L‘ABBRACCIO DEL TANGO

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Già, la danza, già, l’abbraccio del tango…

L‘abbraccio del tango, la passione, lL‘estasi, il tormento dellL‘abbraccio: è questo il tema segreto della danza, che per lo spettatore che non ha mai praticato è invisibile e impercettibile, addirittura inimmaginabile, e che invece per i ballerini è tutto. È l‘essere uniti, incatenati all‘altro e all‘altra a rendere questa forma della danza così unica e così giustamente leggendaria, dato che per una volta “la leggenda” è forse addirittura inferiore a ciò che di solito si definisce “la realtà”, perché in nessun‘altra danza la connessione che si può creare fra i corpi e le anime dei ballerini è tanto intima, tanto struggente, stringente, costringente: tanto profonda, tanto emblematica, enigmatica e così abissalmente viscerale.
Il tango crea ed abbisogna di un abbraccio del genere – è un abbraccio del genere – perché l‘uomo deve guidare la donna essenzialmente con i movimenti del busto trasmessi al busto di lei solo attraverso l‘abbraccio che deve perciò creare una connessione piuttosto solida fra i due corpi.
In questo modo la reciproca interdipendenza fra i ballerini diventa totale, dato che la donna non può muovere un sol passo se l‘uomo non lo marca, e, viceversa, anche il campione del mondo in carica nulla può fare se la ballerina non lo segue, non lo sente. Fra la di lei fronte e la di lui gota, fra la di lui man sinistra e la di lei man destra, fra il di lui braccio destro e la di lei a volte così languida, immensa e denudata schiena: fra il di lei braccio sinistro e le di lui spalle, fra la di lei man sinistra e il di lui collo, fra i due petti l‘un l‘altro ora dolcemente, ora strettamente appoggiati, ora lontani e poi vicini – troppo vicini – si crea un dialogo di aromi e fremiti, di sguardi e tremiti, di recondite paure e carsica eccitazione – eccitazione della paura, paura dell‘eccitazione – un invitarsi e un incontrarsi, un velarsi e rivelarsi di sguardi, di rossori, di palpiti, di assensi e di rifiuti che solo i praticanti del tango possono capire, perché altro non c‘è al mondo che il tango che spinga la conoscenza tra il proprio e l‘altrui mondo interiore fino a questo livello di profondità: ogni sia pur minimo palpito, ogni sussulto, ogni timidezza e ogni arroganza – e ogni arroganza mascherata da timidezza e ogni timidezza mascherata d‘arroganza – ogni forza e ogni debolezza – e dunque ogni forza mascherata di debolezza e ogni debolezza mascherata di forza – dunque ogni e qualsiasi maschera, e qualsiasi maschera che ogni altra maschera copre fino a quel velo immenso e sommerso che chiamiamo nostro volto, nostro spirito, nostra anima, nostro io: in questo abisso si sprofonda e vagando e divagando ci esplora e ci conosce il tango, nota per nota, languore per languore, timore per timore, tremore per tremore.

