(L’autore fotografato davanti a uno specchio poco prima dell’inizio della storia narrata nel romanzo)
Anonimo Fiorentino nasce alla fine degli anni sessanta in quello che, essendo in vena di esagerazioni, si può senz’altro definire come un villaggio sperduto nei Carpazi ungheresi, anche se, più realisticamente, si trattava di un gruppuscolo di case disperse lungo una stradina di montagna, cui nessuna autorità ha mai creduto necessario battezzare in alcun modo (gli abitanti della zona lo chiamavano con un nome che in italiano suona “Rocca dell’Aquila Dormiente” a causa di una roccia che, se osservata con quella stessa immaginazione con cui i bambini guardano le nubi, poteva sembrare effettivamente un’aquila con gli occhi chiusi). La sua sorprendente familiarità con la lingua italiana, che pare far dispetto alla radicale estraneità della sua nascita, dipende dal fatto che il nonno, di cui molti anni dopo erediterà tanto il cognome quanto la toscana passione per vino, sigari, barzellette, scherzi e facezie e sarcasmi d’ogni sorta, era un prigioniero di guerra italiano, per quel che si ricorda un sottufficiale, che, finita la Prima Guerra Mondiale, rimase dove il vento delle circostanze lo aveva trascinato. Quest’uomo, per motivi non facilmente comprensibili, si peritò di insegnarli la sua lingua natia con ancor più dedizione e pazienza di come aveva fatto con la figlia, prima di morire serenamente e – ahimè – piuttosto presto, come una volta facevano più o meno tutti i nonni.
Qualche anno dopo la sua nascita, i giovanissimi genitori del futuro autore di tanto romanzo si trasferiscono a Budapest in cerca di lavoro e di una vita più moderna, ma mal gliene incoglie, dato che, con modalità e ragioni degne di un incubo di Kafka, vengono dapprima coinvolti nei movimenti di dissenso contro il regime stalinista e poi nell’inevitabile quanto spaventosa ondata di repressioni avvenute fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 in tutto l’Oltrecortina. Ciò fa sì che in breve tempo la giovane coppia si trovi dapprima costretta a riparare nel villaggio originario che, essendo in pratica sconosciuto a tutti tranne che a loro, diventa il rifugio per un ansioso ma per fortuna molto breve periodo di latitanza, che dura finché non riescono a espatriare in Austria, dopo un viaggio attraverso le montagne, lungo e piuttosto avventuroso, di cui il nostro ricorda solo fuggenti paesaggi innevati, intravisti dal finestrino di un treno che pareva non voler fermarsi mai e poi mai. Una cosa del tutto comprensibile quest’ultima, dato che il viaggio, a quel che gli è stato raccontato dai genitori, avvenne per lo più a piedi, oppure in automobile.
Comunque sia, dopo un breve soggiorno in una località situata vicino al confine austriaco, i rifugiati vengono indirizzati a Parigi da altri compagni di sventura. Lì vivono per qualche tempo, prima di trasferirsi ad Amsterdam, poi da qualche altra parte che non ricorda e infine in Svizzera, dove a tutt’oggi risiedono la madre e la sorella.
Fra niccole e naccole, siamo probabilmente all’inizio degli anni ottanta quando, dopo le solite difficoltà e amarezze che da che mondo è mondo patiscono tutti gli emigranti di questo mondo, da qualsiasi parte del mondo vengano e in qualsiasi parte del mondo emigrino (difficoltà e amarezze che, molti anni dopo, commentando la prima pagina di un noto giornale nazionale, gli fecero affermare, fra lo stupore generale, che fra Firenze, Ginevra, Parigi, Amsterdam e Lampedusa le differenze possono non essere poi tutto quell’abisso che si dice), Anonimo Fiorentino, che allora Firenze non l’aveva ancora vista nemmeno con il binocolo, si allontana dalla famiglia per ineluttabili motivi di studio, che, come del resto era prevedibile, si trasformano nel breve volgere di alcuni mesi in un pretesto qualsiasi per andare un po’ in giro per il mondo.
Non è chiaro dove abbia preso l’ispirazione per fare un’idiozia di questo genere. Chissà, forse la colpa fu dei ciechi furori della gioventù, resi ancor più ciechi da un qualche libro di cui non ricorda il titolo, in cui aveva o credeva di aver letto che il mondo è l’unico libro che, potendosi stampare, sarebbe degno d’essere stampato, e che viaggiare è dunque l’unica vera scuola d’umanità, di saggezza e di vita.
A dispetto di tali rosee e romantiche premesse, dopo alcune vicissitudini su cui tacere è bello – vicissitudini attraverso le quali il cosiddetto “libro del mondo” gli spiega col quel rude sistema per solito conosciuto con l’inquietante appellativo di “metodo del bastone e della carota” (bastone sulla schiena quando sbagliava, cioè quasi sempre, carota nel didietro quando ne indovinava una) quali siano quelle tediose e irritanti incomodità che nei libri di carta pretendono il nobile appellativo di “avventura” – Anonimo Fiorentino si rompe le scatole a una velocità che, se non possiamo definire come superiore a quella della luce, di certo fu paragonabile con quella con cui arrivano le bollette (quelle della luce, certo, ma anche tutte le altre). L’inevitabile conseguenza è che ben presto, in circostanze un po’ fortunose, il nostro eroe trova il modo di sistemarsi in Italia – paese che ha prontamente adottato, un po’ perché non ne poteva più di nuovi treni, nuovi indirizzi e nuovi nomi, un po’ perché uno ne doveva adottare, un po’ perché in questo modo ha potuto adottare anche la lingua, il cognome e, soprattutto, il vino, i sigari e i dolcissimi sarcasmi di suo nonno.
Al di là di questi non poi così piccoli e piacevoli dettagli, quel che Anonimo Fiorentino veramente abbia pensato o pensi della sua nuova sistemazione non è chiaro, anche perché dopo alcuni decenni tutte le nuove sistemazioni, come le mogli, diventano vecchie e fastidiose. Ma, comunque sia, se qualcuno glielo chiede, lui risponde che l’Italia è un Paese che ama intensamente e profondamente – sebbene negli ultimi venti anni l’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi, da lui affettuosamente soprannominato “il Grande Bunga”, gli abbia fatto a più riprese rimpiangere, ancorché con prudenza e discrezione, il suo lontano e dimenticato villaggio nei Carpazi. Per quel che si ricorda, anche da quelle parti i programmi televisivi non erano un granché, però nessuno aveva la televisione, e questo, a quanto pare, bastava a risolvere molti dei problemi insolubili del mondo moderno.
Comunque sia, al di là dei pochissimi rimpianti, quel che oggi gli resta dei suoi anni ruggenti è un presente da esodato, che campa di lavoretti in giro qua e là, oppure qui e lì (oramai quelli su e giù sono soltanto un tenero ricordo), dei ricordi più fastidiosi che altro, e un futuro che la speranza dipinge ancor di rosa ma che – ahimè – di anno in anno si fa di un anno più breve.
Muore in data da destinarsi e luogo da stabilirsi.
Firenze, Marzo 2013
(L’autore fotografato a una milonga fiorentina poco dopo la conclusione della stesura del romanzo)