Anonimo Fiorentino
UN ADDIO
ovvero
LA LEGGENDA DELLO SCRITTORE
E DELLA BALLERINA
in appendice
QUADERNO PER «INTERLUDE»
A Stéphanie
alla Pablo Tango
e al Tango.
A tutte quelle persone
quegli incontri e quei momenti
che senza volerlo e senza saperne nulla
fissano il destino.
Une innombrable expérience a préparé le dogme de l’irréversibilité de la vie. Toutes les évolutions, dans l’atome et dans la galaxie, dans l’inorganique, dans l’animal et dans l’humain, reçoivent, de la dégradation de l’énergie, leur sens irrévocablement unique. L’accroissement constant de l’entropie est ce cliquet qui empêche les rouages de la machine terrestre et céleste de jamais se mouvoir à rebours. Aucun temps ne peut remonter à sa source ; aucun effet ne peut précéder sa cause. Et un monde qui prétendrait s’affranchir de cet ordre vectoriel ou le modifier, paraît physiquement impossible, logiquement inimaginable. Mais, voici que, dans un vieux film d’avant-garde, dans quelque burlesque, on voit une scène qui a été enregistrée à l’envers. Et le cinématographe, tout à coup, décrit avec une claire exactitude un monde qui va de sa fin à son commencement, un antiunivers que, jusqu’alors, l’homme ne parvenait guère à se représenter. Des feuilles mortes s’envolent du sol, pour aller se repercher sur les branches des arbres ; des gouttes de pluie jaillissent de la terre vers les nuages ; une locomotive ravale sa fumée et ses cendres, aspire sa vapeur ; la machine consomme du froid pour fournir du travail et de la chaleur. La fleur naît de sa flétrissure et se fane en un bourgeon qui rentre dans la tige. Celle-ci, en vieillissant, se retire dans la graine. La vie n’apparaît que par résurrection, traverse et quitte les décrépitudes de l’âge pour l’épanouissement de la maturité, involue au cours de la jeunesse puis de l’enfance, et se dissout enfin dans les limbes prénatales. Ici, la répulsion universelle, la dégradation de l’entropie, l’accroissement continuel de l’énergie, forment les vérités inverses de la loi de Newton, des principes de Carnot et de Clausius. L’effet est devenu cause ; la cause, effet. La structure de l’univers serait-elle ambivalente ? permettrait-elle une marche avant et une marche arrière ? admettrait-elle une double logique, deux déterminismes, deux finalités contraires?
Jean Epstein
Parte Prima :
LA LEGGENDA DELLO SCRITTORE
E DELLA BALLERINA
COME UN’INTRODUZIONE I
Tu sei il tango.
Tu sei la farfalla che sussurra e che si perde
nell’oceano di schiume e di brividi
del cielo.
Tu sei il tango.
Tu sei il fantasma di miele, di vino e di colombe,
l’amore che vaga, che spia e che si trascina
nei labirinti della solitaria, forsennata notte
quando insensata tracima
fra rovi di cristallo
e un crudele e inutile
sognare di serpente.
Tu sei il tango.
Tu sei la fiaba dispersa nelle paludi
di diamanti e di tormenti,
nella brezza vaga e sommessa,
nella luce sognante della luna, dell’alba
e dei tramonti.
Tu sei il tango.
Tu sei il tempo immobile, il fango, il miraggio,
l’indomabile cielo che cavalca l’uragano,
l’allegria e il coraggio dove ridono
le lame sensuali e i vortici del mate,
tu sei le carte litigiose che distribuisce il truco,
il fumo basso, la chitarra intensa,
l’angelo della vita lenta e languida,
il demone ultimo
della morte immensa.
Tu sei il tango.
Tu sei il volto fisso
lo sguardo imperscrutabile
del gaucho taciturno che fu un indio
il volo lentissimo e nostalgico del condor,
i passi sinistri e sfuggenti del giaguaro
nel cielo inverso e infinito
della pampa.
Tu sei il tango.
Tu sei l’inaudito e lieve crollare delle notti,
le strade divelte da un vento illimitato di silenzi,
la solitudine che attende ansiosa il mio ritorno,
il gorgo di sigarette, di libri e di whisky
dell’insonnia.
Tu sei il tango.
Tu sei la piena disseccata del mio pianto
il nulla che cresce e che tracima
dagli orizzonti che non sanno più cantare,
tu sei il sospiro sconsolato e tenue
della memoria che perde ai dadi
con il tempo.
Tu sei il tango.
Tu sei il violino nostalgico
di tutto ciò che inutilmente ho amato,
tu sei il domani che sorridendo invita,
l’attimo ridente e fuggitivo
che singhiozza irrimediabilmente
eternamente perduto e sepolto
nel passato.
Tu sei il tango.
Tu sei l’amore che non c’è
la pace che non si può trovare,
la felicità che non esiste
e che dunque nessuno
ci ha rubato.
DIALOGO
«Tu puoi dire quello che vuoi, ma io insisto:
il tango c’entra sempre. C’entra con l’arte,
c’entra con l’amore, ma non solo:
in un certo qual modo
c’entra con tutto,
anche con le cose più banali,
anche se, in effetti, a questo mondo
forse non ci sono cose banali,
a parte la cecità di chi le crede tali.
«Va bene, va bene, il tango c’entra con tutto:
quindi c’entra anche quando bevi un cappuccino?
Oppure quando bevi un cappuccino
riesci a fare a meno del tango
solo se sei una persona banale?
«Ridi quanto cavolo di pare, ma secondo me
è proprio così: anche quando bevi un cappuccino,
anche quando cammini per strada pensando a chissà che,
o a quel che ti pare: il tango c’entra sempre.
Non sto scherzando. Secondo me
è davvero un’esperienza che ha qualcosa,
come dire? Qualcosa di religioso.
Non so se sia giusto dire che può
mettere in contatto con Dio,
questo no, mi sembrerebbe, come dire,
eccessivo, o, chissà, forse perfino un po’ blasfemo:
non è che puoi assimilare un ballerino di tango a un mistico,
propriamente parlando (anche se dei tratti in comune
volendo ce li puoi trovare: alla fine, puoi trovare
dei tratti di misticismo in tutte quelle
esperienze che di solito si definiscono banali,
che però, se approfondite in modo radicale,
mettono in contatto con la vita
in quanto totalità, in quanto profondità,
e dunque con la morte).
Comunque sia, anche se forse è esagerato
parlare anche di un Dio degli atei, per così dire,
mi sento però di affermare tranquillamente che il tango
può mettere in contatto con ciò che nella vita umana
c’è di miracoloso, o di magico se vuoi.
«Queste sono solo parole,
e tu lo sai benissimo.
«No, non sono solo parole
anche se è impossibile prenderle alla lettera,
questo devo riconoscerlo.
Quando ti dico che il tango c’entra sempre
non è che voglio dire che bisogna mettersi
a camminare per strada al ritmo di “Vida mia”
o mangiare a quello di “Gallo ciego”: ovviamente
si tratta di una metafora. Però si tratta
di una metafora, non so come dire, molto seria,
anche se tu sembri credere
che l’abbia buttata là tanto per dire qualcosa.
Anche quando Leopardi paragona l’essere umano
alla “povera foglia frale” usa una metafora:
ma dimmi un po’ se si tratta di uno scherzo
o dell’essenza nascosta della vita umana
resa manifesta appunto per mezzo di una metafora!
Alla fine, quasi non c’è tango di buon livello
che non ripeta interminabilmente
questa frase di Leopardi, sia pure attraverso
le metafore ineffabili della musica.
«Qui i casi sono due.
O stasera hai bevuto un po’ troppo whisky
oppure ti sei bevuto completamente
il cervello. A te la scelta.
Un’esperienza religiosa, Dio,
la povera foglia frale…,
ma via, siamo seri…
«Il fatto è che tu pensi al tango in modo semplicistico,
come a un’attività banale fra le tante,
di quelle che servono solo per divertirsi, o a socializzare,
o cose del genere, tipo un’attività fisica non stressante,
o addirittura come a un modo come un altro
per ammazzare il tempo:
come se il tempo non fosse perfettamente in grado
di ammazzarsi da solo!
No, le cose non stanno così.
«E come stanno allora?
«Se vuoi capirci qualcosa, forse non c’è
miglior punto di partenza che paragonarlo
a un’attività che non gli assomiglia per niente,
su un piano puramente esteriore intendo,
ma che a livello spirituale gli è molto vicina: lo yoga.
Lo sai cosa significa in sanscrito la parola “yoga”?
«No.
«Significa unità. Lo yoga è un’attività fisica
diversa dalle altre, perché il suo scopo, almeno in origine,
non è affatto pratico-salutistico. È invece uno scopo religioso.
Serve a mettere in connessione le due
entità separate per eccellenza, il corpo e l’anima,
che, come due amanti appassionati,
come Romeo e Giulietta diciamo,
bramano di fondersi l’un con l’altro,
ma non ci riescono, non possono riuscirci,
e allora si distruggono. Pensaci bene:
la trama di quel dramma di Shakespeare
non corrisponde forse alla trama tormentata
della vita di tutti o quasi tutti gli esseri umani,
che, puramente e semplicemente venendo al mondo,
si trovano stretti nel conflitto fra un corpo-Romeo
e un’anima Giulietta che qualche volta conduce alla morte
e quasi sempre all’infelicità di entrambi?
Lo yoga serve, attraverso il respiro, a trovare
una strada perché queste due entità contrapposte
possano formare infine un’unità,
però senza distruggersi, anzi,
raggiungendo un’interezza prima sconosciuta.
Prima si disconoscevano e si combattevano
adesso possono riconoscersi e fondersi
nella loro verità e identità più profonda
che li trascende entrambi.
È per questo che l’unità anima corpo che
con lo yoga si può raggiungere
non ha un significato solo psicologico,
dato che nel pensiero indù il corpo umano
è pensato come un microcosmo,
cioè come un’immagine, o un simbolo se vuoi,
del macrocosmo, cioè dell’intero universo.
Perciò, la separazione fra anima e corpo
è il simbolo della separazione fra l’anima e l’universo
dove si trova a vivere.
Riuscire a recuperare questa separazione,
entrare finalmente in comunione con il proprio corpo,
è entrare finalmente in comunione con l’universo
che fino a quel momento si parava innanzi
come un corpo estraneo. Ma l’universo
non è altro che l’immagine, o il simbolo di Dio.
Dunque, entrare in comunione con l’universo
significa entrare in comunione con Dio.
«Non riesco a capire dove vuoi andare a parare
con tutto quest’interminabile preambolo.
Se potessi arrivare a una conclusione grazie,
così magari vedo di rispondere.
«Dammi un attimo di tempo e arrivo al punto.
Ecco, tu devi pensare che il tango, almeno
se lo affronti in un certo modo,
è una di quelle vie che l’anima può percorrere
per ritrovare un’unità con il corpo. È solo
che, a differenza dello yoga,
questo non accade per mezzo del respiro.
Avviene per mezzo dell’abbraccio,
e dunque per mezzo del corpo e dell’anima
dell’altro e dunque, in ultima analisi, dell’altro.
La ricerca di sé stessi attraverso la ricerca dell’altro,
questa è l’essenza del tango.
L’alterità è il suo luogo e,
al tempo stesso, il suo interminabile orizzonte.
«Quindi, se ho capito bene, nulla a che vedere
con lo yoga.
«No non hai capito bene. Anzi, dal sorrisetto
che non riesci a toglierti dalla bocca
da tutta la sera capisco che non hai capito niente,
che molto probabilmente non vuoi capire niente
e che quindi possiamo anche farla finita
con questa conversazione. Se vuoi
possiamo parlare di cose più importanti:
che ha fatto la Fiorentina?
«Ehi, ma come siamo suscettibili!
Ma se hai appena detto che nello yoga
la fusione dell’anima con il corpo
avviene per mezzo del respiro e che invece
nel caso del tango il respiro non c’entra nulla!
«No, non ho detto questo. La fusione avviene
anche attraverso il respiro, perché nell’abbraccio
si condivide anche il respiro: il punto è proprio
che si condivide anche tutto il resto.
L’abbraccio è condivisione del respiro, bene,
ma anche della musica, del ritmo, del canto,
di tutto insomma.
Le figure che la musica suggerisce,
l’ocho, la salida, il voleo, o quello che ti pare
non servono a dare spettacolo della propria abilità,
come avviene di solito negli altri balli
ma a fondersi con l’altro e con la musica
per mezzo dell’abbraccio. Nel caso del tango
gli attori e gli spettatori, la trama e la scenografia,
coincidono appunto nell’abbraccio.
«Beh, a questo punto sono io a dirlo:
incavolati quanto vuoi ma ribadisco che,
secondo me, stasera o hai bevuto troppo whisky
oppure ti sei bevuto completamente il cervello,
oppure, chissà, magari è il barista
che è in vena di scherzi a parte,
e ti ha versato nel whisky un bel po’ di Lsd:
così, tanto per movimentare un po’ l’aperitivo.
«No, non mi sono bevuto, il cervello:
la penso proprio così, l’ho sempre pensata così.
Ridi quanto ti pare, ma ci sono dei passatempi,
se proprio li vuoi chiamare così,
che sono più seri di qualsiasi lavoro serio
(Chi è che ha scritto che «Il lavoro è il rifugio
di coloro che non hanno nulla di meglio da fare.»?
Ah si, dev’essere Oscar Wilde, lo stesso che ha scritto
«Sognatore è chi trova la sua via
alla luce della luna.. punito
perché vede l’alba prima degli altri.»)
Puoi non crederci se vuoi, ma il tango,
almeno se lo affronti in un certo modo,
se lo percorri in un certo modo,
ti cambia per sempre.
Voglio dire: se almeno una volta nella vita
ti viene fuori una tanda di quelle “giuste”
non sarai mai più la stessa persona.
La vita quotidiana ti parrà banale
come ai mistici pare banale, diciamo così,
il mondo della vita quotidiana
dopo che nell’estasi lo hanno potuto percepire
come manifestazione di Dio, o, comunque sia,
come ti ho detto prima, del divino.
Secondo me, questo sentimento di caduta
è quello che esprime Cioran nelle “Divagazioni”
quando scrive che «Nelle prigioni dello spirito
vi sono stordimenti che ci dischiudono a un tratto
una porta verso non so quali mondi,
lasciandoci poi del tutto inutili sulla terra,
vittime di ciò che si è intravisto».
Beh, sentimenti come questi li puoi
tranquillamente provare dopo che hai indovinato,
appunto una tanda di quelle giuste, cioè una tanda in cui
sei riuscito a diventare uno con la persona con cui ballavi,
con la musica, con le parole del tango, e con la ronda.
Il tango, se vuoi, lo puoi concepire come una forma,
sia pure molto strana e forse estemporanea,
di preghiera, come del resto una forma
molto strana ed estemporanea di preghiera
è la poesia. Quando balli in modo, diciamo così,
spiritualmente corretto, i passi, le figure che componi,
non sono e non devono essere dei pezzi di bravura,
ma, appunto, come parole di una poesia,
o di un canto: un giro, una salida,
un ocho, una sacada, sono un modo
per entrare in armonia con l’altro e con la musica.
Quella gente che ha detto che quei ballerini di tango
che sono andati a ballare per il papa avrebbero
oltraggiato il Dio della fede cattolica,
con tutto il rispetto, secondo me
non capiscono nulla né di Dio e né di tango.
«Si, in effetti anch’io sono incline a pensare
che un bel po’ di quelli che si autodefiniscono
“cattolici conservatori” non hanno la più pallida idea
di quel che stanno conservando. Ma, a parte questo,
scusami tanto, non voglio offenderti, intendiamoci,
ti ho sempre stimato come ancora ti stimo
una persona intelligente. Però, lasciamelo dire,
in questo momento ti stimo – come dire? –
come una persona intelligente ma un po’ ubriaca,
se mi passi l’eufemismo, perché,
e ti ripeto di nuovo di scusarmi eh! – non vorrei
finire una bella serata come questa con una rissa
per futili motivi, con tanto di arresto per pubblici schiamazzi –
però non riesco in nessun modo a prenderti sul serio.
Dov’è andato a finire l’intellettuale irriverente e ironico
che conoscevo fino a un quarto d’ora fa,
cioè prima del terzo cocktail e di questa assurda
discussione sul tango come metodo di elevazione mistica
e, suppongo, di evangelizzazione alcolica?
Affermazioni di questo genere sono degne
di quei cacciatori che, pur di tornare a casa con
qualcosa nella bisaccia, prendono a cannonate
una zanzara: via, stiamo parlando di una cosa così,
non dei massimi sistemi! Cosa c’entrano Dio,
Leopardi, il corpo-Romeo l’anima-Giulietta?
Che cosa ti prende per fare questi discorsi “ispirati”?
Il tango come simbolo dell’universo,
l’universo come simbolo di Dio,
cosa cavolo dici? Anche le tasse da pagare
sono un simbolo di Dio? Anche la coda
all’ufficio delle poste? Via, via,
siamo seri…
«Va bene, va bene, continua a ridere,
fa quel che cavolo ti pare, ma ti assicuro
che non c’è proprio niente da ridere.
Poche cose al mondo sono altrettanto serie
di un certo genere di scherzi, puoi credermi sulla parola.
Se fai un’esperienza del genere, davvero,
non c’è ritorno: il mondo non ti parrà più lo stesso,
e vivrai per sempre con un doloroso senso
di mancanza, di solitudine e di assenza.
Puoi anche smettere di ballare poi,
come è successo a me, per motivi estemporanei
e magari del tutto stupidi. Ma quel non so che
che per mezzo del tango ti è entrato nell’anima,
quello no, non lo potrai più togliere.
Puoi fare quel che vuoi,
ma non lo potrai più togliere.
COME UN’INTRODUZIONE II
Io sono l’altro.
Io sono colui di cui mai
nessuno parla,
colui che di sé stesso mai
non dà un accenno.
Io sono l’altro.
Io sono il cuore di tenebra
che ciecamente si dibatte nel petto
del sole più vuoto e più accecante,
io sono lo specchio in agguato
dietro dall’argento fatato
dello specchio.
Io sono l’altro.
Io sono l’orecchio dove il Tutto
si ascolta e infinitamente si dice e si ripete
come il mare infinitamente si racconta
alla conchiglia che la marea abbandona
al deserto di nulla della spiaggia.
Io sono l’altro.
Nessuno può raccontare la mia storia
perché non è la mia.
Io sono colui di cui mai
nessuno parla,
colui che di sé stesso mai
non dà un accenno.
SENZA RIMA OVVERO:
LA LEGGENDA DELLO SCRITTORE
E DELLA BALLERINA
1.
I casi del mondo, le possibilità per quanto improbabili o addirittura inattuabili, che però per grazia o disgrazia del fato possono inopinatamente trasformarsi in realtà, gli incontri e le coincidenze per principio impossibili che però misteriosamente arrivano a susseguirsi fino a formare una magica catena, per quanto raramente accadano, sono talmente numerose che è facile lasciarsi andare ai superlativi e dire perciò che sono infinite, e dunque assolutamente indefinibili.
Però, pur frugando nell’immaginazione propria come anche in quella altrui, molto difficilmente ci si potrà imbattere in un impaccio più clownesco, in uno sgomento più ridicolo e impotente di quello di un autore che, al momento della per quanto virtuale ed estemporanea pubblicazione dei suoi versi, si rende improvvisamente conto che quelle pagine che pur con tanto amore e disamore ha scritto e riscritto, corretto e ricorretto, risulteranno senz’altro incomprensibili senza un qualche genere di introduzione. O, almeno: senza un’immagine che possa fare da sfondo al racconto non raccontato che a furia di interruzioni, interpolazioni, deviazioni e indicazioni sbagliate si svolge in quello che non riesce in nessun modo a definire “un libro” – se questo libro altro non è che il precipitato improbabile di possibilità inattuabili, che però per grazia o disgrazia del fato si sono inopinatamente trasformate in realtà, di incontri e coincidenze per principio impossibili che misteriosamente arrivano a susseguirsi fino a formare una magica catena.
In effetti, quella che si accinge a pubblicare dovrebbe essere addirittura una raccolta di poesie. Ma cosa c’è al mondo di più inopportuno e dunque di importuno di un libro di poesie con un’introduzione, visto che la poesia è per definizione l’arte della deduzione a partire dalla totale mancanza di premesse, o, piuttosto: l’arte di creare premesse e promesse verso dopo verso, via via che per vie occulte e indecifrabili essa stessa si crea nella mente, o, chissà, forse nelle mani, o, chissà, chissà, forse negli intimi, alcolici, alchemici abissi del quaderno a righe o a quadretti o – chissà, chissà: chissà! – forse addirittura laggiù, nelle oscure, gotiche e caotiche profondità dell’inchiostro della penna – magari non molto di lusso, magari una qualsiasi penna Bic! – dello scrittore?
Questo è vero. Però, in questo caso, la necessità di un’immagine introduttiva può essere in qualche modo giustificata con il fatto che cotali poesie non sono nate affatto come poesie. Al contrario, esse sembrano esser state create e quindi tracannate come un’amara medicina in cui peraltro non si ha nessuna fiducia, vale a dire come un banale sfogo, o, peggio ancora, come un grido che ammutolisce al solo pensiero di essere gridato, e perciò come un modo di guadagnare, o di perdere, o di fermare il tempo, e dunque come un diario (in effetti, nel momento in cui sono state scritte si è avuto cura di annotare accuratamente data, ora e luogo di redazione, che con altrettanta cura sono stati successivamente cancellati), ovvero come un dialogo dello scrittore con sé stesso, ma a tratti anche un dialogo con un lettore che, proprio come lo scrittore, molto probabilmente non esiste, e dunque come una cronaca di un qualcosa che non accade, o come una maschera dietro la quale si finge di non nascondersi, se non proprio come un’autoanalisi che lascia il tempo che trova – mentre intanto però si affanna a ritrovare il tempo che lascia – ovvero come una bestemmia di un nulla che nel suo non esistere tormenta, o, infine: come qualsiasi cosa tranne che come una raccolta di poesie!
(se non fosse impensabile pensarlo, l’autore penserebbe forse che queste poesie non sono state in nessun modo pensate: direbbe che sono sorte del tutto spontaneamente, al di là come anche al di qua di qualsiasi idea o mancanza di idee – un po’ come il cosmo della filosofia Indù, che viene all’essere da un quid che sta prima dell’essere e del non essere, e quindi prima dell’essere o non poter essere definito)
2.