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Quelli che – forse per sentito dire da qualcuno che lo ha sentito raccontare da qualcun altro che l‘ha visto leggere – dicono che nel tango l‘uomo ha la parte principale e che la donna conta poco, non hanno capito nulla di questa danza chimica, lirica, alchemica, frenetica, di questa ebbrezza lenta, violenta, di questo vagare cieco e implacabilmente sensuale come di chi proceda bendato e nudo in una stanza buia cercando a tentoni un altro corpo bendato e nudo. È vero, su un piano che potremmo definire “tecnico” l‘uomo ha il triplice, gravoso compito di guidare la donna, di interpretare la musica a livello coreografico, oltreché emotivo, di tenere sotto controllo la situazione della ronda (la “ronda” non è quella delle guardie padane, ma bensì il movimento con cui viene in senso antiorario percorso lo spazio della sala), e sulla base di questa, di nuovo, calibrare la sua interpretazione coreografica. Dunque, a livello di senso comune, si può dire senz‘altro che l‘uomo abbia un ruolo dominante, dato che la donna altro non deve fare, sul lato tecnico, che seguire le sue marcas. Ma questo compito, che pare a prima vista così semplice, è in realtà quello psicologicamente più importante dato che seguire non significa qualcosa come farsi trascinare da una forza esterna, o estranea. Al contrario, la ballerina deve abbandonare il suo corpo, i suoi sensi, la sua volontà in modo tale da identificarsi con il corpo e l‘anima dell‘uomo che la guida: deve sentire i suoi sentimenti, restituirglieli perfettamente rovesciati come in uno specchio, muoversi dei suoi moti, farsi sedurre e così sedurlo, eccitare la di lui fantasia all‘ascolto emotivo della musica, infiammare i suoi sensi e, sulle aperte ali di tali lievi fiamme, spingerlo a volare in uno con lei e nel cielo della musica. Così la donna e l‘uomo diventano la stessa cosa, un abbraccio sensuale, ebbro, mobile, danzante.

L‘abbraccio non sono io che abbraccio, non è lei che mi abbraccia: è quel sottile, impalpabile trascorrere di due rivoli nello stesso fiume, è giorno e notte che si fanno alba e tramonto, sottile duetto che infine si muta in mutuo controcanto. Così, in un senso profondo, è completamente sbagliato dire che l‘uomo ha la parte dominante e che la donna deve limitarsi a seguire. Un uomo che guidi senza sentire la di lei anima, i di lei sospiri, il di lei sentimento del tempo, il di lei rispondere al di lui corpo, non è un ballerino di tango: è un volgare e cigolante cingolato, un trattore di quelli che trainano le macchine incidentate dallo sfasciacarrozze.

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Uno sconosciuto intravede una sconosciuta nell‘oscurità della sala. I loro sguardi per un attimo si incontrano e lui si alza e la invita. Forse è perché la vede bella, o, chissà, forse è proprio perché la vede non molto bella, e così meno forte è il timore di essere rifiutato. Forse è un caso, un‘inezia, forse è da molto tempo che desidera e che teme di invitarla, forse non ha incontrato altri sguardi, o forse non li ha visti, o forse ha creduto di riconoscere una persona che invece non è quella. Si scambiano qualche convenevole, qualche sorriso più o meno suadente, lieve, oppure rigido e un pó imbarazzato (questo prologo al vero e proprio racconto può avere infine un‘importanza anche molto relativa). Poi la musica inizia: lui offre la mano sinistra, la donna concede la sua destra, e con l‘altra sceglie il modo in cui vuole essere abbracciata. È il primo contatto ed è anche l‘inizio vero e proprio della storia. Le mani forse sono rilassate, oppure tremano, a volte sono rigide, sudate, e il sudore può essere caldo o freddo: questo può esprimere nervosismo, timidezza, eccitazione, ansia, o, chissà, forse lo stupidissimo fatto che in sala c‘è troppa gente, il termostato non funziona, e dunque fa caldo, troppo caldo.
Anche l‘abbraccio prescelto può essere molto diverso: a volte è serrato ma morbido, oppure stretto, si, ma nervoso, duro impaurito; oppure può essere anche molto ampio, quasi distante, si direbbe, ma con tutto ciò non manca di amichevole intimità: quante sfumature sono già possibili in questa prima fase della danza! Tante, forse, quanti sono gli individui a questo mondo! Comunque sia, i due si stringono e si inseriscono nella ronda.
Le parole e i convenevoli scambiati solo pochi istanti prima diventano a quel punto quel nulla che forse da sempre sono stati. La parola e con essa la coscienza, in cui freddamente e cartesianamente domina l‘io penso dunque esisto, nel tango impallidiscono fin quasi a cessare interamente, almeno negli attimi veramente intensi della coreografia, e solo il senso, solo il corpo stretto all‘altro esiste: io abbraccio dunque esisto, io danzo dunque esisto, tu esisti, dunque esisto. È il corpo sconfinato in un altro corpo, che ora trema, forse, di eccitazione e di paura, o di sfida, ma poi, forse, via via si scioglie, si fida e si affida (il tremito dell‘altro è il mio tremito, la sua fiducia è la mia fiducia, la sua eccitazione la mia eccitazione). Una camminata, una salida, un giro, probabilmente di quelli più intuitivi e semplici, probabilmente in un punto in cui la sala è particolarmente “larga”. Andando avanti l‘intesa può diventare più solida. I corpi, passo dopo passo, portano avanti il loro silenzioso dialogo di turbamenti, tremiti e trasalimenti, via, nel brivido lento, impalpabile e implacabile della musica (il tango, cielo senza orizzonte, non consente orientamento: il ritmo è in ogni dove, nel pianoforte ora, poi anche nel basso, poi nel violino e nel bandoleon, poi in tutti gli strumenti in coro, poi di nuovo in uno solo, e così via).

