca farebbe
se pronunciasse quella strofa antica,
che accompagna accarezzando dolcemente le corde
del suo liuto senza corde.

Il teatro tutto lo ammira
rispettando un silenzio senza fondo,
perché la pantomima risale ad abissi di tempo
di cui nessuno osa o può pronunciare la vertigine.

Così, nessuno comprende quel che accade,
questa è la Verità.

Ma se l’esecuzione rispetta il rigido cerimoniale
e le perfette proporzioni tramandate dal mito,
l’applauso sarà tanto fragoroso
che il tetto e le mura crolleranno sul bardo muto,
sul palco per il resto vuoto
e sugli spettatori,
che nulla sanno di nulla,
forse nemmeno che quella a cui hanno assistito
è una pantomima.

Tu hai impugnato lo scettro e pronunciato l’incantesimo.

Il mare è ormai privo di velluto.
Le teste tagliate in omaggio
al centro che eterno si avvita su sé stesso
affogano nell’abisso del loro stesso
interminabile dissanguarsi.
Oh, la vita, miracolo fra i miracoli!
Non vedi che come il sangue mai,
mai non cessa di sgorgare?

Tu hai impugnato lo scettro e pronunciato l’incantesimo.

Il vassoio d’argento è indistinguibile
dalla fonte cristallina di questo specchio
in cui la mia angoscia e il mio lamento
si riflettono inutilmente.
Già sono cieco:
già non vedo i tuoi più nei miei occhi.

Tu hai impugnato lo scettro e pronunciato l’incantesimo.

Io sono fra coloro che si impigliano
in inutili sillogismi,
nei vuoti sarcasmi del tempo.

Un’eternità è passata, eppure
eccomi qui, inginocchiato,
ad ascoltare il cielo vuoto e ancora vuoto
del ricordo.

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