Beh, comunque sia, non c’è nulla da fare: così come sono, nudi e crudi, questi componimenti, qualsiasi cosa siano o non siano, sono comunque sia assolutamente impubblicabili. Dunque bisogna rassegnarsi a metterci una pezza, a inventare un qualcosa a cui potersi appigliare, a fare uno sforzo o almeno uno schizzo che serva a potersi in qualche modo raccapezzare – anche se non c’è poeta al mondo che non sappia che sarebbe molto, ma molto meglio farne a meno.
Per fortuna però, l’immagine di cui abbiamo bisogno può essere tracciata in modo relativamente rapido e conciso.
3.
Le cose sono andate più o meno così. In una sera del maggio 2012, lo scrittore ha saputo che la ballerina sta per andarsene da Firenze. No, questa volta non si tratta delle solite voci che, per non aver nulla di meglio da fare, si mettono ad andare su e giù per il corridoio, delle solite chiacchiere per passare il tempo davanti a un bicchiere di birra che non vuol finire, no, questa volta è sicuro, certo, definitivo e, a dir la verità, perfino piuttosto sbrigativo: la ballerina se ne andrà, e se ne andrà davvero e per sempre. Questo è tutto. Il colpo che gli arriva è talmente violento che, sul momento, lo scrittore ha l’impressione di non sentire alcun dolore, anzi: nemmeno il più piccolo fastidio.
(ripensando a quella sera, alcuni anni dopo, gli tornerà in mente una notizia che, al tempo in cui l’aveva letta, aveva creduto completamente inventata: in un breve trafiletto, così breve da risultare vacuo e irreale ancor prima che completamente inverosimile, si raccontava la triste vicenda di un automobilista che, siccome guidava incautamente con il braccio sinistro a penzoloni fuori dal finestrino, se l’era fatto amputare da un camion proveniente dalla direzione opposta; la cosa però era avvenuta in modo talmente rapido e inaspettato che il poveraccio non se ne era reso conto che al momento di scendere per fare benzina).
4.
Udita in questo modo cieco e sordomuto l’inaudita e inaudibile notizia – e dunque ancora del tutto ignaro dell’apocalisse che nel fondo di sé stesso si stava imperscrutabilmente consumando – lo scrittore si reca come al solito alla stazione ferroviaria di Firenze Campo di Marte dove, alcuni minuti dopo il suo arrivo, mentre aspetta il suo solito treno sulla solita banchina, la solita voce metallica, anonima, gentile e premurosa, gli chiede di fare attenzione, perché il solito diretto delle 10:04 si accinge a transitare sul binario tre.
Concludendo il gentile annuncio, la voce raccomanda come al solito di allontanarsi dalla linea gialla, che sarebbe poi la linea di sicurezza oltre la quale si può venire travolti dal suddetto treno.
5.
È proprio dopo aver udito quest’ultimo avvertimento – talmente abitudinario da rendere pleonastico il suo esser stato pronunciato – che lo scrittore, senza rendersene conto, come in preda a un oscuro vaticinio d’autodistruzione, comincia con passi dapprima vaghi e incerti ma poi sempre più rapidi e decisi un’inquietante passeggiata lungo il binario. Una passeggiata che, senza che ne avesse il sia pur minimo sentore, non ha più quel sapore intimo e abitudinario che fino a quel giorno e a quel momento aveva avuto (lo scrittore non se ne era voluto accorgere, ma la partenza della ballerina, siccome è certa o addirittura certissima, è come se fosse già avvenuta: dunque lui, pur non rendendosene conto, non si trova più alla stazione di Campo di Marte e, a dir la verità, nemmeno a Firenze, dato che da almeno quaranta minuti sta precipitando nel baratro impensabile della sua assenza, lontano anni luce da tutto quanto ormai, e in primo luogo da sé stesso).
È così che, distrattamente, inconsciamente, la sua passeggiata prende ben presto una direzione imprevedibile. Invece che andare a zig zag e in su e in giù fra la gente in attesa, non appena uno spazio gli si apre comincia a seguire una linea continua, lievemente inclinata, che insensibilmente lo porta vicino, sempre più vicino alla fatale linea gialla, da cui la paterna e inanimata voce metallica gli ha raccomandato di tenersi prudentemente e pudicamente a distanza. È così che in modo lento, vacuo e quasi imponderabile si avvia a tutt’altro pensando verso la certa morte.
Assorto in un non so che che non saprebbe dire, fissando con occhi vuoti un orizzonte che da anni e anni ormai non gli dice più nulla, continua ad andare avanti, come in un sogno, e, a dispetto del gracchiante avvertimento metallico che ancora una volta gentilmente si ripete, non pensa nemmeno un attimo di dovere o di anche solo poter fermarsi. Prosegue invece nella sua inconsapevole marcia verso il nulla finché il piede destro si trova qualche centimetro a destra, oltre la linea gialla: proprio lei, si, quella fatale linea gialla da cui la voce gentile dell’altoparlante solo pochi secondi prima gli aveva consigliato, o, chissà, forse addirittura lo aveva pregato di tenersi lontano: e lui quel confine ultimo oramai l’ha già oltrepassato, sia pur di poco. Che cosa mai sta per succedere?
Naturalmente, dopo che il piede destro ha insensibilmente oltrepassato la linea del destino, il piede sinistro, che lo segue, deve così andare a calpestarla: il che fa sì che il piede destro, apprestandosi a un nuovo passo, si appresti anche ad accostarsi viepiù alle fauci mortali del binario. Quando lo avrà appoggiato, sarà entrato in rotta di collisione con il treno in arrivo, che si appresta dunque a sfracellarlo.
6.
Per fortuna dello scrittore però, il passo fatale non giungerà mai a destinazione, dato che nello stesso istante in cui il piede destro si stacca da terra il treno annunciato eppure furtivo come un ladro nella notte passa a circa settanta-ottanta chilometri l’ora a non più di qualche millimetro dalla sua spalla. Il colpo di vento e lo spavento sono tanto forti che lo scaraventano in mezzo alla banchina, fra i passeggeri in attesa che lo guardano leggermente stupiti, domandandosi e domandandogli tacitamente cosa sia successo. Ma lui non sa, anzi: non può rispondere.
In preda a un terrore silenzioso e senza immagini, sorridendo irrigidito a quella folla di sconosciuti che lo guardano con aria forse un po’ inquieta e vagamente interrogativa, si rende conto di aver inconsciamente tentato di ammazzarsi, e che solo per caso è ancora lì, vivo e vegeto, a respirare affannosamente il fresco benedetto di quella maledetta sera di tarda primavera, e a sorridere nervosamente alla moltitudine in attesa del suo stesso treno. Un sudore glaciale gli sgorga sulla fronte e sotto le ascelle, un brivido interminabile scuote la sua anima più a fondo ancora che il suo corpo. Per un attimo pensa (non può non pensare) che questa volta è davvero l’ultima, che tutto è davvero finito, che questa volta davvero non riuscirà a cavarsela!
7.
Nei giorni successivi, cercando disperatamente rimedio alla situazione apparentemente irrimediabile, lo scrittore pensa che alla partenza effettiva della ballerina mancano ancora circa due settimane. Inesorabile, sorge la tentazione di parlarle, di spiegarle, o, almeno di cercare di spiegarle quello che è successo. Questa tentazione lo solletica, lo illude, lo distrae, l’indefinita possibilità di dire o di non dire lo nausea, lo incita, lo eccita, lo deprime, lo tormenta, ma alla fine, senza capire perché, si sente costretto a rinunciare.
Questa rinuncia forzata, ancor più minacciosa riguardo ai tempi futuri di quanto non riesca deleteria nel presente, non lo stupisce minimamente. Tutta quella dannata faccenda, in effetti, è stata una storia di costrizioni a fare o a non fare questo o quello, a tacere o a dire cose che non voleva dire, senza sapere perché. Certo, almeno in quel caso, una ragione molto ragionevole a quella non avvenuta comunicazione la si poteva anche trovare: la totale assurdità delle cose che avrebbe dovuto dirle o, peggio ancora, cercare di spiegarle. In effetti, se lo scrittore stesso stentava a credere o anche solo a far finta di credere a quel che gli era accaduto (e che ancora continuava ad accadere!), non c’era verso che la ballerina potesse prenderlo sul serio. Messa di fronte a un certo genere di proposizioni, molto probabilmente si sarebbe sentita più o meno sottilmente derisa, forse offesa, o peggio, aggredita. Tutta quell’inutile messa in scena, lo sapeva, sarebbe servita soltanto a creare un tremendo imbarazzo. Lei lo avrebbe guardato come si guarda uno straniero che parla un linguaggio incomprensibile, come un folle che, nel mentre crede di parlare agli altri, si rivolge instancabilmente alle trasfigurazioni allucinatorie del proprio delirio. E come si poteva darle torto ?
La parte principale in quella terrificante situazione l’avevano avuta dei sogni prima e degli incubi poi. E che dire poi di quegli strani personaggi, che lui stesso aveva giudicato dei mentecatti senza appello, che anni prima del suo arrivo glielo avevano preannunciato (e fin qui, si potrebbe dire, tutto bene), usando però un linguaggio molto più vicino a quello del Libro dei Morti tibetano che a quello della borghese e ragionevole vita quotidiana ?
Siamo seri. Nel pieno del ventesimo secolo, armati di un telefonino che se non parla al posto nostro è solo per darci un pretesto qualsiasi per comprarlo, laici e materialisti per destinazione prima ancora che per autodefinizione, evoluzionisti al culmine dell’evoluzione e dell’evoluzionismo, non c’è da sperare che qualcuno chiunque sia possa prendere nella sia pur minima considerazione delle fole del genere. Quale persona minimamente istruita non avrebbe preso il suo racconto come una sorta di reminescenza onirica del nostro passato scimmiesco ?
8.
Questo ragionamento era, se non proprio razionale, come minimo piuttosto ragionevole. Ma, non ostante tutto, lo scrittore sapeva bene che se rinunciava a parlare con la ballerina questo non avveniva a causa di un qualsiasi genere di ragionamento più o meno logico. Il fatto era che, puramente e semplicemente, non poteva in nessun modo parlarle: se avesse deciso di farlo, come altre volte gli era accaduto in passato, la decisione per quanto irrevocabile si sarebbe magicamente tramutata in una sorta di paralisi.
Lo ricordava fin troppo bene. Anche quando l’aveva riconosciuta nella foto, l’aveva percepita come di là da un muro, un muro tanto invisibile quanto invalicabile: poteva guardarla, poteva sentirla parlare, poteva addirittura sentire il respiro entrare e uscire dal suo petto. Se la vedeva camminare, poteva sentire o fin quasi trasformarsi nei piedi che dentro le sue scarpe si sollevavano e si riappoggiavano sul pavimento, poteva pensarla, sognarla o sognare di pensare i suoi pensieri e di ricordare i suoi ricordi (indimenticabile fu quella volta che la ballerina aveva dovuto trattenersi a Varsavia a causa della neve che bloccava l’aeroporto: di giorno o di notte, da sveglio o dormendo, o chissà quando e come, lo scrittore sognò di essere lei, di essere nel suo corpo – o il suo corpo! – e di pensare i suoi pensieri, e di ricordare i suoi ricordi intanto che passeggiava per una via laterale coperta dalla neve), ma non avrebbe mai potuto parlarle. O almeno: che non avrebbe mai potuto parlarle di quelle cose!
Col tempo, si era conto che quell’incomprensibile incantesimo di unione nella separazione era ancora più radicale di quanto non aveva inteso all’inizio. Scoprì infatti che oltre alla proibizione di parlare con lei, l’incantesimo implicava un’altra proibizione, forse ancora più severa e perniciosa, ovvero la proibizione di parlare di quanto gli stava succedendo con qualsiasi altra persona al mondo. Il che significava che in quel momento più d’ogni altro orrendo lo scrittore si trovava di fronte a quel muro invalicabile e dentro quella paralisi gelida e invincibile in uno stato di totale e abissale solitudine con sé stesso.
9.
Se all’inizio non gli aveva causato altro che sgomento o stupore, col passare del tempo, quello strano incantesimo si era fatto sempre più doloroso, fino a diventare intollerabile. Eppure, a dispetto delle sofferenze inenarrabili che gli aveva procurato e che gli stava procurando, quella sorta di delirio di immobilità era durato per tutto il tempo in cui la ballerina era rimasta a Firenze. Quindi, non c’era da stupirsi troppo che continuasse anche adesso che quel tempo peraltro del tutto inutile che il fato gli aveva messo a disposizione stava inesorabilmente scadendo.
In quell’assoluta impossibilità, ovvero in quella paralisi invincibile in cui era caduto nel momento stesso in cui l’aveva riconosciuta nella foto, stavano tutte le sue ragioni e tutti i suoi torti, se in cose di questo genere è lecito parlare di ragione e di torto. Era perfettamente inutile tentare di ingannarsi. Non parlarle, non tentare nemmeno di farlo era, a dispetto delle apparenze, molto ma molto peggio che dannoso: era un puro non senso, un non-atto folle e autodistruttivo, le cui conseguenze avrebbe dovuto pagare a carissimo prezzo. Ma, nondimeno, pur costretto a tirare dalle cattive premesse le peggiori conclusioni, lo scrittore non potette fare altro che piegare la testa e obbedire per l’ennesima volta a quel destino altrettanto crudele che sconclusionato che l’aveva condotto fino a quel punto e lasciar partire la ballerina in un silenzio che, per quanto goffo fino ai limiti del clownesco, lungi dal farlo ridere, suonava ancor più tetro che una marcia funebre.
10.
Però, forse perché stordito e oppresso da un dolore talmente lancinante da renderlo del tutto inetto a percepire e concepire con la necessaria chiarezza la sua situazione, o forse perché assordato da quella strana angoscia che siccome muta, inespressiva e senza immagini, poteva sembrare a volte completamente inesistente, lo scrittore non si sente ancora completamente distrutto. Anzi: in un vortice di rosee quanto insensate fantasticherie arriva addirittura a immaginare che quando la ballerina fosse effettivamente partita quelle assurde catene sarebbero magicamente svanite nel nulla, come dal nulla si erano altrettanto magicamente materializzate quando l’aveva riconosciuta nella foto.
In effetti, non era proprio dal momento in cui lei era arrivata a Firenze che lo scrittore era precipitato in quella sorta di sognata prigionia? Ebbene, come il suo arrivo lo aveva magicamente addormentato, così la sua partenza lo avrebbe altrettanto magicamente risvegliato. In questo modo, da schiavo che era diventato, sarebbe infine ritornato, se non proprio alla libertà, almeno alla dolce illusione di scegliere ora questo, ora quello – ovvero a quel quasi inevitabile abbaglio che spinge l’uomo che non si volta a pensare che la sua vita, visto che è sua, deve per forza di cose avere qualcosa a che vedere con lui stesso.
11.
È un venerdì di giugno – o almeno così gli sembra di ricordare – quando alla partenza annunciata segue quella effettiva, e per i primi tempi, in effetti, tutto sembra andare per il meglio. Addirittura, passate due settimane, passeggiando per le vie del centro vede un’amica fra la folla, che viene in direzione contraria. Sorridendo la saluta e si ferma a fare due chiacchiere. Senza volerlo, pensa che fra la “lei” da poco partita e questa con cui sta parlando non c’è poi tutta quella differenza che forse si era solo sforzato di vedere. In fondo, perché questa qui avrebbe dovuto essere da meno dell’altra? Quale differenza sostanziale ci poteva essere fra questa e quella? Che cosa poteva avere di realmente diverso?
Questo pensiero, ragionevole e fin quasi gioiosamente noncurante, lo sospinge fin sulle soglie della speranza o addirittura della certezza di un’imminente liberazione. Però, come c’era da aspettarsi, questa pausa di celestiale tranquillità, o, come potremmo dire, di illusoria felicità, dura ben poco. Infatti, non molti giorni dopo, quella strana entità che per non averne mai conosciuto il vero nome chiama “io”, sprofonda in uno stato di angoscia talmente spaventoso che nel breve ed interminabile volgere di una notte insonne lo scrittore non riesce più a distinguere “io” da quell’inconsapevole tentativo di suicidio da cui solo pochi giorni prima era scampato per puro caso.
12.
Quando il non più atteso mattino incredibilmente, inevitabilmente giunge, alzarsi dal letto sembra una scommessa impossibile, ma in qualche modo riesce a vincerla. Come uno spettro ebbro, barcollante e irreale, lo scrittore traversa il corridoio ed entra dentro il bagno. Gli occhi però sono talmente abbagliati da quell’oscurità accecante che per tutta la notte si è sostituita alle sue palpebre che nello specchio non riesce a distinguere nulla di preciso. In un certo senso, questo fatto lo rende felice. D’ora in poi, non ci sarà più alcun bisogno di alcuna volontà o di alcun gesto per sparire. Basterà aspettare qualche giorno, magari qualche ora, o anche meno. Basterà qualche minuto, e poi tutta quella spaventosa faccenda finirà da sola. Semplicemente, crollerà sul pavimento, sepolto dalla frana di cieli e di montagne dell’angoscia, oppure evaporerà e si fonderà fra le nubi, oppure sarà portato via dal vento assieme alla polvere, alle foglie e ai rumori indefiniti della strada.
13.
Per quel giorno e nei giorni successivi si mette così ad attendere passivamente il compiersi di quel suo così inattendibile destino, talmente inattendibile che né la ballerina, né lo scrittore stesso né dunque nessun altro al mondo sarebbero mai stati disposti, non diciamo a capire, ma anche solo a far finta di ascoltare. Ma ora, per fortuna, l’incubo era finalmente per finire! Quanto ancora attenderà la nera signora per venire a trovarlo, quindici giorni, un mese, o un quarto d’ora? Sarà un collasso cardiaco, una crisi respiratoria, o un edema cerebrale? Oppure, attraversando la strada, un qualche inarrestabile moto autodistruttivo troverà il modo di gettarlo sotto un tir?
Lo scrittore si lasciava andare così alla lenta risacca di quell’oceano di angoscia che i suoi giorni e le sue notti erano diventati. Però, per quanto cercasse non opporre resistenza alla gelida manina che nemmeno poi così dolcemente lo stava menando verso il baratro, dentro di sé, un lumicino, per quanto minuscolo, continuava ancora a rimanere ostinatamente acceso. Ciò fece si che, con il passare dei giorni ed il mancato sopraggiungere della temuta e sospirata fine, la minuscola fiammella ritrovasse alimento, riprendendo così a bruciare con una certa energia. In effetti, se dopo un mese di agonia sono ancora vivo, forse non tutto è finito. Quasi tutto è finito, va bene: ma non ancora proprio tutto!
Forse, fra qualche settimana, le cose miglioreranno. Devo solo organizzarmi, resistere in qualche modo durante questo periodo che senz’altro sarà il peggiore. Ma poi tutto, in qualche modo, passerà.
Forse, anche questa volta il tempo, con quella medicina occulta di cui solo il tempo conosce la formula, curerà anche questa ferita, che fa di tutto per sembrare incurabile, ma che però non può esserlo!
Dunque, come molte volte era successo in passato, anche questa volta riuscirà a venirne fuori (non è vero?).
14.
Il tempo sì, il tempo ovvio, il tempo banale, quello che tutti giorni sfoglia il calendario, apre il giornale, ticchetta nell’orologio: non gli rimaneva altra speranza. C’era forse da sperare in un miracolo? Ma no, no, ma quale miracolo! che ogni volta che ci pensava, gli veniva in mente il celebre «Non credo ai miracoli. Ne ho visti troppi.» (chi è che l’aveva detto? Sul momento non se lo ricordava, ma doveva essere senz’altro Oscar Wilde, quello che ha detto anche che «Ci sono delle persone che sanno tutto, ma questo è purtroppo anche tutto quello che sanno.»). Anzi, a ben vedere, il suo sperare, in un certo senso, non aveva un granché a che fare nemmeno con la speranza come comunemente si intende, dato che consisteva in un puro e semplice non meno che totalmente vuoto aspettare, aspettare e ancora aspettare.
Aspettare, si, ma cosa? Aspettare che il tempo passi, mentre intanto il tempo sta passando. Sembra da idioti ripetersi ossessivamente un luogo comune di tal genere, ma i luoghi comuni sono tali perché sono veri (non è vero?). Oramai era diventato abbastanza vecchio per perdere fiducia in tutto e in tutti, ma in compenso aveva guadagnato la fede più antica, quella nel tempo immortale, che tutti e tutto fa mortali, che tutti e tutto cancella, che ogni bene e ogni male trasforma nel bianco dono dell’oblio. Non era questo in fondo quel che era successo ai suoi odi e ai suoi amori passati, ai quei dolori e quelle gioie che aveva fermamente creduto incancellabili?
un libro y en sus páginas la ajada/ violeta, monumento de una tarde/ sin duda inolvidable y ya olvidada: uno scrittore come Borges si legge proprio per nulla
15.
No, uno scrittore come Borges non si legge per nulla, e senz’altro gli aveva insegnato qualcosa. Però, come capita con gli scrittori, forse gli aveva insegnato qualcosa di astratto, una saggezza reale solo quanto alle parole, ammesso che non gli avesse insegnato – magari non volendo – qualcosa di sbagliato. È bellissimo in effetti sentir cantare parole come quelle con cui descrive «la memoria de una mujer que lo ha abandonado hace ya tantos años que hoy puede recordarla sin amargura», ma – ahimè – per una volta quelle belle parole sembravano destinate a restare belle parole, e lo scrittore, dopo aver perso qualsiasi genere di fede, si apprestava a perdere anche quella nel tempo che tutto e tutti perde, inesorabilmente.
Il tempo, quell’invincibile generale che vince la guerra perdendo tutte le battaglie sembrava svanito o, almeno, sembrava essersi trasformato anche lui in una favola, in un mito. Per una volta la parola “oblio” sembrava un suono dissennato, inarticolato, entrato nel vocabolario a causa di un qualche banalissimo errore di stampa.
16.