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Ogni corpo, lo abbiamo visto sopra, ha la sua vibrazione tattile e purtroppo – o per fortuna! – accade spesso che tale vibrazione non si armonizzi con quella dell‘altro: così l‘abbraccio va avanti rigido, impacciato, imbarazzato, o, più banalmente, poco intenso (a volte una situazione come questa si verifica per del tutto accidentali motivi tecnici o di complessione fisica). Oppure un‘armonia in qualche modo nasce, si, ma superficiale, banale, fredda, ripetitiva: lui “sente” poco o nulla, forse perché non è la serata, forse perché la musica non è la sua preferita, forse perché lei gli offre una stretta sfuggente, diffidente: lui risponde sfuggendo e, con maschia diffidenza, si affida alla forza della tecnica, e la porta e lei, affidandosi alla di lui come alla sua propria tecnica, si fa portare: la tanda finisce i due si salutano, ma la scintilla non è scattata. Una coreografia comunque è venuta fuori, ma, non c‘è nulla da fare: come accade con le canzonette fatte in serie, nessuna magia si crea e l‘intera e invincibile, la solita solitudine ancora ha perdurato nel profondo dell‘abbraccio. L‘alba non si è accesa, le ali sono rimaste nascoste dentro il nido.
Ma alcune rare, preziose volte, da questo segreto di carezze, da questo cielo di piume arruffate, da questa avventura di mani e schiene e gote che si sfiorano, si navigano, si esplorano, scaturisce una soffusa, incantevole, turbinante negromanzia d‘intesa, come di mani estranee che casualmente si appoggino sul pianoforte e, senza preventivo accordo, misteriosamente collaborino alla stessa armonia. È qualcosa come una vertigine nascosta dietro l‘angolo, un‘estasi di reliquia, un non esser mai nati, una cecità mai sazia d‘altrui visioni, e di nascoste palpebre e pupille. Il corpo si scalda, vibra col suo con ogni e ad ogni nota, ad ogni moto, nei celesti chiarori della pelle dove finalmente sorge l‘anima in un brivido: oh profondità nascoste in un vortice di sciarade, dove siete andate, perché si fissa il mio sguardo sulla palma vuota? Come può un istante eterno degradarsi nel tempo, farsi memoria e passato se la sua impronta fatata l‘oblio non mai cancella, se il ricordo eppure sempre torna, tenue e inesorabile come lama fatata di vertiginose ciglia, di malcelati e flebili sospiri, e aridi e alti vortici di socchiusa porta?
Elisabetta, amore mio, così, lo so, tu mi entrasti nell‘anima, con il tuo magico abbraccio, lieve in quelle note che mai e poi mai potrò dimenticare, vida mia, tango lontano e ormai perduto, vellutato amplesso di astrali pampini e di giade, crotali occhiuti di rubino e purpurei e svenati barbagli di falena che mai, mai e mai più non tornerai! Così ci incontrammo, così, almeno, io ti incontrai nel tango profondo, oscuro e febbrile di me stesso.

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