È verso la metà del settembre del 2012 che in preda a un panico oramai illimitato, lo scrittore si sente costretto a ipotizzare senza più alcuna esagerazione metaforica che non gli rimangono altro che pochi mesi, forse addirittura poche settimane di vita, o almeno: di salute mentale. Perché, questo almeno è del tutto chiaro: se di quella storia pazzesca non morirà, impazzirà di sicuro! Come poterne dubitare, se col passare dei giorni la sua situazione non solo non migliorava, ma sembrava degenerare ogni giorno di più? Addirittura, in certi momenti, arriva a temere che il cranio gli possa esplodere da un momento all’altro a causa della massa indescrivibile di pensieri e immagini angosciose che gli invadono e sempre più si comprimono nel suo sempre più minuscolo, disseccato e ronzante cervello.
Si guarda intorno, e non vede nessuno: non ha una compagna, non ha figli, non ha amici, non ha nemmeno più un lavoro e dunque non ha nemmeno più colleghi. Non ha più niente. Tutto quel che gli resta di quella che un tempo chiamava la sua vita sono quelle parole al vento che per anni e anni lo hanno trascinato nella loro vertigine, trasformandosi incontrollabilmente in decine e decine di libri di cui nessuno si occuperà mai, nemmeno per ignorarli, o per biasimarne la scarsa o pessima fattura, perché lui non si è mai preoccupato di farne sapere qualcosa a qualcuno (quando questa tragedia invisibile giungerà alla sua fine invisibile lo scrittore leggerà queste frasi di Pessoa credendo fermamente di averle scritte lui: «La mia vita è una tragedia crollata sotto i fischi degli Dèi e della quale è stato rappresentato solo il primo atto. Amici, nessuno. Solo alcuni conoscenti che credono di simpatizzare con me e a cui forse dispiacerebbe se io finissi sotto un treno e il funerale avvenisse in un giorno di pioggia.».)
Questa consapevolezza, orrenda come tutte le altre, ha però il potere di scuoterlo, e di muoverlo all’azione. Oramai assolutamente e risolutamente convinto di essere agli sgoccioli, lo scrittore decide sui due piedi di iniziare un’opera che possa in qualche modo lasciare un segno in quello che gli viene spontaneo chiamare “mondo esterno”. In questo modo, quando la sua morte o la sua follia fossero finalmente sopraggiunte, ci sarebbe stato qualcuno che si sarebbe ricordato di lui, qualcuno che forse avrebbe voluto vedere i suoi appunti, aprire i suoi quaderni o il suo computer, e cose del genere.
È in uno stato d’animo e con motivazioni come queste che inizia il tentativo di decifrare quello che senza un grande sforzo d’immaginazione chiamerà “Il codice di Snefru”, che altro non è che la matematica ermetica che ha dato origine all’arte e all’architettura sacre dell’Antico Egitto. In uno stato d’ansia indicibile abbozza le prime tavole geometriche, scrive i primi appunti.
17.
Questo lavoro ha degli strani effetti sulla sua psiche. Anche se la distrazione che gli offre è troppo esigua per calmare le sue angosce, dopo circa un mese, in uno dei brevi intervalli di sonno che l’insonnia ancora gli concede, fa un sogno molto strano, di un genere che in vita sua non aveva mai fatto.
Tiene le braccia distese e immobili come le ali di un avvoltoio, mentre sta volando altissimo sulla piana di Giza. Sotto di lui, piccole piccole, ci sono le tre Piramidi della IV Dinastia, allineate con le stelle della cintura di Orione. Sopra di lui ci sono delle nubi impenetrabili, di un inquietante colore grigio scuro bluastro, agitate violentemente da un vortice di cui il suo planare lento e immenso non sa nulla. Dal profondo di queste nubi, ode il suono di una voce ignota che gli dice «Guarda la Piramide: esiste dall’eternità» (in un racconto di Borges, qualche anno prima, aveva letto una citazione di Maimonide, che sosteneva che quando nei sogni si odono chiaramente delle parole ma non si può vedere né riconoscere in alcun modo chi sia a pronunciarle, questo significa che a parlare è stato Dio).
Al risveglio, che avviene immediatamente dopo aver udito questa misteriosa frase – che nel sogno suonava come una sorta di criptico comandamento – la convinzione già radicata di star diventando pazzo si rafforza ulteriormente, insieme alla folle convinzione che il suo inusitato lavoro di archeoastronomo e archeomatematico, proprio come la ballerina, non sono entrati nella sua vita per caso. L’uno è subentrato all’altro, l’uno è intrecciato all’altro, inestricabilmente. Tutto quel che stava facendo non l’avrebbe mai fatto, se lei non fosse prima arrivata e poi partita, aprendogli nel petto quella ferita atroce da cui, come per magia, sgorgavano i suoi pensieri.
In questo modo, un dubbio folle fra tutti i dubbi che in quel momento la sua mente subissata da ogni sorta di dubbi e di terrori prese a rodergli l’anima. Che lei non fosse lei, e che lui non fosse lui. Che qualcuno l’avesse in trasformato in qualcun altro, facendogli vedere in lei quello che non era. E tutto questo spaventoso gioco di prestigio non poteva essere fine a sé stesso: esso era invece finalizzato al recupero di un sapere, di una conoscenza perduta, quella di cui in miti e leggende sparsi in tutto il mondo si racconta che è destinata a sorgere e tramontare periodicamente, e che nei millenni l’uomo guadagna interminabilmente e interminabilmente perde dall’eternità. Alla fine, non è proprio a questa conoscenza che alludono in modo ermetico e quasi indecifrabile le leggende del Graal e di coloro che sono destinati a cercarlo per tutta la vita?
L’angoscioso pensiero prese a torturarlo. Quelle luci indecifrabili in cui il suo volto era immerso la prima volta che l’aveva vista in quella sala piena di specchi: che fosse quello il Graal, che fosse quella la meta a cui quel sentiero cosparso d’orrori lo stava trascinando?
In effetti, nel mezzo di quel caos totale, almeno questo gli sembrava chiaro: che non avrebbe mai fatto quel sogno, se non l’avesse vista e riconosciuta nella foto.
18.
In quel periodo lo scrittore farà altri sogni simili a questo, sogni che hanno per tema miti, riti iniziatici, o in cui appaiono relitti, macerie, simboli, frammenti, immagini che però al mattino svaniscono nel risveglio. Un’eccezione si verifica quando sogna di discendere accompagnato dalla ballerina nelle grotte paleolitiche di Lascaux. Lei gli mostrerà le pitture, e gli parlerà di una lontana eredità Neanderthal, dicendogli cose incredibili, di cui al mattino però non si ricorderà quasi più nulla. In un altro caso, la ballerina gli apparirà come uno strano angelo custode che lo accompagna lungo un viaggio in delle misteriose e atroci dimensioni sotterranee, che sfociano in luoghi della sua infanzia, o in immagini indefinite di tempi passati, o fuori del tempo. In altri sogni, rivedrà suo padre, morto da più di tre anni che piange disperatamente per la sua partenza, e lui dovrà consolare suo padre perché…
Di queste e di altre cose che gli sono successe in quel periodo, lo scrittore non sapeva e non sa dire nulla di più che sono accadute, e che quale sia il loro senso profondo sarà la morte a dirglielo (quando questa tragedia invisibile giungerà alla sua fine invisibile, lo scrittore leggerà questa frase di Pessoa credendo fermamente di averla scritta lui: «A furia di occuparmi d’ombre, sono diventato io stesso un’ombra.». Oppure anche questa: «Mi sento tutto una nostalgia vaga, non del futuro o del passato, ma del presente incompreso.»).
19.
Sebbene immerso in stati allucinatori angosciosi, che non sembrano lasciare spazio a un minimo di lucidità e di senso critico, la sua stralunata e quasi incredula avventura intellettuale, contro ogni logica, inizia bene e prosegue al di là di ogni per quanto insensata speranza. Nel giro di tre o quattro settimane (tanto può il terrore di una morte dimenticata da tutti o di una follia non più ricordata nemmeno da sé stesso) scrive articoli di un certo successo per riviste on line molto importanti che, contro ogni aspettativa, hanno dato ascolto alle sue teorie – teorie che pure sono radicalmente in contrasto con le concezioni in voga nella storia, nell’archeologia e nella paleontologia contemporanee.
Questo successo, ancorché modesto, gli dà possibilità di creare un sito internet dove d’ora in avanti potrà pubblicare tutto il materiale che riuscirà a produrre sui temi che ha iniziato a trattare negli articoli, avendo la pratica certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà. Dunque, per quanto gli risulti difficile da credere, forse è riuscito nel suo intento. Forse, in un futuro per quanto lontano e improbabile, qualcuno si occuperà di quel che ha scritto, così che quei mille dialoghi di nessuno con il niente in qualche modo gli sopravvivranno! In qualche modo, quel nessuno che è stato per sé stesso diventerà qualcosa per qualcuno, almeno per qualche minuto, almeno per qualche momento!
Lo scrittore potrebbe dunque sentirsi felice, o almeno minimamente soddisfatto. Ma ovviamente non è così. Non ostante che il suo lavoro intellettuale abbia almeno in parte raggiunto il suo scopo, l’interna ferita, l’intimo abisso che la partenza della ballerina gli ha aperto nell’anima continua a spalancarsi ogni giorno più vertiginoso e orrendo, ogni giorno più insondabilmente labirintico, oscuro e smisurato.
20.
Il suo pensiero filosofico, le sue ricerche storiche, le sue ricostruzioni geometriche e matematiche sono come uno scoglio desolato, quotidianamente battuto dalle tempeste di un oceano di lucida follia. Se anche solo per un attimo alza gli occhi dal lavoro, e molto spesso anche mentre sta lavorando, i suoi pensieri sprofondano in un groviglio di incubi gotici, in sotterranee sale di tortura dove serial killer hollywoodiani e inquisitori medievali si tendono fraternamente la mano.
La sua mente si è come spezzata, diciamo così, in due vasi non comunicanti. Avendo il dono di poter perscrutare la psiche altrui come un paesaggio visibile, avremmo potuto vedere lo scrittore immerso da un lato nella limpidezza, l’inflessibilità e l’atarassia o quasi-atarassia del pensiero filosofico e matematico. Dall’altro lato, lo avremmo visto sprofondare negli sguaiati e interminabili inferni che ogni giorno, ogni ora e ogni istante gli era dato di percorrere, ovvero in dei paesaggi talmente deliranti e inafferrabili che nemmeno il pennello di un Bosch all’apice dell’ispirazione sarebbe stato capace di tratteggiarne le sarcastiche atrocità, i goffi e sconfinati labirinti, le camere di allucinata tortura e di purissimo terrore.
21.
Piangere, in certi momenti, è parso a molti una sorta di miracoloso processo alchemico, in grado di tramutare una sofferenza per quanto atroce in una per quanto sofferta fonte di gioia. Testimonianze di metamorfosi di tal genere si trovano nella storia comune come in quella della letteratura, ma altrettanto a lungo che inutilmente lo scrittore invoca o implora il dono mistico delle lacrime, quello Sant’Agostino credeva capace di svelare all’occhio umano un qualche tratto sia pur vago del volto inaccessibile di Dio. I suoi occhi però rimangono asciutti, oppure, quando pur le lacrime giungono, si rivelano una medicina amara e inutile, capace soltanto di aggiungere tristezza alla tristezza, sfinimento allo sfinimento. Ristagnano laggiù, nei meandri più riposti degli occhi, gli annebbiano la vista, rendono il mondo al tempo stesso inafferrabile e appiccicoso, lo riempiono di vuoto e confusione e infine, quando oramai fredde e consunte dal delirio scivolano giù per le gote, lo fanno come per inerzia, per accumulo, senza energia, così che lo scrittore si trova quasi continuamente a dover asciugare gli occhi senza però riuscire mai a piangere in quel modo caldo, intenso e profondo, che è poi l’unico che a volte può servire a rigenerare le anime sconvolte dal dolore.
22.
In niente riesce a trovare sfogo né rifugio. Se pensa di gridare, le grida gli serrano la gola come un cappio. Se pensa di mettersi a sfasciar mobili, le ossa gli cadono a pezzi come un mobile sfasciato. Se pensa di partire per perdersi in un viaggio senza meta, la testa gli gira talmente forte che non riesce più nemmeno a ricordarsi a cosa stava pensando. Immobilizzato nel sarcofago di granito dell’angoscia a volte si scopre a ridere con quel tono vuoto e scrosciante con cui solo i pazzi sanno ridere, una cosa che a momenti lo spinge a sperare che per magia imitativa la pazzia possa giungere – almeno lei finalmente! – a consolarlo. Ma nemmeno la pazzia si vuol prendere cura di lui. Gli cammina di lato, però tenendosi lontana, la testa china e l’espressione imbronciata, lanciandogli ogni tanto degli sguardi furtivi e misteriosamente privi di espressione.
Mattino dopo mattino, il rituale sguardo nello specchio diventa sempre più lugubre e pensoso. Dal giorno in cui la ballerina se ne è andata, la morte non lo fissa più negli occhi, ma nelle orbite.
23.
Siamo all’inizio del dicembre del 2012, quando quegli oscuri e indicibili terrori che hanno occupato le sue ore di veglia, prendono a invadere anche quel poco di sonno che sempre più di rado riesce a procurarsi. Il risveglio è oramai un martellare di tempie, una selva di punture negli occhi, una palude di vertigini. La sua vita quotidiana si è trasformata nell’attesa angosciosa di un letto odiato quanto temuto, dove se e quando si addormenta è solo per essere devastato da incubi ancora peggiori di quelli della veglia.
Gli espedienti che ha usato per cercare di rimediare a quella miserevole situazione si sono rivelati inutili. Ha provato di tutto, ma tutti i mezzi a cui è ricorso, leciti o illeciti, plausibili o improbabili, lungi dal curarlo, non sono riusciti a portargli il benché minimo sollievo.
Il tentativo di farsi ipnotizzare si rivela una perdita di tempo, come del resto prevedeva, perché è sempre stato del tutto resiliente a qualsiasi tipo di influenza ipnotica, e questo – ahimè – è anche il motivo per cui gli esercizi di rilassamento, che hanno sempre funzionato poco e male, cominciano ad avere l’effetto contrario a quello auspicabile e desiderato (lo scrittore è uno di quei disgraziati soggetti a cui l’invito per quanto dolce e amichevole a rilassarsi, sia che provenga da lui stesso sia che provenga dal mondo esterno, tende a creare inesorabilmente ansie e tensioni ancora peggiori di quelle preesistenti all’invito: in pratica, su soggetti come lui, gli esercizi di rilassamento funzionano soltanto quando è già rilassato).
Per altro verso, i tanto pubblicizzati e decantati psicofarmaci non fanno che creargli una nuova paura, e cioè quella di rimanere senza, l’alcol centellinato o tracannato a fiumi non gli provoca altro che nausea o repulsione, quel poco di relazioni sociali che pure manteneva cominciano a risentire pesantemente dello sconvolgimento della sua psiche, così che adesso deve fare a meno di rapporti che, per quanto superficiali e insignificanti, gli davano almeno un minimo di distrazione.
Si sente braccato, accerchiato, stretto in una morsa. Quella tortura non è più sopportabile: deve a tutti costi fare qualcosa, deve, deve farlo! Ma cosa? Cosa? Cosa deve, cosa può fare?
24.
Dopo elucubrazioni altrettanto improbabili che interminabili, non trovando come al solito il coraggio di farla finita volontariamente (in passato, ha tentato più volte di farlo, ma mai lucidamente, mai come esito di una filosofia, o comunque di un processo logico di qualsiasi genere, e dunque mai come esecuzione di un piano prestabilito: proprio come qualche mese prima era successo alla stazione di Campo di Marte, sempre si è trattato di agguati oscuramente tesi da una mano estranea che, approfittando di momenti di assenza del suo io, tenta all’improvviso di spingere il suo corpo indifeso e non più suo verso l’abisso di… ) e non riuscendo a trovare il modo di ottenere un qualsiasi sollievo, si rende conto che l’unica possibile soluzione, ovvero l’unica possibilità che ancora rimane, se non proprio aperta, almeno timidamente socchiusa, è quella di cercare un modo quale che sia di rivedere la ballerina.
Deve farlo, si. Ma non perché questa sia una scelta ragionevole, lo sa benissimo. Al contrario, si tratta di una stravagante stupidaggine, se non proprio di una pura e semplice follia. Questa stravagante stupidaggine però è resa necessaria e inevitabile dal fato e dal fatto che non ha alternative. Certo, una volta stabilito che altro non può fare che cercare di contattarla, lo scrittore è ancora abbastanza lucido per rendersi conto che invece, dal punto di vista della ballerina, lui non dovrebbe avere alcun valido motivo per farlo. Dunque, quando pur fosse andato a trovarla, come giustificare la sua presenza in luoghi che, presumibilmente, con la sua vita quotidiana non avevano proprio nulla a che vedere?
Scartando immediatamente l’ipotesi di pronunciare senza alcuna introduzione l’impronunciabile verità, sul momento non gli viene in mente altro pretesto che un completamente idiota “ma guarda un po’ che caso passavo di qui e ho visto..”. Come alternativa, pensa che potrebbe parlarle del desiderio lungamente coltivato di assistere a uno dei suoi spettacoli. Tutte ipotesi poco credibili ed estemporanee, come ben si vede. In ogni caso, qualcosa avrebbe dovuto assolutamente inventarsi, plausibile o meno che fosse, perché le cose non potevano assolutamente andare avanti in quel modo.
(ma allora perché dentro di sé rimane certo che qualsiasi soluzione possa trovare, alla fine – o magari anche fin dall’inizio – quel che riuscirà a dire o a fare non servirà a nulla?)
25.
Fantasticando quanto al modo di rendere plausibili, a lei come anche a sé stesso, quei del tutto assurdi viaggi che sarà in ogni caso costretto a compiere, per lunghi momenti lo scrittore ha l’impressione, e a volte addirittura la certezza, di essere diventato completamente pazzo, perché solo un pazzo può arrivare a star male in quel modo lì, a pensare quelle cose lì, a cercare rimedi in quel modo lì. Tutta quella faccenda sembra talmente improbabile da parere infine del tutto improponibile: il modo in cui è iniziata, quello in cui è continuata, come anche quello in cui minaccia di finire.
Per esempio: fra le cose più banali (!?) che in teoria avrebbe dovuto raccontarle c’era un sogno terrificante, fatto circa un mese dopo averla incontrata (e quindi oramai ben due anni prima). In questo sogno lui era Robert Schumann, il celebre musicista romantico, intento a suonare il pianoforte in una sala piena di libri antichi, che si trovava in un oscuro castello medievale. In quello stesso sogno, lei era sua sorella, ovvero la sorella di Schumann che indossando un vestito nero, lungo e leggerissimo, veniva verso di lui dai meandri oscuri e contorti di una porta gotica. Veniva lieve, lievissima, ancor più lieve del suo vestito, quasi galleggiando come una nebbia oscura eppure evanescente nella brezza fatata del mattino. Mentre lui continuava a suonare senza distogliere lo sguardo dalla tastiera, lei, con un’espressione da cui emanava un lugubre rimprovero, un’infinita compassione e un vago e triste risentimento, in un linguaggio e con delle parole che nella vita di veglia lo scrittore non aveva mai sentito e che dunque non saprebbe ripetere, gli disse che stava per diventare pazzo, e che la pazzia lo avrebbe condotto al suicidio.
Il sogno, sul momento, gli era parso del tutto incomprensibile perché, per così dire, del tutto decontestualizzato. Lo scrittore in quel periodo si sentiva abbastanza sereno, e lì per lì questa visione notturna non gli lasciò altro che l’inquietudine inafferrabile di non capire assolutamente quale potesse essere il suo significato: che cosa c’era che non andava nella sua vita perché dovesse fare sogni di questo genere? Apparentemente, non c’era nulla.
A questo sogno ne erano ben presto seguiti altri di tono e atmosfera simili, che aveva quasi del tutto dimenticati nel risveglio, senza che però l’oblio del contenuto avesse potuto scacciare le inquietudini legate a quella forma informe, oscura e fin quasi terrorizzante che aveva preso a perseguitarlo. Poi, un paio di mesi dopo quello di Schumann arrivò un altro sogno, che questa volta anche molte ore dopo il risveglio ricordava perfettamente e in cui quell’enigmatica condanna veniva comminata in modo chiaro e ultimativo, anche se per nulla più comprensibile di quello in cui gli era stata per la prima volta annunciata.
Un monaco con la testa come sepolta in un cappuccio, il cui volto non aveva potuto in nessun modo riconoscere, si era avvicinato al letto d’ospedale dove lui giaceva malato in attesa di responso. L’ospedale era una struttura antiquata, che gli ricordava le sue scuole elementari. Il monaco lo raggiungeva come trascinandosi accanto un dottore che sembrava in evidente imbarazzo. Teneva la testa china e si vedeva bene che aveva qualcosa di grave da dire, ma che non aveva il coraggio di parlare. Allora il monaco rompeva gli indugi, e dal fondo del letto gli diceva che non aveva più alcuna speranza: gli erano rimasti non più di tre giorni di vita. Poteva quindi tornarsene a casa per attendere la sua fine in un luogo familiare. Lo scrittore allora prendeva la macchina e cominciava un viaggio molto lungo e tortuoso, guidando in mezzo a un paesaggio di rovine. Accanto a lui c’era una donna che non sapeva chi fosse a cui raccontava che il motivo di tutto (di tutto che?) stava in quelle rovine che si stagliavano minacciose laggiù, in un buio tanto perfetto da sembrare stranamente luminescente.
26.
L’inferno era cominciato da lì, da questi sogni completamente inesplicabili, proprio durante un periodo in cui si sentiva sereno in modo inusitato.
Era quello un periodo in cui, dopo anni e anni di lotte molto più dannose che inutili, gli sembrava di aver infine accettato quella misteriosa infelicità che pare inevitabilmente connessa al puro e semplice fatto di essere uomo, e perciò destinato a quel destino banale, di cui tutti in fondo sanno tutto, ovvero a quell’infantile e tragica altalena che instancabilmente oscilla fra il tedio e il dolore, il dolore e il tedio, scandendo il tempo di un fine pena mai che non pare avere altra possibile interruzione che la rassegnazione.
In anni passati era arrivato più e più volte sul punto di autodistruggersi pur di evitare la noia ed il suo nulla. Ma, a un certo punto, sia stata la stanchezza o un miracoloso dono del cielo, gli era sembrato di essere arrivato, se non proprio a una matura tranquillità, almeno a una sorta di cosciente accettazione. Perché dunque proprio allora che non sembravano esserci ragioni plausibili di scontento – proprio allora che aveva smesso di bere, di fumare e di farsi altrimenti del male, e che spendeva il suo tempo diviso fra l’ascolto della musica classica e la lettura di libri impegnati – nei sogni si affacciavano ammonimenti tanto minacciosi, che sembravano alludere all’illusorietà di quell’equilibrio che pure credeva di aver raggiunto nella sua vita quotidiana?
In effetti, lo scrittore non aveva la più pallida idea di quali potessero essere le cause di quella strana maledizione che dall’ambito inaccessibile dei sogni gli era piovuta addosso con ragioni altrettanto umanamente comprensibili che quelle con cui un meteorite avrebbe potuto colpirlo al termine della sua corsa nell’infinità dello spazio profondo. Tutto quel che era riuscito a comprendere di quell’incredibile situazione, proprio come era successo al celebre protagonista de “Il processo” di Franz Kafka, era che la macchina terrificante che quei sogni avevano messo in moto non si sarebbe fermata tanto presto, e che da quel momento in poi la sua vita non sarebbe stata più la sua.
Da quel momento in poi – era questo quel che oscuramente sapeva nella veglia con la stessa inesorabile sicurezza con cui si sanno le cose dentro i sogni – la sua vita sarebbe andata avanti come su un binario, estranea ai suoi pensieri, indifferente ai suoi desideri, simile a quel treno con cui aveva rischiato di ammazzarsi due anni dopo.
Un cerchio si era aperto, e questo era certo. Era certo anche che in qualche modo si sarebbe chiuso. Quel che rimaneva agonicamente e angosciosamente incerto, era il modo in cui questo sarebbe accaduto.
27.
Cedere al destino non è mai facile, perfino quando si è compreso che ribellarsi è la parte che ci è stata assegnata da quel destino a cui ci ribelliamo. Fu probabilmente questo il motivo per cui lo scrittore lottò fino allo sfinimento coi suoi pensieri per poter credere che, non ostante tutto, la sua vita fosse sempre stata e restasse ancora nelle sue mani. Fu una di quelle guerre al tempo stesso eroiche e tragicomiche, che potremmo paragonare a quella di un burattino che minaccia con la spada di legno quegli stessi fili che lo costringono a levarla verso il cielo.
Illuministicamente, si potrebbe obbiettare che invece nella guerra dello scrittore con sé stesso non c’era proprio nulla di comico e che, al contrario, si trattava di una guerra giusta condotta contro un nemico retrivo e oscurantista con cui alla fine si poteva pensare anche di vincere. Non è proprio questo quello che ci dicono il cosiddetto buonsenso, la cosiddetta logica, che la nostra vita è nostra, che noi siamo quel che vogliamo e che siamo liberi volere quel che vogliamo e di non volere quel che non vogliamo (si, ma quel che vogliamo possiamo volere di volerlo, e quel che non vogliamo, possiamo volere di non volerlo?)? Non ci ripetono forse il cosiddetto buonsenso, la cosiddetta logica, che solo l’individuo esiste, che il suo segreto è dentro di lui, è lui stesso, e che tutto il resto non è che un’illusione, un sogno da cui conviene quanto prima ridestarsi?
Già.
Ma come a volte la vacuità dei sogni può trasformarsi in dura realtà, a volte la dura realtà può contro ogni buonsenso trasformarsi nell’inafferrabile vacuità dei sogni. Per quanto si sforzasse di rifuggire da questa tormentosa certezza, dentro di sé lo scrittore sapeva che le immagini che lo opprimevano non erano affatto un vano schermo di miraggi, un turbine di impressioni vaghe e inconsistenti, destinate a dissolversi prima o poi nella solida e al tempo stesso malleabile “ragionevolezza” della vita quotidiana. Quei momenti in cui aveva cercato e in cui ancora cercava, come si dice, di tornare alla logica, di far leva sulla realtà e sulla ragione erano i più folli di tutti. Come si può definire “irreale” un qualcosa – qualsiasi cosa sia! – a partire dal quale la vita che chiamiamo “reale” comincia a percorrere una curva – irreale, va bene, ma forse proprio per questo ancor più vertiginosa – che porta un essere umano sull’orlo del suicidio?
È vero: a quel che gli pareva di ricordarsi, nei giorni immediatamente successivi al sogno del monaco, ovvero a quello in cui la condanna alla follia e alla morte venne pronunciata in modo definitivo, la sua vita era andata avanti nel modo relativamente tranquillo in cui stava procedendo da almeno due o tre anni. I soliti libri, i soliti appunti, la solita musica, i soliti film impegnati. Anche dopo che il monaco aveva pronunciato quell’incredibile condanna, per almeno un paio di settimane lo scrittore aveva avuto la possibilità di consolarsi pensando che quei sogni avevano senso solo se riferiti al suo passato, più probabilmente a quello remotissimo della sua infanzia, e che di fatto nel presente non sarebbe successo proprio nulla.
Però, nel giro di poche settimane la sua vita aveva avuto quella svolta completamente incomprensibile e dunque completamente imprevedibile che nel sogno eppure gli era stata preannunciata. Lentamente ma inesorabilmente delle visioni orrende, intense e inevitabili come incubi, avevano cominciato a invadere la sua vita quotidiana e a sovrapporsi come uno schermo sempre più vivido e luminoso a quella percezione del mondo che fino ad allora aveva considerato realistica e “normale”. Tutti i supplizi e i tormenti di cui in vita sua aveva avuto notizia, per testimonianza diretta, o per averli visti in film, o letti in libri di storia o in dei romanzi, o persino nei fumetti, comparivano davanti ai suoi occhi, e lui ne era la vittima. E se dapprima queste allucinazioni quotidiane non occupavano che pochi minuti, col passare dei giorni cominciarono a diventare sempre più invasive, nitide, e terrificanti.
Fra lui e il mondo era sorta una barriera invisibile, limpida epperò solida e impenetrabile come un muro di cristallo, su cui si proiettavano questi incubi diurni. I colori e i contorni che vedeva erano dapprincipio labili, come quando in un’ora diurna siamo davanti a un vetro, e il mondo fuori dalla finestra ci appare chiaro e distinto, mentre l’immagine riflessa della stanza in cui ci troviamo appare incerta e fin quasi invisibile. Ma con il passare del tempo, l’ora diurna diventò sempre più oscura, fino a che il mezzogiorno cominciò a trasformarsi in notte fonda. Le immagini dell’incubo che si riflettevano nel vetro diventavano così sempre più nitide, e dunque sempre più logiche, mentre la realtà, la un tempo ragionevole e solida realtà, si trasformava in uno sfondo scuro, impenetrabile, in cui si agitavano ombre sempre più lontane e vaghe, e sempre più inafferrabili e labili illusioni. Il bar dove entrava e chiedeva un caffè, il caffè che sorseggiava, la gente che aveva intorno, la musica di sottofondo, non erano altro che un’eco lontanissima nel mentre la sua anima si sprofondava interminabilmente in un supplizio che alludeva o che faceva il verso all’eternità di orrore dell’inferno.
28.
Già dopo tre o al massimo quattro mesi dal momento in cui questa strana storia era cominciata, lo scrittore si era reso enigmaticamente conto che tentare di parlare con la ballerina, ovvero chiederle aiuto, era l’unica speranza di salvezza, l’unico modo possibile per evitare di precipitare in quel baratro che, in qualsiasi direzione tentasse di fuggire, inesorabilmente lo attendeva. Ma, ovviamente, non solo non lo aveva fatto, ma nemmeno aveva pensato poterlo fare effettivamente. In effetti, come era possibile rivolgersi a una persona che era del tutto legittimata a credersi una perfetta sconosciuta, con delle enormità di questa portata? Come poter anche solo immaginare di fare sul serio una cosa del genere? Che cosa ci poteva entrare la ballerina con il fatto che lui stava impazzendo, e come poteva in qualsiasi modo essere o trovare rimedio alla sua follia? Non era quel rimedio che del tutto insensatamente sperava da un colloquio tanto improbabile la testimonianza più certa che la sua ragione, se non era svanita, stava rapidamente svanendo?
(Chi è che ha scritto «Le follie sono le uniche cose che non si rimpiangono mai »?)
((Si, doveva essere ancora lui, doveva essere Oscar Wilde. Lo stesso che ha scritto « L’esperienza è il tipo di insegnante più severo che si possa trovare. Prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione. »))
29.
Col passare del tempo e col peggiorare del suo stato d’animo l’assurdo prese corpo e travolse ogni logica: giunto al dicembre più gelido della sua vita, non riusciva più ad avere dubbi. A dispetto di ogni appello al buonsenso, in qualche modo che non sapeva giustificare lo scrittore arrivò a convincersi che, per quanto la cosa potesse apparire del tutto priva di senso ove considerata da un punto di vista estraneo al suo delirio, la ballerina doveva avere a che fare con quel suo terribile quanto incomprensibile destino, anzi, che ne doveva essere in qualche modo la fonte, o almeno la causa scatenante. Gli interminabili terrori che erano seguiti ai sogni in cui la sua condanna veniva da lei annunciata e pronunciata – adesso ne era certo – non erano altro che una sorta di ipostasi di quella surreale maledizione da cui era stato colpito poche settimane dopo averla incontrata. Anzi, se voleva essere sincero con sé stesso, doveva riconoscere che il suo viaggio nell’abisso era iniziato, sia pure in modo talmente sommesso da risultare inaudibile, nel momento stesso in cui l’aveva riconosciuta in quella strana foto a colori, talmente strana che sul momento gli era parsa in bianco e nero. Una foto comunque in cui, non ostante tutti i camuffamenti dovuti al contesto non meno che agli inevitabili cambiamenti dovuti al tempo e alla fortuna, era riuscito a riconoscerla istantaneamente, con un’intuizione forse ancor più misteriosa delle conseguenze che quello stranissimo incontro aveva avuto.
La foto era su un giornale aperto che qualcuno aveva abbandonato su un treno che non prendeva quasi mai. Uno sguardo fu sufficiente a trasformare la sua vita in uno stranissimo remake di un film di Alfred Hitchcock che, per di più, al tempo in cui l’aveva visto, non gli era nemmeno piaciuto più di tanto, “La donna che visse due volte”. Come nel film, la persona che aveva di fronte non era sé stessa, ma invece una sorta di paradossale reincarnazione o riproduzione di sé stessa. Ma nel loro passato comune non c’era però nulla che somigliasse a un suicidio simulato. Nel loro passato comune c’era solo la sua privatissima sensazione che un giorno l’avrebbe rincontrata e dunque, in un certo senso, nel loro passato comune non c’era proprio niente, se lui di lei, in un certo senso, sapeva tutto, mentre lei di lui non sapeva niente.
Dunque, nel film che lo scrittore si preparava a recitare nella parte di attore protagonista – oltre che di spettatore – l’attrice protagonista non aveva il minimo sospetto del mistero che la circondava. Anzi: neppure sospettava di essere un’attrice, o di trovarsi in un film. La trama inventata da Hitchcock, nel farsi realtà, diventava ancora più ambigua e complessa. Nessuno lo avrebbe pagato per seguirla e innamorarsene, ma lui avrebbe dovuto farlo lo stesso.
30.
Se nel momento in cui aveva visto la foto non aveva avuto alcun dubbio, nei giorni successivi in compenso il dubbio non cessò un attimo di tormentarlo. Era lei. No, non poteva essere lei. Però sembrava lei! No, assolutamente: non poteva essere lei. Ma se invece era lei, che cosa significava averla riconosciuta in quella foto, che sembrava fatta apposta perché non potesse riconoscerla? E cosa avrebbe comportato il fatto che ora era lì, a portata di mano, a pochi chilometri da casa?
31.
Certi incontri, o, se si vuole, certe coincidenze, come l’arte, non sono fini a sé stessi: alludono a un’alterità che in altro modo non si può descrivere se non con l’incontro stesso, che è unico e irripetibile come la formula del mago che, recitata da qualcun altro oppure da lui stesso ma in un momento diverso, è solo uno sterile gioco di parole. Sta proprio in questa allusione tanto smisurata da risultare completamente indefinita e indefinibile la loro importanza, è dai loro silenzi che si dipartono le loro infinite, meravigliose e tremende risonanze. È dall’inafferrabile vacuità della causa che deriva il peso insopportabile delle enormi conseguenze. Mai come in questi casi il punto di partenza sembra un nulla, mentre il punto di arrivo sembra (chi è che ha scritto «Le cose più importanti della vita non si studiano né si imparano, le si incontrano.»?)
((Si, era ancora lui, Oscar Wilde, lo stesso che ha scritto che «Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze.»))
32.
È per questo che certi incontri non sono incontri: ne hanno solo l’apparenza. Un’apparenza che quasi subito si dissolve per mostrare quale sia la loro vera essenza. Si crede di fare un passo verso qualcuno e invece si sprofonda in un baratro profondo come il cielo. Si apre una porta e ci si trova di fronte a un labirinto. Inorriditi la si chiude e ci si volge indietro ma, come dentro un incubo, ci rendiamo conto che per arrivare fin lì abbiamo percorso quello stesso labirinto da cui stiamo fuggendo inorriditi.
33.
Dunque, certi incontri non sono incontri. Certi incontri sono come delle intuizioni estetiche non altrimenti spiegabili che come un dono divino, o come delle istruzioni inviate in un linguaggio ermetico. Essi mostrano una mappa, indicano la direzione in quel vasto e imperscrutabile territorio che è il mistero che siamo per noi stessi.
Capire il peso che certi incontri hanno nella nostra vita, capire che a volte si confondono con la vita stessa, e dunque con la morte, è tanto ovvio per chi questi incontri li ha fatti come è del tutto impossibile per chi non li abbia mai fatti. Se questi due tipi di persone si parlano, sono destinati a riguardarsi l’un l’altro come dei folli.
Certi incontri mostrano che la realtà non è altro nulla di più che una porta, dietro la quale si aprono i corridoi labirintici e incerti del sogno e dell’incubo. Questo è il motivo per cui la parte che lo scrittore si apprestava a recitare in quel film del terrore che la sua vita di lì a poco sarebbe diventata era molto più oscura e ambigua di quanto Hitchcock non avesse potuto mai sognare. Anzi, se avesse potuto rivolgersi al celebre regista, parafrasando Amleto che si rivolge a Orazio, lo scrittore gli avrebbe forse sussurrato «Ci sono più cose fra il cielo e la terra Alfred di quante ne sogni la tua filmografia ».
34.
Non era passato un minuto dall’aver visto la foto, e già lo scrittore aveva più o meno inconsciamente deciso di fare un qualcosa che fino a un minuto prima pensava che non avrebbe fatto mai più, ovvero che si sarebbe iscritto a quella scuola di tango a cui nell’immagine la ballerina faceva pubblicità. Strano pensiero questo. Perché un essere umano qualsiasi, per non dire uno scrittore, non dovrebbe “mai più” iscriversi a una scuola di tango?
In effetti, che qualche tempo prima lo scrittore avesse deciso di farla finita con il tango non era avvenuto perché il tango non gli piacesse. Anzi. Il tango in sé e per sé, era la danza che gli aveva dato le esperienze più intense e profonde che avesse mai provato in vita sua. Parlando con un amico, era arrivato a dire che il tango aveva cambiato la sua visione del mondo. Ma poi, dopo circa tre anni, gli era passata del tutto la voglia di frequentare l’ambiente, che si era mostrato rigido e ostile fino al punto di diventare insopportabile. Allontanarsene lo aveva rattristato profondamente, ma non aveva potuto farci nulla. Forse ci sono dei balli in cui si può più o meno tranquillamente trascurare il fatto che le relazioni con gli altri siano approssimative o inconcludenti, o che magari possano diventare problematiche. Ma con il tango questo è impossibile, perché la danza costruisce una relazione talmente intensa, talmente intima, che alla fine non si può distinguere dal corpo e dall’anima delle persone con cui si balla. Era per questo che, sia pure pieno di una nostalgia e di un rimpianto che sfociavano a volte nel rimorso, lo scrittore aveva deciso di smettere per sempre.
Però, dopo averla riconosciuta nella fotografia, una voce interna gli ingiunse di tornare. Le vacanze sono finite, gli disse la voce profonda, così sommessa che poteva perfino dubitare di udirla, adesso è il momento di ritornare a lavorare. Lavorare? Ma lavorare a cosa?
Questo lo scrittore non lo sapeva, e neppure si sentiva di chiedere consiglio a qualcuno, dato che il problema che lo affliggeva sarebbe stato giudicato, con ogni sorta di buona ragione, completamente idiota: che cosa mai può avere a che fare un passatempo men che qualsiasi con qualcosa di serio come il lavoro? Che cosa può avere a che fare una cosa che siamo pagati per fare con un’altra per la quale paghiamo?
Già. Ma non era proprio lui, non era ancora una volta Oscar Wilde, ad aver scritto «Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno di meglio da fare.»? (sì era lui, ancora lui, proprio lui che aveva scritto anche «Bisogna sempre giocare onestamente quando si hanno le carte migliori.»)
Dal punto di vista del senso comune, Oscar Wilde aveva certamente torto. Ma dal punto di vista della vita profonda, ovvero di quella vita abbagliante, caotica, cosmica, che il senso comune non sfiora nemmeno con il suo simulacro vuoto di saggezza, Oscar Wilde aveva tanta ragione che la voce ignota che lo richiamava al suo dovere (oppure la voce lo stava chiamando al suo destino? in fondo, non si può dire che il dovere di un uomo è appunto quello di compiere il suo destino?) era tanto grave quanto immutabilmente, intimamente calma, tanto dura quanto solennemente serena: non importava proprio nulla che lo scrittore si sentisse in imbarazzo al solo pensiero di affacciarsi di nuovo in una sala. Senza sapere come né perché, avrebbe obbedito, magari senza neppure rendersi conto di star obbedendo. Quindi era del tutto indifferente il fatto che di obbedire non ne avesse la minima voglia, e che avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa per passare il tempo, piuttosto che tornare a frequentare l’ambito oscuro e contorto del «litigioso tango» (J. L. Borges).
35.
Forse fu per questo che mentre per la prima volta si recava alla scuola dove la ballerina insegnava, senza che lì per lì potesse capirne le ragioni, dei conati di angoscia che arrivarono al punto di trasformarsi in conati di vomito lo sconvolsero fino a fargli decidere di tornare indietro. Era inutile proseguire per arrivare in un posto dove non sarebbe mai per nessun motivo entrato! È solo che – curiosa coincidenza – dal punto in cui si trovava fino a Firenze Sud l’autostrada non aveva più uscite, e – altra curiosa coincidenza – la scuola era molto vicina all’uscita del casello di Firenze Sud, talmente vicina che quando arrivò al casello gli sembrò del tutto assurdo tornare indietro senza essere andato almeno a dare una rapida occhiata. Dopo una trentina di chilometri di autostrada poteva davvero andarsene così, senza nemmeno entrare quel paio di minuti sufficienti a vedere un po’ di che cosa si trattava? No, non poteva assolutamente farlo perché, non ostante tutto, lo scrittore era una persona ragionevole, non un nevrotico disturbato fra l’altro da fobie superstiziose.
36.
Alla reception trovò il maestro, che gli parve una persona molto simpatica. Era molto giovane, sembrava quasi un ragazzo. Senza mai smettere di sorridere, gli parlò un po’ del corso e gli disse che in quel momento si stava svolgendo una lezione per il livello principianti. Se voleva dare un’occhiata, per qualche minuto poteva stare.
È così a quanto pare, sorridendo gentilmente e familiarmente, che certe volte il destino indica la via che conduce dritta e sicura verso il baratro. Lo scrittore, oramai tranquillo e rassicurato, scese la scala e la vide laggiù, come rimpicciolita da tutti quegli specchi. La ballerina si voltò e gli sorrise. Lo aveva riconosciuto? No, non lo aveva riconosciuto. Era solo un sorriso di cortesia per il nuovo arrivato e, d’altra parte, questa volta lui stesso credette di non riconoscerla, anche se forse era a causa di un’illuminazione molto strana, che gli impediva di vedere bene.
Guardava là, verso il centro della sala che, per qualche motivo, sembrava lontanissimo (in realtà si trattavano di non più di quattro o cinque metri). Lei era lì, che gli sorrideva come circonfusa da una sfera di nebbia luminosa, che ne confondeva i lineamenti. Più lui socchiudeva gli occhi per cercare di distinguerli, più la luminosità della scena diventava intensa e al tempo stesso diafana e indistinta. Più cercava di imprimersi nella memoria i tratti di quel volto per confrontarli con quelli riconosciuti nella foto, più quei tratti diventavano evanescenti, vaghi, e si trasformavano infine in quella nebbia lattescente, o forse in quella lattescenza nebbiosa da cui inutilmente cercava di distinguerli.
Imbarazzato, fu costretto a distogliere lo sguardo. Che significava quel brulicare sferico di luci indefinibili, che presto avrebbe dovuto farsi un paio di occhiali? Oppure, gli occhi e gli occhiali non c’entravano per nulla, la luminosità che aveva percepito dipendeva da altre cose?
Rimase a lungo perplesso. Pensò che si era sbagliato, pensò che quella lì era senz’altro un’altra: è troppo giovane, sono troppo giovani tutti e due. Non può essere lei!
Tornò a casa al tempo stesso sollevato e deluso: non era successo proprio niente. Semplicemente, quello era un periodo in cui si sentiva troppo bene. Troppa tranquillità e troppa saggezza rendono lo spirito monco di quelle emozioni violente che, a quanto pare, per quanto tragicamente dolorose, sono le uniche in grado di dare un senso alla vita umana, questa povera cosa, che, proprio come gli ombrelli, sembra esser stata fatta solo per essere perduta.
La notte stessa però sognò quel volto inafferrabile, quei tratti vaghi, indistinguibili dalla sfera di luminosità caliginosa che li circondava, e anche se al mattino svegliandosi dimenticò immediatamente il sogno, il giorno dopo, come trascinato da una mano talmente gigantesca da confondersi con l’universo intero, andò a fare la prima lezione di prova gratuita.
37.
Adesso che erano passati due anni, i dubbi erano scomparsi per far posto a una certezza folle e accecante come quell’angoscia che da mattina a sera lo stava devastando. Era tutto vero. Quella processione di tipi strambi da cui era stato più volte fermato per strada, quegli improvvisi silenzi e quegli sguardi, quelle allusioni eppure oblique fino all’incomprensibile che in circostanze improbabili lo avevano avvertito di quello che il futuro gli stava preparando: come aveva potuto non capire? Come aveva potuto pensare che si trattasse di una serie di coincidenze?
In effetti, aveva potuto pensare che si trattasse di una serie di coincidenze perché molto spesso le coincidenze quanto più sono numerose quanto più l’immagine che vanno a disegnare risulta comica, o addirittura ridicola, al punto che, invece che un momento di riflessione, come le vignette dei quotidiani, diventano l’occasione per farsi quella bella risata che tutti conosciamo, con cui si volta la testa e nel giro di qualche minuto ci si scorda di tutto.
Nel suo caso particolare, la vignetta gli era apparsa peggio ancora che comica: gli era parsa deforme, o fin quasi orrendamente grottesca. Quei tipi indescrivibili che aveva incontrato un po’ dappertutto (indimenticabile fu il tedesco calvo, grasso, sudato, con il colletto pieno di forfora, che quasi correndogli accanto lungo una banchina gli aveva detto che lui non era quel che credeva di essere, ma invece la contemporanea reincarnazione di ben cinque Buddah), quei pazzoidi che credendo di esser sé stessi recitavano la parte dei Tiresia con in pugno i presagi del fato, cosa potevano essere se non dei lunatici che il caso, col passare degli anni, gli aveva fatto passare davanti in processione con lo stesso costrutto e lo stesso senso logico con cui avrebbe potuto costringerlo a improvvisare dei passi di danza per tenersi in equilibrio mentre scivolava su biglie, olio per cambi, pozzanghere e bucce di banane finiti lì non si sa come non si sa perché?
Ma adesso, dopo tutte le risate che si era fatto gratis (la più gustosa delle quali venne dedicata al tedesco grasso, cui aveva risposto che era una vera ingiustizia che lui, reincarnazione di ben cinque Buddah, fosse egualmente retribuito con un singolo stipendio) era costretto a riconoscere che quelli che aveva considerato degli squilibrati che chissà come riuscivano a campare anche fuori dal manicomio, in un modo che non sapeva immaginare, avevano visto più avanti di lui quel che lui stesso sarebbe diventato. Solo adesso lo capiva! E come sarebbe stato meglio averlo capito prima!
38.
Chissà, forse lo aveva capito. Forse aveva sempre capito e sempre lo aveva saputo. È solo che capiva e sapeva attraverso quella che Freud avrebbe forse definito un’intuizione inconscia. Lui sapeva da tempo, certo: quel che mancava alla sua coscienza era però il sapere di sapere. In questo modo i suoi passi erano stati guidati da una luce oscura, lungo un sentiero invisibile o che, comunque si, si poteva far finta di non vedere.
Infine, perché recitare la parte del trasecolato proprio ora che era andata via, quando oramai sapeva tutto già da tempo? Di fatto, gli era bastato frequentare per pochi mesi quella scuola di tango sperduta in una lontana periferia di Firenze per intuire, anche se dapprima in modo molto vago e confuso, che quel che gli stava succedendo non poteva essere frutto di un mero caso. Era invece parte ineliminabile di un destino, di un fato che giungeva a coglierlo da altre vite, lontane nel tempo e forse anche nello spazio. Altre vite di cui lui non era altro che un’ombra, o un riflesso, o una eco pallida, sommessa e sottomessa, per lui stesso estranea e dunque completamente incomprensibile.
(In quei giorni e negli anni successivi, lo scrittore non ha potuto togliersi di mente l’idea che tutto quanto gli stava accadendo fosse l’effetto di una possessione di qualche genere. Amava davvero quella donna? No, non l’amava: lui era solo la vittima di un amore che un altro – e chissà chi era quest’altro! – portava a questa donna – e chissà chi era questa donna! – dalle profondità del tempo e dello spazio, ne era certo: come poteva spiegarsi altrimenti tutto quel che gli stava accadendo?)
((anni dopo, quando finalmente poté parlare con un amico di quello spaventoso film del terrore di cui era stato protagonista, senza peraltro che nessuno sceneggiatore si fosse peritato di scriverlo e nessun regista si fosse peritato di filmarlo, lo scrittore, senza rendersi conto di quel che diceva, disse all’amico che, secondo lui, quel che gli era accaduto era dovuto al fatto che quest’altro di cui non sapeva dire null’altro che era innamorato di quella lei di cui lui non sapeva dire null’altro che quest’altro ne era innamorato, stava vivendo il suo amore nell’inspiegabile quanto tragica consapevolezza che lei era come per principio un amore perduto: era per questo che lo scrittore per più di quattro anni era vissuto solo come reincarnazione di una sorta di separazione metafisica da non sapeva dire chi o che cosa, di un esilio senza perché né quando))
39.
In quel periodo, tutto quel faceva, lo faceva come spettatore: non viveva, assisteva al suo vivere. Le sue mani scrivevano parole venute da non sapeva dove, la sua anima pensava pensieri che risalivano come da un abisso.
Incredulo, si rese conto che nel giro di poche settimane i suoi progressi nelle indagini sulla geometria delle piramidi erano stati vertiginosi, assolutamente inconcepibili e incredibili e dunque anche totalmente inspiegabili. Quegli oggetti antichi, che venivano giudicati il frutto di esseri umani da poco usciti dallo stato selvaggio erano in realtà il frutto di concezioni matematiche enormemente avanzate, tanto avanzate che la civiltà occidentale non era stata in grado, non diciamo di raggiungerle, ma nemmeno di sia pur vagamente immaginarle. Questo era di per sé un fatto scioccante, completamente sconvolgente. Ma a sconvolgerlo ancor di più era un altro fatto: ovvero che proprio lui fosse in grado di comprendere delle cose di questo genere. Come era possibile che a scoprirle fosse un qualcuno che non apriva più un libro di matematica da quando aveva sedici anni?
Tutti i giorni, si ritrovava a scrivere delle cose che, per quanto sembrassero uscire dalla sua penna, lo scrittore non era minimamente disposto a riconoscere come farina del suo sacco. Quel che gli stava accadendo, non poteva star accadendo a lui, questa era l’unica cosa che gli sembrava certa. E non poteva star accadendo a lui, molto semplicemente, perché lui non era in grado di comprendere quel che di fatto stava comprendendo. Dunque, se non era lui a comprenderlo, doveva essere per forza qualcun altro, di cui il suo corpo era diventato una sorta di animato e al tempo stesso disanimato ricettacolo!
(quando lo scrittore aveva detto al suo amico che il tango aveva cambiato la sua visione del mondo, aveva aggiunto successivamente che questo era accaduto perché, prima di essere una danza o qualsiasi altra cosa, il tango è un rito; forse dunque era stato il tango a chiamarlo, che gli aveva parlato e che gli stava parlando? era il tango ad avergli detto solennemente «Guarda la Piramide: esiste dall’eternità»? Questa infine, non era una fanfaluca così assurda come può sembrare a prima vista, dato che il tango è un rito in cui si celebra qualcosa di antichissimo, ovvero la fusione dell’elemento maschile (principio luminoso, attivo, che nella danza si identifica nel ruolo maschile di guida) con quello femminile (il principio oscuro, passivo, che nella danza si identifica nel ruolo femminile di seguire) che insieme costituiscono il principio generativo dell’armonia universale. Proprio intorno a concetti di questo genere ruotavano i riti di religioni antichissime, quali il Taoismo, l’Induismo, lo Shintoismo, le religioni Precolombiane, quelle della Paganità Classica, e, naturalmente, anche quella Antico Egizia, in cui gli déi dell’Enneade venivano generati a coppie di un fratello e una sorella ciascuna).
((Si va bene, va bene, ok. Ma se questo era vero, ovvero se era il tango che stava gli dettando tutto quel scriveva, tutto anche si spiegava: non c’era più nulla da capire, dato è solo la perfetta chiarezza ad avere l’apparenza della più perfetta oscurità. Lui non stava facendo nulla, non stava capendo nulla, gli pareva di esser cieco, va bene: ma questo accadeva solo perché stava trascrivendo nel linguaggio ordinario e borghese della geometria e della matematica i segreti che gli erano stati rivelati con quel linguaggio impalpabile, al tempo stesso sensuale e scontroso, che solo il tango è capace di parlare e di cui chi danzandolo lo ascolta altro non sa dire che in un altro linguaggio non lo si può tradurre))
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Si, forse era proprio questo che era successo o, se non proprio questo, qualcosa di molto simile. Dal momento in cui aveva varcato quella soglia lui non era più lui, e dunque, in un certo senso, era un altro stava soffrendo con le sue sofferenze, a qualcun altro si raccontava quella storia che lui stava scrivendo per una volta non come autore, ma come penna nelle mani di un ignoto scrittore. E, d’altra parte, come poteva esser certo che la sua segreta passione per la letteratura non fosse altro che una lunga preparazione per poter un giorno scrivere quelle cose che stava scrivendo, che infine erano l’unica cosa veramente importante che mai avesse fatto in vita sua?
Adesso che lei se ne era andata, l’intuizione oscura era diventata certezza. Una certezza delirante, insensata, allucinatoria, ma comunque sia una certezza. Quell’incontro era una sorta di chiamata che giungeva da un qualche indefinibile altrove! Rivolgendosi a un Virgilio inesistente, forse al padre che era morto oramai da quasi tre anni, gli vennero in mente i versi del primo Canto della Commedia, quello che serve al Poeta dei Poeti come introduzione al suo viaggio nell’Oltremondo: «Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede? /Io non Enëa, io non Paulo sono;/me degno a ciò né io né altri ‘l crede.»
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Avendo in giovinezza studiato filosofia, lo scrittore si era abituato a familiarizzare i suoi pensieri con i problemi più astratti e surreali che si possano immaginare. Uno di quelli su cui aveva riflettuto più a lungo lo possiamo formulare più o meno in questo modo: che cosa significa credere in qualcosa? Quando è che possiamo essere certi che crediamo davvero in una certa proposizione, tipo per esempio, che la terra è rotonda, e che invece non crediamo affatto in una proposizione che affermi, per esempio, che la terra è cubica, o piatta? Come si può distinguere una credenza viva e vitale dal mero ripetere una proposizione di cui magari non capiamo nulla, che in nulla incide nel nostro sentimento e nella nostra azione, e che dunque in nulla incide nella nostra vita, se non per il fatto che, chissà, magari può far piacere a chi ci sta in quel momento ad ascoltare, ma che a noi stessi rimane del tutto indifferente?
Uno dei sottoproblemi più ovvi di questo colossale e da sempre trascurato problema filosofico è questo: è possibile credere fermamente in qualcosa e al tempo stesso non credervi affatto? È possibile che nel nostro spirito dimorino delle credenze di tipo opposto, e dunque che una parte di noi stessi giudichi folle l’altra parte, che l’una si rivolga all’altra con derisione o disprezzo o addirittura: con l’orrore con cui potremmo riconoscere in una persona intima i tratti deformi e terrorizzanti dell’incipiente follia?
Sul piano della vita psicologica, possiamo tradurre una tale questione molto astratta in questa domanda molto concreta: può capitare che un essere umano si lasci trascinare da una passione irresistibile, senza però credere reali quelle immagini che la passione gli presenta come certissimamente vere? Per fare un esempio celebre, Dante aveva creduto fermamente e apparentemente senza alcun interno conflitto che Beatrice e dunque anche il suo Amore per essa fossero una sorta di segnavia che Dio stesso gli mandava incontro, perché lui potesse condursi in Paradiso. Ma queste sue credenze particolari affondavano le loro radici nel complesso generale della visione del mondo corrente nel Medio Evo occidentale. Oggi un tale complesso di credenze viene giudicato del tutto insensato anche da quel che resta del cattolicesimo oltre che dalla cultura laica, dato che anche fra i cattolici più conservatori difficilmente si trova qualcuno disposto a vedere un qualche lacerto di senso nel più folle degli amori epperò dedicato a una donna irrimediabilmente destinata a sposare un altro, una donna che, per di più, le consuetudini sociali e la morale religiosa tengono a distanza siderale da altri uomini o, peggio ancora, da altri pretendenti che il suo sposo promesso, sì che da essa un uomo rispettabile non possa sperare di ricevere nulla di più che un fuggevole saluto mentre passa per strada scortata da parenti e amiche.
Dunque un Dante che oggi come oggi si innamorasse di una Beatrice nello stesso modo in cui se ne era innamorato nella Firenze medievale, quasi certamente dubiterebbe della propria salute mentale, anche se i suoi sentimenti resterebbero senz’altro quelli del Dante medievale: le immagini mentali che accompagnerebbero l’amore del Dante moderno potrebbero ben essere le stesse di quelle del Dante medievale. Però, presa nel suo insieme, l’esperienza non sarebbe la stessa, dato che il rapporto del pensiero razionale di Dante con il suo sentimento amoroso e le immagini ad esso correlate non potrebbero essere le stesse, dato che la sua parte razionale li giudicherebbe quasi certamente come una follia, o come una deviazione dal senso comune, un’anomalia, un complesso di allucinazioni e cose del genere.
Certo, questa è una cosa che può senz’altro accadere. Una parte dello spirito si conforma al sentimento, lo segue o deve seguirlo, irresistibilmente. Ma un’altra parte dello spirito può rimanere senz’altro a distanza dal sentimento, criticarlo severamente, fino a ritenerlo un delirio o parte di un sistema di pensiero delirante. In effetti, un uomo può ben arrivare a suicidarsi per una donna di cui crede fermamente di essere innamorato, senza per questo cessare di vedere tanto l’amore che il gesto autodistruttivo che ne consegue come degli avvenimenti irrazionali, privi di una base reale quale che sia. Per altro verso, la loro irrazionalità non li trasformerebbe perciò in una finzione della psiche con sé stessa, ma bensì in una sorta di miraggio. Chi nel deserto vede un’oasi non può far nulla per cessare di percepirla: l’oasi continua a star lì, per quanto instancabilmente ci si possa ripetere che si tratta di un’immagine a cui nulla corrisponde nella realtà (un innamoramento, in questo senso, non sarebbe altro che una sorta di sogno da cui però non ci si può svegliare diventando coscienti che si sta sognando).
42.
Lo stato d’animo dello scrittore, quando nel dicembre del 2012 la sua psiche straziata giunse a un punto che sembrava di non ritorno, era forse proprio questo. Credeva o almeno credeva di credere con quel che restava della sua ragione che la spaventosa tempesta emotiva nel mezzo della quale stava disperatamente annaspando non avesse delle basi reali, senza che però la consapevolezza razionale di star delirando producesse in lui l’auspicata e augurabile interruzione del delirio. Anzi, giunto a quel punto la costante autocritica che lo scrittore esercitava sulla sua vita interiore non faceva altro che peggiorare la situazione, dato che il non tener per vere le immagini che agitavano il suo spirito accentuava in modo devastante la sensazione di esser preda di un’allucinazione più reale della realtà e più vera della verità, che minacciava istante dopo istante di impadronirsi anche degli ultimi recessi della sua mente e dunque di una “normalità” che, in effetti, poteva esistere oramai solo tra virgolette. In certi momenti, ovvero quando si arriva a dubitare che tutto sia o possa essere un inganno, un tale abissale e vorticoso stato di incertezza arriva a toccare anche il dubbio che tutto sia o possa essere un inganno, dato che un dubbio assoluto finisce presto o tardi per dubitare anche di sé stesso (quando questa tragedia invisibile giungerà alla sua fine invisibile, lo scrittore leggerà queste frasi di Pessoa credendo fermamente di averle scritte lui: «Avendo osservato con quale lucidità e coerenza logica certi pazzi (quelli che delirano in modo sistematico) giustificano per loro stessi e per gli altri le loro idee deliranti, ho perso per sempre la certezza della lucidità della mia lucidità.».)
Era vero senz’altro che la sua crisi interiore andava avanti da più di due anni. Ma da quando la ballerina se ne era andata la situazione si era ulteriormente aggravata, forse proprio perché con la sua partenza quello che gli sembrava senz’altro una fuga nel delirio aveva perso oramai qualsiasi appiglio con il mondo esterno. Fino a qualche mese prima, ogni volta che la vedeva poteva in qualche modo dire che quel volto, quel corpo, quel tango, erano la causa della sua follia. Ma ora, circondato ovunque da un deserto interminabile, che cosa poteva mai dire?
Non poteva più dir nulla di nulla, e non potendo rivolgersi col pensiero o con lo sguardo a qualcosa di reale, lo scrittore temeva di precipitare dai giorni felici della lucida follia nel baratro della follia pura e semplice. Quindi, per quanto la sua decisione di contattare la ballerina, se considerata da un punto di vista a lui esterno, poteva del tutto legittimamente esser giudicata assurda, allo scrittore non rimaneva altra possibilità raggiungerla e parlarle, a qualsiasi costo.
(Una delle tante cose folli che gli accaddero in quel periodo fu quella di prendere a odiare furiosamente la sua atavica passione per la danza. Per la seconda volta nel giro di quattro anni, il tango gli aveva fatto un brutto scherzo, anche se questa volta lo scherzo era talmente brutto da non aver più nulla a che fare con uno scherzo. Questa volta il tango gli aveva teso un agguato, lo aveva chiuso in una trappola, gli aveva fatto oltrepassare una porta di sorrisi dietro la quale si nascondeva un abisso. Lo stato in cui si trovava era talmente miserevole che l’unico paragone che gli veniva in mente era il Gardel di certi tanghi talmente lugubri, funebri, funesti e pessimisti da quasi costringere, per difesa, a sfinirsi dal ridere).
((Gardel? Ma no, ma cosa stiamo dicendo! In questo caso il mistero doloroso sembrava talmente lacrimevole e disperato che Gardel, per quanto si impegnasse, rischiava di non bastare: anche un inesperto di tango si rende conto che, giunti a questo punto, ci vuole qualcosa di ben più dissoluto, smodato e sbracato di Gardel per dar voce alla situazione. Chissà, forse il José Maria Contursi di “Quiero verte una vez mas” potrebbe rendere in qualche modo l’idea. Frasi come «Tanto en mi amargura te busqué/ sin encontrarte…/ ¿Dime vida, cuándo moriré/ para olvidarte? », oppure « Quiero verte una vez más/ aunque me digas/ que ya todo terminó/ y es inútil remover/ las cenizas de un amor…» sembrano avere il tono giusto per arrivare alla sacrosanta conclusione di questa storia «Quiero verte una vez más/ y en mi agonía/ un alivio sentiré/ y olvidado en un rincón/ más tranquilo moriré.»))
(((Chi è che ha scritto “La musica esprime ciò che non si può dire e su cui è impossibile rimanere in silenzio”? No, questo non sembrava Oscar Wilde, doveva essere qualcun altro. Però l’aforisma è talmente buono che, in ogni caso, sembrava uno dei suoi.)))
43.
È in una sera oscura e piovosa dell’11 dicembre del 2012 che arriva il sospirato e temuto momento di mettersi in macchina per il primo e verosimilmente anche ultimo di quegli assurdi “viaggi della speranza” che la follia incipiente lo aveva costretto a progettare onde tentare in qualsivoglia modo di rimanere sano di mente.
Ad attenderlo fuori dalla porta, insieme alla pioggia e al buio, c’è anche un freddo particolarmente intenso. Uscendo di casa, la luce incerta dell’ultimo crepuscolo gli consente ancora di distinguere in modo sia pur vago la neve che negli ultimi giorni ha imbiancato i monti. Un eccesso di ansia gli impedisce di aprire l’ombrello, e così si precipita di corsa verso il garage, abbracciandosi al cappotto come un bimbo alla madre. Aprendo la saracinesca, non può fare a meno di pensare che quei disperati che tentano di saltare dalla Libia a Pantelleria sui barconi della morte, non ostante tutto, dovevano sentirsi meglio di lui.
Entra in macchina, si dà un’occhiata allo specchietto, si mette a posto i capelli arruffati. Respira profondamente, cercando di scacciare l’ansia, ma non ha ancora inserito la chiave nel cruscotto e – come un giocatore di scacchi che giocando contro sé stesso si sorprende della mossa con cui è riuscito a mettersi in difficoltà – si rende conto di non aver ancora deciso cosa dire quando la vedrà. Ancora il suo cervello esausto continua a scervellarsi, ancora non cessa di cercare inutilmente il modo giusto di rivolgersi alla ballerina. Ma che stupido che è a tormentarsi in quel modo: un modo giusto non c’è, non ci può essere! Perché non si lascia un po’ in pace, perché non si lascia un po’ andare? Dirà quel che gli verrà in mente e poi sarà quel che sarà!
44.
Non c’è nulla da fare. I chilometri passano e il diluvio universale che si sta riversando da quel cielo che, via via che si avvicina alla meta, diventa sempre più scuro, si fa sempre più intenso. E intanto che gli angeli neri che si nascondono nelle nubi rovesciano torrenti di pioggia sul lunotto, i fari delle macchine che provengono in senso contrario somigliano sempre più a pupille di pesci frantumate dai riflessi caotici del vetro dell’acquario. Quel poco di luce che vede attorno a sé si spezza in mille riflessi, sempre più frastagliati e sempre più disorientanti, guidare che diventa sempre più difficile, sempre più faticoso, sempre più rischioso, ma non c’è nulla da fare, proprio nulla. Non riesce a distrarsi, non riesce a pensare ad altro. Per quanto si sforzi, lo scrittore non riesce ad avere nessuna pietà per quel poco che gli resta di sé stesso. La sua fantasia, pur estenuata fino e forse oltre la consunzione, non cessa di inutilmente affannarsi, di inutilmente affaccendarsi, di elucubrare: ridicolo come una mosca che sbatte contro un vetro il suo pensiero fisso è quello di escogitare le parole giuste da dire. Le soluzioni che ha trovato e che ripassa e rimugina incessantemente, per quanto elaborate e raffinate fino al delirio, si dividono equamente in frottole sesquipedali, che nemmeno un bambino di sei anni prenderebbe sul serio, e balbettanti allusioni a quell’assurda verità che, pur anche ridotta a brandelli ed edulcorata, risultava comunque sia ancora più indigesta di qualsiasi frottola sesquipedale potesse immaginare.
La macchina delle meningi continua imperterrita a funzionare per molti chilometri, finché i suoi sforzi si concludono nell’unico modo possibile, ovvero nel prendere atto che la vicinanza di Natale può diventare il per quanto labile pretesto per portarle quel regalo di cui prudentemente si era munito, pur non avendo all’inizio nessuna intenzione di darglielo sul serio. Nella plumbea oscurità di quel giorno degno del Giudizio Universale, vede sulla sua destra un supermercato incredibilmente ancora aperto, dove riesce a procurarsi un biglietto di auguri più o meno adatto all’occasione. Fortunatamente, lo spettacolo si svolge Viareggio, dunque non lontanissimo da dove vive. Stando così le cose, quella visita “casuale” poteva risultare infine per quanto vagamente motivata dal contesto, oltre che dalla data. Il «Sai, passavo di qui e allora..» poteva non risultare completamente insensato, almeno per i non più di cinque minuti che, almeno quella prima volta, aveva intenzione di restare.
Mentre corre dal supermercato al parcheggio dove ha messo la macchina, uno scroscio di pioggia particolarmente intenso, accompagnato da un improvviso turbine di vento lo accompagna gentilmente per tutto il tragitto. Quando rimette in moto, si rende conto di essere quasi completamente fradicio, ma per fortuna il biglietto di auguri, avvolto in una provvidenziale confezione di plastica, è rimasto indenne. Il sospiro di sollievo è profondo quanto in un certo senso, profondamente scosso da un inconfessabile rammarico: forse era meglio che si fosse infradiciato, così aveva un pretesto per tornare indietro.
Mette al massimo il riscaldamento e le ventole. In qualche modo, se proprio non riuscirà ad asciugarsi del tutto, nel paio d’ore che mancano ad arrivare riuscirà ad avere un aspetto decente e, comunque sia, adesso può continuare il viaggio sapendo quel che deve fare e sicuro di poterlo fare. Però, non ostante il suo statuto di scrittore e dunque di persona in teoria dotata di vasta e varia immaginazione, non riesce a figurarsi quale effetto potrà avere la sua visita. Gli porta il regalo, va bene, e poi? Cos’altro dire in quei fatali due o tre, o magari quattro minuti, che dovranno porre le basi dei successivi incontri? L’ansia lo sommerge ancora di più che il buio fitto e lo scrosciare accecante della pioggia, che rende quasi inutile l’andirivieni dei tergicristallo, che paiono l’agitarsi disperato di braccia in procinto di annegare. No, senz’altro non ce la farà a gestire quell’assurda situazione! Sicuramente si lascerà prendere dal panico, sicuramente comincerà a balbettare, a mangiarsi le parole! Però, non ostante tutto, continua ad andare avanti, anche se sotto le ali male auguranti di quel tempo da cani, anche se in preda ad angosce indecifrabili come la nudità informe di un blocco di granito, anche se per tutto quel che resta di quell’assurdo viaggio non riesce a smettere un secondo di piangere.
(Piangere? Lo scrittore sta riuscendo a piangere? Ma allora deve trovarsi nell’imminenza di una soluzione ai suoi irresolubili problemi! Non avevamo detto poco sopra che in certe situazioni il pianto è l’unico rimedio etc.? E adesso finalmente lo scrittore sta piangendo! Non dovrebbe sentirsi sollevato? No, ahimè, ci dispiace dirlo, ma non è così. Quelle lacrime, eppur tanto a lungo sospirate, non assomigliano per nulla a quel caldo e intenso effluvio in grado di liberare dall’angoscia, ma invece a quelle con cui i dannati rispondono ai colpi di remo con cui Caronte li sospinge sulla sua barca. Sono lacrime fredde, spinose, piene di odio, di rabbia, di un gusto irrefrenabile di soffrire per soffrire. In altre parole, sono le lacrime di un colpevole che non riesce a pentirsi, non di un innamorato. Avremo modo di riprendere più oltre questo strano concetto che, dato il contesto, potrebbe sembrare del tutto fuori luogo).
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Le premesse di questo strana recita a soggetto, come ben si vede, erano le più sbagliate che si potessero immaginare, ma le conseguenze che ne risultarono, diciamo così, furono proprio quelle giuste e auspicabili (giuste e auspicabili, naturalmente, tolta la tara che il frammento 59 di Eraclito minacciosamente pone al compimento di qualsivoglia umano desiderio «… per gli umani, che accada loro quel che vogliono non è la cosa migliore …» (ci si domanda se Oscar Wilde si fosse reso conto di ripetere in altro tempo e con altro stile la saggezza di Eraclito quando scriveva che «A questo mondo ci sono solo due tragedie: una è non ottenere ciò che si vuole, l’altra ottenerlo. Questa seconda è la peggiore, la vera tragedia.»).
Dio mio, Dio mio! Decisamente, ci sono dei periodi della vita in cui nulla va come si pensa che possa o che debba andare! Con in mano un pacchetto arrangiato alla belle e meglio, lo scrittore si era presentato in sala con lo stesso umore e la stessa fiducia con cui ci si presenta per solito davanti a un plotone di esecuzione. Invece, incredibilmente, anche questo del tutto insensato tentativo di (di che cosa? cosa è che stava tentando? stava tentando di…), proprio come il suo sito internet – contro tutte le sue aspettative – era cominciato in modo fin troppo promettente. Talmente promettente che lo scrittore non poté fare altro che subodorare una qualche ulteriore trappola tesagli da un oscuro connubio di tango e di destino – che in quel caso particolare gli si facevano incontro come gemelli indistinguibili.
La ballerina, quando lo aveva visto comparire sul limitare della pista, gli era sembrata felice, o addirittura commossa: lo aveva abbracciato forte, tanto che per un attimo ha avuto la sensazione che non volesse lasciarlo più. Diciamoci la verità: che cosa di meglio poteva sperare dal suo viaggio?
Lo scrittore però, in modo tanto oscuro quanto inesorabile, intuisce che seppure le cose sembrino cominciare bene, finire bene non possono, perché quel che sarà costretto a dirgli (ma chi o cosa è che lo costringe? non lo costringeva nessuno, e niente lo obbligava, se non il bisogno atroce e intollerabilmente enigmatico di dirle che …) è troppo enorme e insensato perché lei possa, non diciamo crederlo, ma anche solo prenderlo nella sia pur minima considerazione (in effetti, lo scrittore non era nemmeno certo che, ove si fosse deciso infine a parlare, la ballerina sarebbe stata ad ascoltarlo fino in fondo e, anzi, si sarebbe di molto stupito se fosse rimasta fino a metà, o anche solo per un quarto della storia: al tempo stesso spaventata e incredula, lo avrebbe fissato per qualche eterno istante senza dire nulla, e poi se ne sarebbe andata via, chissà, magari senza nemmeno salutare).
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Era proprio per rimandare il temutissimo momento di arrivare al dunque che quella prima volta aveva deciso di fermarsi a salutare prima dello spettacolo, mentre la ballerina era impegnata nelle prove. Senza quasi rendersi conto di quel che stava dicendo, dopo essersi con una certa stupefatta fatica sciolto dall’abbraccio, le spiegò frettolosamente che, ahimè, non sarebbe potuto restare per la milonga e dunque nemmeno per lo spettacolo, e che a causa di improrogabili quanto misteriosi impegni doveva proprio andare via. Poi, con l’aria di qualcuno che si lascia scappare una promessa che non potrà mantenere, le aveva promesso che sarebbe tornato a vederla un’altra volta, la prossima volta che fosse tornata in Italia. Una “prossima volta” che però, sfortunatamente, come ebbe modo di constatare consultando il suo sito internet, era solamente dieci giorni dopo.
Dio mio, dieci giorni, soltanto dieci giorni! Ma in quella situazione avere dieci giorni per pensare era lo stesso che avere dieci minuti per leggersi Guerra e pace e farne il riassunto! Cosa doveva fare, doveva andare o non andare? Di fatto, si rendeva conto che non solo ancora non era riuscito a inventarsi un modo plausibile di dirle quel che doveva dirle, ma anche e soprattutto che in quei miseri dieci giorni non sarebbero bastati a compiere l’ardua impresa: quindi, cosa andava a fare?
Domanda inutile. Non ostante tutti i suoi dubbi e le sue indecisioni, lo scrittore sapeva che sarebbe andato senz’altro, e non perché questo secondo viaggio avesse più senso del primo ma, semplicemente, perché non poteva non farlo e non poteva fare altro. Una forza estranea lo costringeva, una forza che, proprio come quella che lo aveva spinto alla prima lezione di prova gratuita, la cosa gratuita che aveva pagato a più caro prezzo di qualsiasi cosa a pagamento che avesse mai pagato in vita sua, era simile a una mano immensa, come l’intero universo, e dunque non aveva nulla a che fare né con il sentimento né con la ragione, né con nulla di umanamente comprensibile o misurabile.
Dunque, tutto quel che in teoria potremmo e dovremmo dire per descrivere la situazione, è che lo scrittore sarebbe andato punto e basta. Ma, volendo a tutti costi umanizzare la situazione, potremmo dire che a costringerlo ad andare era quel dolore enigmaticamente orrendo che lo straziava oramai di giorno come di notte, quell’incubo venuto dal nulla o da altri mondi, quel cappio d’acciaio che dal profondo dei sogni gli serrava gola. L’abisso in cui era caduto non gli lasciava alternative: doveva andare, anche se non sapeva che cosa andava fare. Sapeva solo che doveva farlo, pena un orrore ancor più orribile di quello che già ogni giorno ed ogni istante instancabilmente lo tormentava.
47.
La seconda data italiana era fissata a Parma. Più lontano di Viareggio dunque, ma infine non lontanissimo. Fu probabilmente per questo che lo scrittore decise ancora una volta di usare l’automobile. Una scelta che si rivelò quanto mai improvvida, dato che ancora una volta durante tutto il viaggio non riuscì a smettere un minuto di piangere di quel pianto dannato che lo aveva accompagnato fino a Viareggio. Il remo di Caronte aveva preso a colpirlo dal momento stesso in cui era salito in macchina, e durante tutto il viaggio verso Parma – lo sapeva – non si sarebbe fermato un attimo. Dunque perché stava ripetendo quell’atroce esperienza?
La prima volta, in un certo senso, la poteva in qualche modo giustificare come a questo mondo si giustificano tutte le prime volte: quello era il primo di quei suoi increduli e vertiginosi viaggi della speranza o della disperazione che sia, e dunque non poteva sapere con certezza quel che sarebbe successo e come si sarebbe sentito (anche se poteva immaginarlo e di fatto lo aveva immaginato). Ma adesso che si era reso conto di come reagiva in certe situazioni cosa significava star lì a guidare per tre ore con gli occhi perduti nello specchio deformante delle lacrime, nella vertigine assorta e tumefatta dell’insonnia? Perché continuava a guidare in quel delirio, perché frenava credendo di vedere ostacoli che non c’erano, perché scartava all’ultimo momento il guardrail che sembrava costantemente sorgere dal nulla, perché non si fermava? Cosa stava facendo voleva andare a sfracellarsi su un muro, tamponare un camion o quale altro disastro aveva in mente di combinare?
E poi: perché stava piangendo in quel modo? Perché? Le cose stavano procedendo bene, o abbastanza bene no?
(In quel momento, lo scrittore non riusciva a rendersi conto che le sue lacrime erano appunto le lacrime di un dannato, ovvero di un colpevole che, per quanto si sforzi, non riesce a pentirsi. Tutto quel che capiva era che, per quanto senza sosta se lo ripetesse, in nessun modo riusciva neppure a far finta di credere che le cose procedessero, non diciamo bene, ma nemmeno abbastanza bene – anche se, ragionevolmente parlando, doveva come minimo riconoscere di esser riuscito a creare i presupposti, se non ancora l’occasione, per poterle dire, se non proprio quello che doveva dirle, almeno qualche altra cosa)
Dato il contesto, era del tutto chiaro che qualsiasi esortazione alla calma e al coraggio potesse rivolgere a sé stesso fosse destinata a rimbalzare sulla sua anima angosciata come su un muro di gomma. Le lacrime continuavano a sgorgare interminabili, a impiastricciargli gli occhi imputriditi dalla disperazione e pietrificati dall’angoscia, schiacciati dalla stanchezza, stralunati dall’incomprensione e serrati nella rabbia più impotente e disperata che avesse mai provato in vita sua. E quella luce, quella luce troppo bianca, che passando attraverso quella rugiada atroce si trasformava in riflessi, in arcobaleni che rendevano l’autostrada indefinita come un’apparizione di fantasmi nella nebbia! Come sarebbe potuto arrivare a Parma in quelle condizioni?
48.
In qualche modo invece riuscì ad arrivare sano e salvo. Fissata una camera nel primo hotel in cui si era imbattuto (conciato come era, non se la sentiva in nessun modo di tornare a casa guidando di notte) l’attesa dello spettacolo si trasformò in una sorta di parodistica attesa della morte, anche perché, per ironia della sorte, o, chissà, forse per l’ironia di qualcuno degli organizzatori, lo spettacolo era stato fissato proprio il giorno dopo la fine del mondo prevista dai Maya per il 21 dicembre del 2012.
Per quella sera, non ostante tutto, aveva pensato di sfruttare l’incontro per qualcosa di più che i soliti saluti, i soliti auguri e per promettere in modo vago che si sarebbero rivisti. Oramai non ce la faceva più a pensare, a progettare, a immaginare. Ora basta! Le avrebbe detto qualcosa di (qualcosa di che? di importante? di significativo? ma cosa ci poteva essere di importante e di significativo nei deliri di quel disgraziato nessuno che camminava da mesi sull’orlo della follia non è più chiaro se lucida o suicida?) solo che avesse avuto una possibilità per quanto minima, e lo avrebbe fatto nel modo in cui l’ispirazione del momento gli avrebbe suggerito. Avrebbe sbagliato il tono o le parole, avrebbe rovinato tutto? Via, ma siamo seri: cosa c’era da rovinare oramai in mezzo a quell’assurdo cumulo di rovine che era diventata la sua vita? Ma che cosa mai poteva anche solo sperare di rovinare in un rapporto che esisteva soltanto nel suo privatissimo delirio!
La prudenza, in certi casi, è la più folle delle virtù e, ad ogni buon conto, la decisione era presa: le avrebbe parlato, e poi finisca come finisca. Quel continuo tormento, quella continua tensione non erano più sopportabili (chi è che ha detto «Questa tensione è insopportabile: speriamo che duri.»? Ma si, si, era ancora lui, era Oscar Wilde, lo stesso che aveva detto «A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio.»).
49.
Si, è proprio vero: ci sono dei periodi nella vita in cui tutto va storto o, per meglio dire, in cui tutte le cose dritte vanno storte e tutte le cose storte vanno dritte. Sono quei periodi in cui tutte le mappe che si hanno in mano sono sbagliate, eppure sbagliando continuamente a leggerle si arriva misteriosamente sempre nel posto giusto.
Per l’ennesima volta in quegli anni d’inferno, l’interna risoluzione dello scrittore, per quanto apparentemente ferrea e irrevocabile, non ebbe alcun peso sul suo destino, dato che anche quella sera, per tutta una serie circostanze imprevedibili che sul momento non seppe se giudicare più dannate o fortunate, non potette far nulla di più che passare frettolosamente a salutarla, questa volta però dopo lo spettacolo, e di nuovo prometterle – ma questa volta con l’aria di chi promette un qualcosa che manterrà senza meno – che sarebbe passato a trovarla la prossima volta che fosse tornata in Italia.
La scena del loro breve colloquio fu altrettanto ridicola di quanto lo spettacolo era stato meraviglioso. La ballerina lo aveva guardato arrivare incredula e perplessa. Tutto si aspettava, meno che vederlo di nuovo e per giunta a così breve scadenza, e per di più dopo lo spettacolo, quando lei avrebbe dovuto andarsene dal locale. Bofonchiò qualche parola smarrita, guardandosi in giro come a chiedere aiuto o consiglio: chi è questo sconosciuto che è venuto a trovarmi per la seconda volta? Che cosa è venuto a fare a quest’ora?
Certo, un grosso peso nell’assurdità della situazione ce l’aveva il fatto che lei non poteva in alcun modo immaginarsi il motivo per cui lui si era fatto vedere solo dopo lo spettacolo e non prima. Perciò era del tutto chiaro che si stesse domandando: chi è questo chissà chi che chissà perché per la seconda volta in dieci giorni viene a vedere un mio spettacolo? Che voleva a quell’ora assurda, mentre lei, sudata fradicia com’era, doveva andare a farsi la doccia in tutta fretta se non voleva prendersi un malanno?
Già: chi era quel nessuno?
Chissà: forse la ballerina lo aveva scoperto scoprendo di non saperne nulla. Forse, vedeva chiaramente nel fondo della sua anima non riuscendo a distinguere nulla di nulla, o, chissà, magari vedendo chiaramente che non aveva un fondo. Lo scrittore era una di quelle persone che, siccome sono completamente estranee a sé stesse, anche il giorno che si decidessero a dire tutto a tutti continuerebbero a rimanere degli enigmi di cui tutto quel che si può capire è che non si può capirne nulla.
Dunque, la ballerina, non capendo niente, aveva capito quasi tutto. Infatti, una cosa ancora le mancava di capire, ed era questa: cosa voleva da lei questo nessuno?
50.
Uscendo dalla milonga, non ostante tutto, lo scrittore tirò un respiro di sollievo. Dio mio, forse gli era andata bene! Se le avesse davvero parlato, se davvero le avesse detto semplicemente quel che gli passava la testa, avrebbe probabilmente rovinato tutto. Invece in quel modo il destino, rovinando i suoi rovinosi progetti, gli offriva un’altra possibilità. Infatti questa volta, alla prossima data italiana mancavano non una decina di risicatissimi giorni, ma invece un paio di mesi. Dunque, aveva un bel po’ tempo per calmarsi, per soppesare le opzioni, per valutare le possibilità e le impossibilità, per pensare e ripensare a cosa era meglio fare o non fare. Non era questo un altro motivo di ottimismo, un altro motivo per pensare che le cose potessero andare bene, o, comunque sia: andare da qualche parte?
51.
Ma, non ostante la situazione sembrasse aver dato una svolta in qualche modo positiva, la sua angoscia e la sua disperazione, al di là di un breve e vaghissimo senso sollievo, rimasero quelle di prima che fosse partito. Non c’era nulla da fare. Per quanto si sforzasse di fare il Jovanotti e pensare positivo perché son vivo, perché son vivo, non ci riusciva. Quei (quei che cosa? come poteva chiamare quei viaggi privi di senso, quei tentativi di afferrare il vento, di chiudere nelle reti del cielo un volo di farfalla, doveva continuare a definirli con quella parola orribile e fuori luogo, come un…) erano una cosa troppo assurda perché non dovessero infine risolversi in un rimedio molto peggiore del male – lo sapeva, lo sapeva senza sapere come – ma lo sapeva!
Lo sapeva in modo infallibile nella realtà trasformata in un sogno o in un incubo come infallibilmente si sanno le cose nei sogni e negli incubi, lo sapeva, lo sapeva e ancora e ancora lo sapeva!
(lo sapeva?)
La fine del mondo Maya, se non avrebbe riguardato il mondo, avrebbe ben presto riguardato lui, dato che in quel momento, in qualche modo misterioso, sapeva sempre tutto, meno come fare a tirarsi fuori dall’abisso.
52.
Fu questo forse il motivo per cui, a dispetto della nuova possibilità che il destino (generosamente?) gli offriva, la notte che passò nell’albergo fu una delle più spaventevoli della sua vita spaventevole. Per ore e ore quello sconosciuto che fin da bambino gli avevano insegnato a chiamare “io” sprofondò in uno di quegli abissi che hanno costretto l’umana fantasia a inventarsi un inferno anche al di là di quello che questa vita può essere, abisso in cui gli fu dato vedere cose che invano e ancora invano domanderà alla memoria implacabile la divina grazia di dimenticare.
Accanto alle visioni spaventevoli, per qualche motivo che non sapeva e che forse non saprà mai spiegarsi, nell’incessante e torturante rewind dell’ossessione rivedeva i passi e le figure dello spettacolo della sera precedente, interminabilmente ripercorreva ogni istante di quei minuti celestiali e al tempo stesso atroci in cui la ballerina aveva trasformato le sue scarpe da tango in ali di farfalla, intanto che nei timpani e nelle tempie martellanti risentiva le ovazioni e gli applausi, le grida che chiamavano il suo nome dolcissimo, e intanto e intanto – ah, intanto! – intanto e in controcanto lo scrittore piangeva, piangeva, piangeva..
(…piangeva: era gelosia quella, doveva chiamarla così oppure in un altro modo? E, se non era gelosia, che cos’altro poteva essere?)
((…piangeva: era gelosia quella, oppure era amore? E se era amore, che amore era, e, soprattutto: di chi era? Era il suo amore? O era l’amore di quell’altro, di quell’altro chiunque fosse che, da quando l’aveva riconosciuta nella foto, era entrato in lui, di quell’altro che come una sorta demone aveva cominciato a possederlo, così che quell’amore non era per lei, ma per quell’altra lei che in qualche modo lei significava, che in qualche modo simbolizzava? Si, forse anche quello, come tutto il resto, era un sentimento che veniva da altri mondi, da altri spazi, altro tempo, da un’altra vita: quell’altra vita che la sua non vita non più sua era misteriosamente diventata.))
(((Quando questa tragedia invisibile giungerà alla sua fine invisibile, lo scrittore leggerà queste frasi di Pessoa credendo fermamente di averle scritte lui: «Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l’attore, ma i suoi gesti.».)))
53.
Pianse per tutta la notte, interminabilmente, di quel pianto amaro e incomprensibile che come una nuova malattia aveva preso a tormentarlo da quando era andato a trovarla la prima volta. Un pianto inutile, al tempo stesso lacerante e vuoto, che sembrava alimentarsi dello sfinimento e dell’insonnia a cui lo costringeva e così…
…piangeva…
Piangeva si, e non riusciva in nessun modo a smettere di piangere. Non riusciva a smettere di piangere, curiosamente, proprio come alcuni mesi prima avrebbe voluto ad ogni costo piangere, senza riuscirci.
54.
Fu così che pianse.
Pianse nel buio e del buio, pianse nella luce e della luce. Continuò poi a piangere quando fu costretto ad alzarsi da letto e poi lungo il mattino, quando in qualche modo dovette uscire perché il cameriere doveva venire a ripulire la stanza. Continuò poi a piangere nel «buio allo scoccare di mezzogiorno» («Darkness at the break of noon» no, quello non era Oscar Wilde, era Bob Dylan, futuro premio Nobel, beato lui), e poi nel pomeriggio mentre tornando a casa guidava in quella luce bianca (troppo bianca) così bianca da trasformarsi in un vuoto che riempiva i suoi occhi di arcobaleni sfasciati, sfiniti, spaesati, spossati, di interminabili, vuoti riflessi di specchio riflesso in altri specchi.
55.
Piangeva, si.
Piangeva e ancora piangeva, di nuovo e ancora una volta senza nessun costrutto, senza nessuna consolazione, come sempre senza capire nulla di nulla, né perché piangeva, né perché era andato a Parma, né perché stava tornando, niente, non capiva niente anche se, in modo misterioso, sapeva sempre tutto, come si sanno le cose nei sogni e negli incubi, perché un sogno o un incubo non cessava di essere quella che, non ostante tutto, continuava a chiamare la sua vita.
56.
Fu quella sera a Parma, in quella camera d’albergo, in quei momenti a modo loro indimenticabili, in cui nemmeno il pensiero improvviso di poterle finalmente parlare riusciva a dargli pace, che lo scrittore inaugurò i quaderni da cui circa quattro anni dopo avrebbe estratto i componimenti che sono stati raccolti in questo libro.
Sul momento, non gli pareva che quel che scriveva fosse poi molto diverso da quel che aveva sempre scritto, anche perché si trovava in uno stato di totale sconvolgimento, e non poneva molta attenzione a quel che stava scrivendo. Una diversità rispetto al passato di cui però nei mesi successivi prese atto, era che questa volta le parole non venivano fuori da un desiderio per quanto intenso di espressione, e che dunque quel fiume di parole che continuamente gli usciva dalla penna aveva molto poco a che fare con l’arte in generale e la poesia in particolare. Il suo scrivere era invece l’esito di un bisogno indecifrabile, tirannico, incontrollabile, di una minaccia incombente, di un intimo ricatto, di un abisso in sospeso, di un incubo interminabile, di un qualcosa insomma con cui in vita sua non aveva mai fatto i conti. Le pagine bianche gli stavano davanti come una costrizione, come una dannazione, come una fatalità imponderabile, come uno straniero con cui avrebbe dovuto infinitamente contrattare senza sapere e senza saperne nulla, nemmeno che lingua avrebbe dovuto imparare per poter giungere a un qualche straccio di comunicazione («A questo mondo viviamo tutti a bordo di una nave salpata da un porto ignoto per un porto ignoto»: quando questa tragedia invisibile sarà giunta alla sua fine invisibile, lo scrittore leggerà questa frase di Pessoa credendo fermamente di averla scritta lui).
57.
Per l’ennesima volta in quei giorni terribili, l’unico modo per capire cosa doveva fare era farlo, e farlo e basta.
Via via che va avanti, lo scrittore si rende conto che i suoi componimenti tentano di essere un diario, senza in nessun modo riuscire nell’intento. Cercano allora di trasformarsi in delle poesie, però diverse da quelle che fino a quel momento ha scritto, ovvero in dei componimenti bastardi situati al limite fra la poesia, la prosa poetica e quella impoetica, naufragando in questo modo sugli scogli nascosti e aguzzi nella troppa abitudine alla rima e al ritmo. Tentano allora di deviare verso una sorta di spietata autoanalisi ma non arrivano nemmeno a essere un tentativo di autodistruzione.
Lo scrittore pensa allora che potrebbe dare una svolta ai suoi componimenti tentando di parlare direttamente di lei, della ballerina, o almeno di quel che gli è successo o crede che gli sia successo a causa sua, ma si rende conto che riesce a dire di tutto, meno quello che vorrebbe dire.
(ma allora cosa è che stava scrivendo, che cosa dicevano quei fiumi di parole in cui continuamente rischiava di annegare, quel che un altro (ma chi, quale altro?) per mezzo di lui voleva dire?)
((è lui che ha scritto « La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare i sogni degli altri.»? (si, questo finalmente era di nuovo lui, era Oscar Wilde, quello che ha scritto anche che «In ogni istante della vita siamo quello che saremo non meno di quello che siamo sempre stati.»))).
58.
Infine, dopo infiniti tormenti, lo scrittore si rende conto che quelle pagine che qualcun altro, o forse il solito sé stesso diventato qualcun altro sta scrivendo al suo posto, non hanno alcuno scopo letterario o filosofico plausibile. L’unica cosa a cui sembrano servire, e forse proprio attraverso l’impossibilità di raggiungere qualsiasi scopo letterario o filosofico plausibile, è riflettere sul fatto che quell’esperienza terrificante che sta passando – ovvero quel che la ballerina significa per lui o per quel qualcun altro che incontrandola è diventato – è qualcosa che non ha nulla a che fare con il linguaggio letterario o filosofico, ma che invece ne è la sua consunzione, la sua antiapocalissi, la sua negazione.
(Si alla fine lo aveva intuito. Quelle sono pagine con cui un altro, per qualche oscuro motivo, si sta rivolgendo a lui. E d’altra parte, a chi si dovevano rivolgere? Intorno a lui non c’era nessuno! L’amore, aveva scritto una volta, non è altro che una metafora di sé stesso: ma in quel caso l’amore non era una metafora di sé stesso e dunque non era nemmeno sé stesso, era un’altra cosa, qualcosa come una non cosa che lo trascinava, lo opprimeva, lo scarnificava, che riduceva in polvere qualsiasi tentativo di definirlo, e che trasformava la polvere in quel vento in cui volava via lontano, lontano…)
59.
Però, anche se col passare del tempo lo stato di confusione si fa sempre più profondo e doloroso, lo scrittore intuisce che quelle pagine che interminabilmente riempie di qualsiasi cosa gli passi per la testa, pur vagando da tutte le parti senza fermarsi in nessun posto, girano però intorno a un centro misterioso ma saldo. Questo lo aveva capito fin dall’inizio. L’oscura stella polare di quel goffo e sconclusionato non-viaggio era la sua partenza, e dunque quella che, non ostante tutto, gli pareva qualcosa come una separazione definitiva (anche se di fatto, nel momento in cui aveva preso a scrivere quelle note, molto spesso sconnesse e sempre e comunque frammentarie, lo scrittore era praticamente certo che avrebbe potuto rivederla due mesi dopo: che poteva significare un fatto di questo genere?).
Dunque, adesso lo sapeva, anche se non poteva scriverlo: tutta la sua già da sempre sfinita e dunque instancabile furia compositiva girava intorno a qualcosa come un addio: ma a un addio a chi, o a che cosa?
A lei certo: quelle pagine sono senz’altro un addio dello scrittore alla ballerina, sennò a chi altri? Non è per questo che si è sentito costretto appunto a reinventare la sua scrittura, e questo solo, in un certo senso, per dirle addio? Non sono quelle parole un commiato, un voltare la testa verso una schiena che si fa sempre più piccola mentre si allontana sempre di più verso un orizzonte sempre più lontano mentre, dopo un ultimo, straziante appuntamento, ognuno se ne sta andando in direzione opposta?
Si, questo è vero. Però, in quelle pagine disorganiche e disorientate, che in modo quasi alluvionale si accumulano nel suo cassetto, si parla anche o forse addirittura soprattutto di altre cose. La ballerina si è allontanata, continua ad allontanarsi, e lo scrittore non riesce a cessare di dirle addio, va bene, va bene, questo è chiaro. Anzi: è fin troppo chiaro! Però, anche mentre non cessa di dirle instancabilmente addio, al tempo stesso lo scrittore si rende conto che sta prendendo congedo anche da qualcos’altro. Da un qualcos’altro che però non sembra entrarci nulla con lei, con la fatata bellezza del suo passo, del suo tango.
Si.
Mentre le sta dicendo instancabilmente addio, lo scrittore si rende conto che sta dicendo addio anche al suo mondo umano e dunque anche dal suo mondo storico, quel mondo la cui voce altro non è che la cultura in cui è cresciuto e in cui è immerso o, anzi: da quella cultura in cui da quando è nato sta interminabilmente soffocando, sprofondando, annegando e in cui dunque interminabilmente sta morendo.
60.
È per questo che il suo colloquio-soliloquio di fronte alla di lei presenza-assenza diventa anche – e forse soprattutto! – un commiato da tutto quel che ha letto e imparato, da tutto quel che ha detto e che si è sentito dire, da tutto quello che ha pensato o creduto di pensare fino ad allora.
Così, mentre come una foglia multicolore, danzando più leggera e inafferrabile del vento nel vento sempre più vuoto e gelido d’autunno la ballerina sempre più si allontana verso un tramonto sempre più splendido, coi suoi gialli van Gogh, i suoi rossi rosso sangue e i suoi azzurri d’oriental zaffiro, mentre diventa sempre più difficile rivedere con l’immaginazione anche un solo tratto del suo volto sempre più illimitato e vago, con un intimo moto di amore e di rivolta lo scrittore non si rivolge in primo luogo a lei e al suo nome, oramai talmente sommesso e sconnesso da esser diventato quasi impronunciabile, ma invece ad altri nomi, che per lui come per il mondo umano e storico in cui è nato – e in cui anche e soprattutto, lo ripetiamo, sta morendo! – sono stati importanti. Nomi quali quelli di Freud, Montale, Pessoa, Caproni, Shakespeare, Dante, Leopardi e altri che in questa sintesi di fatto non compaiono, ma di cui sono comunque un tacito sottofondo.
Con questi nomi lo scrittore si infuria, con questi nomi si lamenta, e questi nomi accusa: cerco risposte che voi non siete stati e non siete in grado di darmi. Allora perché state ancora qui ad occupare il mio tavolo, il mio comodino, la mia biblioteca? Se io vi chiamo e voi non mi rispondete nulla, allora spiegatemi almeno perché sono ancora qui a pensare attraverso i vostri concetti, a cercare nelle vostre pagine, ad appellarmi alle vostre parole! Ditemi: perché non libero la mia biblioteca dalla vostra presenza, anzi: perché non butto dalla finestra l’intera biblioteca, che altro non sa fare che star lì a occupare inutilmente lo spazio e a raccogliere l’ancor più inutile polvere del tempo?
Nessuna risposta da nessuna parte gli arriva, neppure l’eco del suo stesso domandare.
61.
E come nessuna risposta da nessuna parte gli arriva, come un lunatico in preda alla più selvaggia e lunatica delle disperazioni lo scrittore prende allora a ululare in risposta agli ululati dell’ubiqua e cacofonica luna piena mediatica che da ogni parte giunge ad assordarlo senza dire nulla, all’isteria promozionale che vende di tutto senza mai dare nulla.
Ulula alla politica che altro non è oramai che uno strumento della cacofonia mediatica. Ulula ai quattro venti ai rapporti umani che si dissolvono nel vento di quell’una sola solitudine che tutti oramai siamo diventati.
Ulula alla religione in cui è stato educato, oramai solo un fantasma di quello che è stata e di quella che verrà.
Ulula a quel fantasma che oramai non ha più nemmeno il coraggio di chiamare “io”, che nella notte illuminata dalla cacofonica luna mediatica, infestata dalla politica che altro non è che un suo strumento, spazzata dal vento dell’una sola solitudine che tutti siamo diventati, se ne va via trascinando catene invisibili per un castello stregato, spaventando coi suoi cigolii e i suoi ululati oramai solo quel nulla che non vede più ogni volta che al mattino va incontro all’abisso di insonnia dello specchio.
(Scriveva, scriveva, scriveva, e più scriveva più si dimenticava quel che stesse facendo e perché, perché? e quanto al resto…)
62.
Quanto al resto, fu circa tre mesi dopo la fine del mondo Maya e dunque dopo circa tre mesi dall’inizio della stesura dei suoi quaderni che la ballerina, pur senza dirgli nulla di preciso, gli fece intendere di non volerlo vedere mai più. Come accade questi in casi, il segno che gli era stato offerto era chiaro, o addirittura chiarissimo, ma, come dire: forse non assolutamente inequivocabile.
Anche in quel momento, come accadrà poi negli anni successivi, lo scrittore venne assalito dal terribile dubbio che forse avrebbe potuto, anzi: che forse avrebbe dovuto provare a farle cambiare idea, che forse, magari con uno sforzo nemmeno poi così erculeo come poteva parere, avrebbe addirittura potuto farle cambiare idea, o almeno: concedergli un ultimo colloquio.
Tutto questo immaginò, sospettò, vaticinò interminabilmente, ma la volontà di reagire venne paralizzata dall’inevitabile, fatale sensazione che ogni parola di più avrebbe significato prolungare artificialmente non meno che inutilmente un’agonia che – anche fosse durata un solo istante – gli sarebbe apparsa interminabile.
63.
Il cielo di quella spaesata periferia di Torino, dopo l’ennesima, atroce notte insonne, era di un grigio impenetrabile e opprimente come l’impietrita disperazione che incombeva sul suo presente e sul suo futuro.
Passeggiava per le vie gelide e deserte, barcollando in bilico su quel baratro che la sua anima era diventata, contemplando l’abominio della desolazione di quegli spazi semivuoti, uguali e infinitamente insignificanti, spingendosi per strade sempre più simili a viottoli, e inoltrandosi infine in un’imitazione di parco squallida come lo squallore e deserta come il deserto.
Andava, fra i mucchi disordinati delle ramaglie marce e della neve sporca, fra la spazzatura da portare via e quella che sarebbe arrivata.
Quella neve sporca…
64.
Negli anni successivi, quell’immagine non cesserà di ossessionarlo. Quell’immagine grigia, al tempo stesso netta e indefinita, l’immagine di quella neve sporca che, proprio come le sue lacrime, pareva diventata per sempre incapace di sciogliersi. Infatti, per quanto provasse e riprovasse, in nessun modo gli riusciva a piangere, neppure in quel modo massacrante e pleonastico con cui aveva pianto andando e ritornando da Viareggio e Parma. Oscuramente intuiva che quella pronunciata la sera precedente non era la parola fine, che quella di Rivoli a cui entro alcune ore si sarebbe dovuto recare per prendere quell’inutile treno che non lo avrebbe ucciso, non era affatto l’ultima, ma invece la prima stazione di una via crucis che non avrebbe fatto altro che ripartire, ripartire, e poi ancora ripartire, chissà per quanto tempo ancora, e chissà ancora per quante stazioni…
65.
Fu molti mesi dopo, su un altro treno, ancor più inutile di quello che aveva preso a Rivoli, nel bel mezzo di una folla che stanca e nervosa gli si pigiava addosso, mentre stupefatto e sconvolto udiva nelle cuffie l’ultimo verso della canzone di Richard Anthony “J’entend siffler le train” che le lacrime imprevedibilmente, inopportunamente si sciolsero, dopo essere rimaste lì, congelate negli occhi come in un ghiacciaio eterno per mesi più lunghi dell’eternità. L’aveva appena scaricata quella canzone sconosciuta, e dal titolo non aveva capito di che cosa si trattasse. Tutto quel che sapeva era che amava da sempre la canzone francese, che in pratica non ascoltava che quella, e che quella era una canzone famosa che però, chissà perché, non aveva mai ascoltato. Ascoltandola, sentì parlare di una stazione affollata, di un treno che partiva, dell’impossibilità di correre per raggiungere la persona amata, dell’impossibilità di gridare per chiamarla proprio adesso che partiva per sempre, e si concludeva infine con un verso che suonava tanto teneramente ferito quanto ferocemente disperato:
«…j’entendrai siffler ce train toute ma vie.»
In quella musica lo scrittore sentì di colpo risuonare la sua voce roca e dolcemente sensuale, in quelle parole la rivide mentre si allontanava verso un’uscita secondaria, verso una strada che girava attorno all’edificio in modo tale che voltandosi scoprì di averla avuta alle spalle per almeno un paio d’ore mentre guardava avanti credendo di vederla ritornare. In quel fischiare abissale di treno che avrebbe udito tutta la vita, che il rimorso (il rimorso? si, si: il rimorso: ma vedremo dopo di che cosa precisamente si tratta) dilatava in echi interminabili come l’inferno, lo scrittore non seppe resistere e scoppiò a piangere, a piangere a dirotto in mezzo a quella folla infastidita e ostile. Tutto quel che poté fare per proteggere la sua intimità ferita fu tirarsi la sciarpa sul ciglio degli occhi, se quelle lacrime non erano altro che un eco di quello che oramai da molti mesi pensava di sé stesso: che sarebbe vissuto e morto accanto a un ricordo, accanto a un rimpianto che, con il passare del tempo, si trasformava sempre di più nella tortura di un’indecifrabile rimorso).
((Rimorso? Ehi, ma stiamo scherzando? Rimorso di che? Che cosa c’entrava lui con il fatto che la ballerina non voleva vederlo più? Di che cosa si poteva accusare per potersi condannare a quel pentimento tanto più irrevocabile perché apparentemente senza colpa? Già ne avevamo accennato al momento in cui lo scrittore era scoppiato a piangere ascoltando “J’entend siffler le train”: che cosa ci stava a fare un sentimento del genere nella sua anima innocente? Ecco: fu proprio in questo momento che lo scrittore cominciò a rendersi conto, sia pure in modo stupefatto e contraddittorio, che le sue lacrime, lungi dall’essere quelle della sofferenza pura e innocente, sgorgavano in realtà sotto il colpi del remo di Caronte. Dunque, che lui lo volesse o no, le sue lacrime erano quelle di un colpevole, e, per di più, di un colpevole disperato perché in nessun modo spera di redimersi, ovvero di un colpevole inorridito di sé stesso perché preferisce l’inferno della punizione a quello del pentimento))
(((qualcuno ha scritto «L’esperienza non ha alcun valore etico, è solo il nome che gli uomini danno ai loro errori. », ma chi era?)))
((((Ma si, doveva essere ancora lui, doveva essere Oscar Wilde, quello che ha scritto anche «Datemi una maschera e vi dirò la verità.»))))
66.
Il rimorso si.
Fra i molteplici demoni che si scatenarono dopo quel giorno fatale, squallido come la periferia sporca di neve sporca che lo scrittore traversava credendo di crollare ad ogni passo, il rimorso fu senz’altro uno dei più feroci e al tempo stesso più incomprensibili. Di dove veniva quel sentimento incessante e tormentoso di aver commesso una colpa orribile, per la quale gli era impossibile trovare un modo qualsiasi, non diciamo di perdonarsi, ma anche solo di tentare di giustificarsi?
Lo scrittore per molto tempo non poté fare altro che accusare le sue autoaccuse di inutilità, di assurdità, di autolesionismo, ma tutte le perorazioni e le arringhe che interminabilmente pronunciava in favore di sé stesso non servivano a scacciare quel mostro impazzito, che sembrava sorto dal nulla per punirlo di un atto che non aveva commesso. Però questo il fantasma, con tutta la sua irrealtà e la sua irrazionalità, riusciva comunque sia a farlo soffrire ininterrottamente, ed è chiaro a tutti che la sofferenza, per quanto assurda, è più reale di qualsiasi realtà e di qualsiasi razionalità, specie se prosegue incessante contro ogni argomento che ne dimostri e ne proclami l’assurdità. Così, col persistere indefesso di quel tormento, lo scrittore dovette prenderne atto: chissà, forse le sue autoaccuse non erano poi così insensate e infondate come sembravano, chissà, forse la sua innocenza non era poi era così piena e totale come credeva (o come voleva credere).
67.
In effetti, col passare dei giorni, arrivò un pensiero che non aspettava, un pensiero molto strano, goffo, impacciato, apparentemente autoironico, ma che nel profondo avrebbe potuto essere anche molto, molto serio e significativo. Questo pensiero gli venne in mente quando, riflettendo sui recenti avvenimenti, si sorprese a dirsi e soprattutto a ripetersi che nulla al mondo avrebbe potuto consolarlo di quel che era successo, se non ci riusciva il fatto che quell’ennesimo fallimento, lui che in vita sua non ne aveva mai azzeccata una, l’aveva infallibilmente previsto – pur senza con ciò aver potuto far niente per evitarlo. Come era potuta succedere una cosa del genere?
Quelle sensazioni laceranti di separazione definitiva quando eppure poteva restare del tutto o quasi del tutto certo di poterla rivedere, quella disperazione atroce nel mentre sperare era ancora del tutto plausibile e ragionevole, erano state tanto irrazionali quanto infallibilmente profetiche. È vero che un prosieguo erotico alla situazione era difficile da immaginare, e, ammesso che ci fosse stato, sarebbe potuto durare un paio di mesi, a essere ottimisti. Ma intanto un paio di mesi sono un paio di mesi, non nulla. E poi, dopo quel paio di mesi, poteva restare qualcosa come una tenera amicizia, delle telefonate, delle email, degli sms, qualche raro e vago incontro: come poteva esser certo invece che nulla di tutto questo sarebbe successo, che tutto sarebbe finito con un addio arido e irrevocabile? Alla fine, se una persona quando ti rivede ti abbraccia e ti stringe al punto che pensi che non ti voglia lasciare (questo era quello che era successo a Viareggio, sei mesi dopo che era partita da Firenze), questa è una cosa che può significare poco o nulla, è vero. Ma infine, perché non pensare che può anche significare qualcosa? Perché tutto quel pessimismo? Perché quell’assoluta certezza che tutto sarebbe finito in nulla o in qualcosa di peggio del nulla?
Già, perché?
Non sapeva rispondersi. Come che sia, per incredibile che potesse sembrare, lo scrittore ci aveva indovinato, le cose erano andate proprio come aveva previsto, pur se aveva scommesso contro quella che, pur in un contesto tanto vago e variabile come la sentimentalità, si poteva ancora definire “evidenza statistica”. Come era potuto accadere un “miracolo” del genere?
Prevedere l’evolversi delle relazioni non era mai stato il suo forte. Ogni volta che si immaginava qualcosa, poteva star sicuro che accadeva l’opposto di quel che si immaginava, e se per caso si provava a immaginare l’opposto di quel che immaginava all’inizio, ad accadere era – c’è bisogno di dirlo? – quel che immaginava all’inizio! Dunque, questo stranissimo “successo predittivo” sembrava un fatto meritevole di profonda riflessione perché, a pensarci bene, forse era proprio questa previsione azzeccata in modo tanto improbabile a suscitare il malevolo dito accusatore della sua coscienza.
In effetti, se aveva previsto degli eventi che, almeno esteriormente, sembravano tanto improbabili da parere quasi impossibili, che altro poteva significare una tale previsione, se non che quel futuro che temeva era scritto in lui stesso molto più che nelle circostanze esterne, che forse non avevano rappresentato altro che un labile pretesto?
68.
Retrospettivamente, si rendeva conto che fallire in quel suo (a proposito: in quel suo che? ancora non era arrivato a una definizione anche solo minimamente plausibile) era stata una delle tante costrizioni incomprensibili di quel periodo. D’altra parte, quelle assai poco storiche vicende servirono a fargli intuire che quella che viene definita come “la costrizione del fato” può anche essere qualcosa di molto diverso da quello che per solito si intende e che ancor più spesso si fraintende. Una delle sue formulazioni più classiche è quella che con epigrammatica solennità Tacito enuncia nel Libro Primo delle “Storie”:
«Il quarto giorno prima delle idi di gennaio fu turbato in modo insolito da terribili piogge, tuoni, fulmini e minacce celesti. Il fatto che, fin dall’antichità, si facesse attenzione a sciogliere i comizi in simili eventi, non distolse Galba dall’andare al campo pretorio, sia che non credesse a quei segni reputandoli fortuiti, sia perché le decisioni del fato non si possono evitare anche quando sono preannunciate.».
Una frase come questa può essere intesa in questo modo: che quanto deve succedere, succede a dispetto di quel che gli esseri umani vogliono e progettano. In genere, la costrizione del fato viene intesa proprio in questo modo. Però, può essere intesa anche in modo molto diverso, ovvero: se quel che deve succedere fatalmente succede, è solo perché lo strumento fondamentale di tale necessità è proprio quella volontà che gli esseri umani credono di contrapporre a tale necessità. E non importa affatto se quel che credono di volere lo vogliono davvero, oppure credono solamente di volerlo: gli effetti di tal genere di credenze poi rimangono lì proprio come quelli della volontà: rocce inamovibili scolpite dal rimorso, gelidi sguardi indifferenti alle tempeste e alla consunzione del tempo.
69.
La stragrande maggioranza delle cose che ci succedono nella vita non servono a nulla. Non servono a darci felicità, non servono a darci dolore, non aggiungono né tolgono un grammo di saggezza o di stupidità al nostro intelletto. In questo caso però l’esperienza, per quanto negativa, sembrava essere servita a qualcosa. Forse adesso lo scrittore era in grado di capire una cosa che sempre si era sforzato di capire, senza mai riuscirci, ovvero quel sentimento tragico della vita che ha animato il mondo classico, e che si può forse sintetizzare con l’oscuro detto di Anassimandro, riportato da Simplicio nel De physica, 24, 13
“… da quello stesso principio da cui tutti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”
Chissà. Forse “l’oscuro detto di Anassimandro” rimane oscuro solo fino a quando non si fa piena esperienza della condizione umana: siamo colpevoli di ciò che il fato inesorabile ha stabilito, se quel che siamo e che vogliamo altro non è, in fondo, che il nostro contributo personale al farsi del fato inesorabile. E poco importa se poi il fato va contro il nostro essere e contro la nostra volontà: questa, in un altro senso, non potrebbe essere una mera apparenza ovvero il velo pietoso che stendiamo sulla nostra essenziale e profonda colpevolezza?
70.
Passando da Galba ai sui suoi casi personali, lo scrittore arrivò lentamente a rendersi conto che il suo predestinato fallimento era fin troppo facilmente spiegabile, e proprio in quei termini privati e psicologici che si ostinava a rifiutare per principio. Nei due mesi precedenti allo spettacolo di Mantova, quando in preda a un’indescrivibile febbre affabulatoria aveva interminabilmente confabulato con sé stesso, cercando di divinare quel che avrebbe dovuto o potuto dirle – e, soprattutto, problema ben più spinoso e intricato, il come dirglielo! – aveva tenuto conto di tutti i sia pur minimi dettagli di quella situazione, tranne che dell’elemento forse più fondamentale, ovvero di quello che poteva definire come il suo stesso carattere.
Questa mancata presa in considerazione di sé stesso si rivelò insospettabilmente fatale. Infatti quando infine, credendo di uscire sano e salvo dal labirinto vertiginoso delle ipotesi, era giunto alla conclusione che l’unico modo di aggirare un ostacolo che sembrava invalicabile era quello di, diciamo così, mentire spudoratamente, aveva già mentito spudoratamente. Ma non innanzitutto a lei: aveva mentito in primo luogo a sé stesso.
Era proprio questa particolare menzogna la sua colpa essenziale e fondamentale, e di questa colpa adesso si accusava, e a causa di essa si tormentava e così si puniva, giorno e notte, instancabilmente.
71.
Nel momento in cui l’aveva presa, la decisione di mentire gli pareva tanto ragionevole da risultare inevitabile. Non poteva e non doveva assolutamente dirle tutto e subito. Quella storia era troppo folle per essere raccontata, per così dire, tutta d’un fiato, senza un minimo di preparazione e introduzione. Indiscutibilmente aveva bisogno del tempo e del modo: come poter negare una tale evidenza? Come raccontare (a lei, ma, diciamo la verità, anche a chiunque altro) il modo al tempo stesso surreale e misterioso in cui il suo arrivo a Firenze gli era stato preannunciato, il modo quasi miracoloso in cui l’aveva riconosciuta in quella foto in cui lei non sembrava lei, ma un’altra che non aveva mai visto e mai conosciuto? E come spiegargli le (incredibili? indicibili? meravigliose? terribili?) conseguenze che quell’incontro era o sembrava destinato ad avere?
Si può dire quel che si vuole, ma certe cose, anche se accadono nella realtà, si possono raccontare solo facendole passare per prodotti della fantasia. Dica pure quel che vuole Oscar Wilde, affermi pure che «La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imita la vita.»: queste sono sciccherie che ci si può permettere di sostenere in un libro di aforismi, in un dramma teatrale o in un romanzo. Oppure, se proprio si vogliono portare fuori dalle scene, si possono tirar fuori quando ci si trova intorno a un tavolo con gente che, siccome non ha altro problema che quello di spendere i soldi che non ha guadagnato, pur di passare il tempo è disposta a credere a qualsiasi assurdità possa passare per la testa di chiunque, purché venga raccontata in modo divertente (che era poi il passatempo preferito di Oscar Wilde: «Amo molto parlare del niente: è l’unica cosa di cui so tutto.»).
Alla fine, parlare intorno a un tavolo di perdigiorno, è lo stesso che scrivere romanzi, aforismi o stare sopra un palco: puoi dire quel che vuoi, poi tanto alla fine l’unica cosa importante che succede è che non succede niente. Invece, quando uno si trova a avere a che fare con la realtà, bisogna rinunciare a lussi costosissimi quali la verità e l’autenticità, e attenersi invece a un ben più solido ed economico senso comune, anche e soprattutto quando il senso comune non è altro che un velo più o meno pietoso steso su una verità insopportabile, ovvero su quel genere di cose che accadono quando è la vita a imitare l’arte, e non viceversa.
Jean Epstein può ben scrivere un saggio sul senso del cinema in quanto messa in discussione del principio entropico, e fa benissimo! Fa ancora meglio Hitchcock a scrivere e girare un capolavoro come “La donna che visse due volte”, perché tanto poi per vederlo le persone devono entrare in una sala cinematografica, e avendo pagato il biglietto possono credere tanto ragionevolmente quanto fermamente di andare a vedere uno spettacolo, ovvero di immergersi in una finzione. Una volta che la gente crede di aver a che fare con mondi immaginari, cosa importa se quello che vedono sullo schermo è vero, mentre il sistema di credenze con cui vedono o credono di vedere il mondo è un modo di rendersi ciechi e sordi a qualsiasi lacerto di verità e di realtà? La sacrosanta finzione su cui si basa la vita umana, la pia fraus, la ragionevolezza, il senso comune, i giornali, la politica, i risparmi in banca, etc., escono, proprio come gli spettatori, sani e salvi dalla sala cinematografica, e tanto basta. I diritti d’autore non servono solo ad arricchire gli autori, ma anche e soprattutto a salvare il mondo di apparenze nel quale esistiamo o facciamo finta di esistere.
E d’altra parte, si può dar torto all’esistenza e al pietoso cumulo di falsità che la consente? I mistici definiscono a volte il mondo “uno splendido nulla”: ma è in questo nulla, splendido o orrendo che sia, che tutti siamo condannati a esistere. E se per esistere c’è bisogno di fingere che il nulla sia qualcosa, bisogna per ciò, in nome della verità, negare l’esistenza? No, non si può fare. Oppure, lo si può fare, e, anzi, facendolo bene si può arrivare a guadagnare una grande fama di artisti e di poeti. È solo che bisogna aver l’accortezza di relegare la suddetta negazione magari in margine a un formidabile capitolo de “Une saison en enfer”, proprio come Oscar Wilde l’aveva relegata nei suoi drammi, nei suoi romanzi e, soprattutto, nei suoi aforismi. Se si vogliono evitare guai, bisogna evitare accuratamente di andare a negare l’esistenza nel bel mezzo dell’esistenza, o la realtà nel bel mezzo della realtà, e cose del genere: un comico può ben fare satira politica, e farci anche un mucchio di soldi, ma è del tutto chiaro che un politico non può fare satira politica, a meno che non sia fuori di senno oppure sul punto di cambiar mestiere. Solo gli idioti si lasciano andare a comportamenti di questo genere che, oltre ad essere socialmente riprovevoli e universalmente riprovati, sono anche altrettanto saggi e sensati che legarsi le scarpe in un campo di cocomeri.
(«La vie est la farce à mener par tous.»: va bene, va bene buon vecchio Arthur, hai ragione! E chi mai può sognarsi di dar torto a un poeta e un genio del tuo calibro? Ricordati però che hai ragione solo dentro il libro e per il tempo in cui si legge il libro. Quando poi lo si chiude, la farsa ritorna ad essere la realtà e la realtà la farsa. E c’è da stupirsi forse? Non è proprio in questo modo che anche tu sei esistito e continui ancora oggi a esistere, ovvero come merce sul bancone di quel mercato delle rappresentazioni letterarie che – se vengono tollerate – è solo ed esclusivamente nella misura in cui si rassegnano a restare appunto rappresentazioni, e dunque finzioni, lasciando in questo modo in pace quel senso comune che, con tutta la sua falsità, la sua inautenticità, la sua ipocrisia, la sua balordaggine, la sua crassa incultura, ci consente però di mangiare, bere, respirare, andare in bagno, tirare lo sciacquone, e cose del genere?).
72.
Fu con ragionamenti come questi che lo scrittore arrivò infine a convincersi che mentire alla ballerina non era una possibilità fra le altre, ma un vero e proprio dovere. La psicologia e la logica, oltre che il buon senso sembravano costringerlo a questa scelta. Alla fine, non era proprio lui a far fatica a credere a quel che gli era successo, a quel che continuava a succedergli, e dunque, in ultima analisi, a credere a sé stesso? Quindi, a maggior ragione, come aspettarsi che la ballerina fosse disposta a prenderlo sul serio?
L’alternativa era secca. Mentire oppure mettersi a raccontare eventi che sembravano un estratto particolarmente surreale da un abbozzo di trama lasciato nel cassetto da un qualche commediografo dell’assurdo, possibilmente morto per overdose di alcol e allucinogeni. Certo, se lo scrittore – invece che un essere umano effettivamente esistente con il problema di dover dire a un altro essere umano effettivamente esistente delle cose effettivamente accadute ancorché completamente assurde – fosse stato un regista di cinema o di teatro con il problema di inventarsi una trama di successo, avrebbe potuto comportarsi in modo ben diverso.
Nei panni di un regista, lo scrittore avrebbe potuto scrivere la sceneggiatura di un film in cui un protagonista che somigliava a sé stesso si presentava a un’altra protagonista che somigliava alla ballerina e gli raccontava tutto per filo e per segno, non trascurando alcun particolare e, anzi, magari aggiungendone qualcuno ancor più incredibile. Ma, sfortunatamente, il dramma dello scrittore avrebbe dovuto essere proiettato sullo schermo della realtà, e non su quello di un cinematografo, e dunque aveva il sacrosanto dovere come peraltro il sacrosanto diritto di piegarsi umilmente all’idiozia del senso comune. Che altro poteva fare?
In qualsiasi modo si potesse pensare di comunicarla a una persona realmente esistente, tutta quella faccenda era completamente irragionevole. Talmente irragionevole che più irragionevole di così avrebbe potuto diventare solo aggiungendovi il tentativo di spiegare quali erano state le conseguenze di quel loro strano incontro, che solo il futuro, se ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto raccontarle.
73.
Stante ciò, quella di raccontarle tutto e subito era un’impossibilità che non poteva prendere nella sia pur minima considerazione. Se proprio non voleva mentire, doveva cominciare col dire una mezza verità. O magari, no, nemmeno una mezza verità. Anche meno, molto meno di mezza di verità sarebbe bastato. A ben vedere, anche un quarto di verità sarebbe stato troppo, o ancora meno di un quarto, anche un ottavo, se è per questo. Infine, che cosa importava quel che di vero ci poteva essere o non essere in quel che le diceva sul momento, se la cosa importante in quel momento non era affatto la verità, qualunque cosa fosse, ma, molto più semplicemente, riuscire a inventarsi un modo purchessia di guadagnare un po’ di tempo e di fiducia, sperando in questo modo di preparare il terreno per poter pronunciare quell’impronunciabile da cui solo poteva sperare una qualche sia pur men che improbabile liberazione?
74.
Quando dunque venne finalmente l’occasione di parlarle, lo scrittore era tormentato da tutte le incertezze che un essere umano in preda all’ansia possa vaticinare, comprese quelle connesse alla frottola che presumibilmente gli avrebbe raccontato (diciamo “presumibilmente” perché, fra le tante paure che lo tormentavano c’era anche quella di crollare sul pavimento svenuto al momento di parlare): avrebbe funzionato o non avrebbe funzionato, avrebbe saputo costruirla in modo credibile o no? Però, sul fatto che una frottola dovesse essere raccontata non aveva alcun dubbio. Anzi, quando la decisione fu finalmente presa, la soluzione gli era sembrata talmente ovvia che si domandava come mai ci avesse messo tanto tempo ad arrivarci.
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Invece, come peraltro c’era da aspettarsi, la “ovvia soluzione” si rivelò quasi subito un errore imperdonabile, ovvero come la scorciatoia che infallibilmente porta in un vicolo cieco, ovvero il trucco che illude solo l’illusionista non meno che la trappola in cui la preda inesorabilmente trascina il cacciatore. Era una cosa del genere che, sul piano pratico, doveva significare la frase di Tacito «le decisioni del fato non si possono evitare anche quando sono preannunciate», ed era questa, molto probabilmente, la ragione profonda di quell’insanabile rimorso che lo perseguitava, dell’insopportabile senso di colpa che come un cielo fattosi cappa di piombo lo opprimeva senza requie.
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Non c’era niente da fare. Non era mai stato il tipo del diplomatico o del seduttore, non era mai stato bravo a tessere reti di complimenti e lodi, a prepararsi il terreno o anche solo a tastarlo. Per di più, l’arte della pia o, comunque sia, dell’utile menzogna gli era sempre stata del tutto sconosciuta. Perciò, faceva malissimo a rimproverarsi di aver sbagliato tattica, perché non aveva affatto sbagliato tattica. Il suo sbaglio – e dunque la sua colpa – era consistita nel voler ricorrere a una tattica purchessia.
Adesso che tutto era perduto, la situazione si faceva di colpo chiara e comprensibile. Se invece di mentire spudoratamente avesse fatto quello che più o meno aveva sempre fatto nella vita, ovvero se avesse avuto il goffo e tragicomico coraggio di pronunciare l’impronunciabile (magari usando qualche po’ di prudenza!) la ballerina lo avrebbe ascoltato o, almeno, avrebbe fatto finta di ascoltarlo. Certo, difficilmente avrebbe creduto a tutto quello che lo scrittore avrebbe dovuto doverosamente dirle, e, anzi: quasi certamente non ci avrebbe creduto per nulla, anche perché, se è vero che solo i matti dicono certe cose, solo i medici dei matti possono anche solo far finta di prenderle sul serio. E lei era una ballerina di tango, per di più una ballerina di tango di successo, non un medico dei matti!
Anche un evento di questo genere, ovviamente, sarebbe stato da considerarsi una sorta di fallimento, questo è chiaro: non è che avrebbe potuto sentirsi soddisfatto. Ma alla fine, pur restando un fallimento, non era questa la migliore delle soluzioni possibili a quel dilemma insolubile, il migliore fra i finali possibili di quella storia impossibile? Lei che non gli crede, o che lo crede un pazzoide, e continua a vivere la sua vita come se niente fosse. Lui che invece, pur non ottenendo nulla di più di quel tacito addio che aveva ricevuto, sarebbe riuscito almeno a liberarsi della responsabilità di quella separazione. Che cosa mai avrebbe avuto da rimproverarsi? Lui aveva detto quel che doveva dire, cioè la verità: era lei che non gli aveva creduto, era lei che lo aveva respinto. In questo modo invece, mentendo in modo sconsiderato, ovvero dicendo una verità troppo parziale per non sconfinare inevitabilmente nella più bassa e riprovevole menzogna, quel peso oscuro e intollerabile sarebbe per sempre rimasto a gravargli in fondo all’anima, perché in questo modo – adesso lo sapeva! – quel che era successo non era successo indipendentemente dalla sua volontà. Al contrario, nel segreto del suo spirito, lui aveva voluto quel che era successo, e lo aveva voluto nel momento stesso in cui aveva deciso di agire in un modo per lui tanto innaturale da risultare moralmente intollerabile: che dubbi poteva avere ormai?
(Come per rubare senza essere colti sul fatto è necessario considerare il furto un’azione onesta, così per mentire ed essere creduti bisogna che il mentitore creda che la menzogna non sia sostanzialmente diversa dalla verità: solo in questo modo la menzogna può esser detta con quel tono calmo, intimo e sincero che rende possibile all’ascoltatore di buona volontà di prenderla per buona. E – ahimè! – lo scrittore non aveva mai creduto che la menzogna fosse la stessa cosa che la verità. Quindi aveva mentito con il tono tremebondo del colpevole che, in preda a un irrefrenabile senso di colpa, tenta di negare la propria colpa, ovvero in modo tale da non poter essere in nessun modo creduto. L’inevitabile conseguenza era stata, molto probabilmente, che lei si era sentita derisa, e forse persino insultata: chi è questo pazzoide che fa centinaia di chilometri solo per venirmi a raccontare le sue fole? Come può credere che sia tanto stupida da prenderlo sul serio?)
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«E adesso, e adesso…»
Ma via, ma via, ma siamo seri! Aveva ancora un senso una parola insensata come questa, una parola idiota e insipida come “adesso”?
No, forse non aveva proprio nessun senso, se adesso tutto quel che gli rimaneva erano quei fogli sconclusionati che si accumulavano sordamente e assurdamente nel cassetto, con il condimento di quello stralunato lavoro di ermeneutica del paleolitico che aveva cominciato quando lei era partita, che non per il fatto che il suo sito internet stesse andando abbastanza bene cessava di essere stralunato.
Proviamo a rifletterci un po’ sopra. Un non matematico, per non dire un cretino qualsiasi che, dopo qualche decennio che non vede una formula, comincia a costruire un sistema matematico che definire rivoluzionario è dire poco, o forse nulla: si è mai visto al mondo una cosa più folle? In effetti, a ridurre i nervi dello scrittore in uno stato peggio che miserevole non era solo il fatto che la ballerina era per sempre svanita: erano anche e forse soprattutto gli incredibili risultati che nel giro di pochissimo tempo aveva raggiunto con il suo lavoro di archeomatematica.
A poche settimane di distanza dalla di lei partenza da Firenze, si era reso conto che tutta l’arte e l’architettura antico egizie erano state progettate secondo un codice geometrico-matematico che era in grado di descrivere al tempo stesso la geometria dello spazio-tempo einsteniano e quella dell’atomo quantistico, che fino a quel momento erano stati giudicati logicamente incompatibili. Il che significava inesorabilmente che quel sistema matematico con cui erano state generate le proporzioni dell’arte e dell’architettura sacre Antico Egizie altro non era e altro non poteva essere che quella oramai mitica “teoria del tutto” o “teoria del campo unificato” che nell’Occidente moderno si cercava invano da decenni. Talmente invano che oramai alcuni scienziati erano arrivati al punto pensare e anche di scrivere che una tale teoria fosse da considerarsi a priori internamente contraddittoria, e dunque per principio irraggiungibile. Invece era successo questo: che in un’antichità talmente profonda da risultare inimmaginabile, dei misteriosi antenati dell’uomo moderno l’avevano scoperta, e per mezzo di essa avevano progettato e costruito tutta la loro arte ed architettura sacra. Per loro la scienza e la matematica non solo non erano il regno della laicità e del materialismo, ma invece il simbolo più possente e profondo del divino.
78.
All’inizio, il lavoro dello scrittore era stato di tipo sostanzialmente geometrico, anche perché non credeva che gli riuscisse andare più in là. Poi, in una delle tante notti insonni in cui vertigini di vorticante angoscia lo tormentavano senza sosta, fra la nebbia delle lacrime che come al solito gli confondevano la vista senza riuscire a sgorgare, dovette andare in bagno di corsa perché in quel periodo, siccome nulla funzionava bene, non funzionava bene nemmeno il suo intestino. Ingloriosamente seduto sopra il cesso, così, tanto per distrarsi, aprì un celeberrimo best seller di Graham Hancock e Robert Bauval e per puro caso lo aprì alla pagina in cui erano riportate le misure di una piastra di ferro che era stata fissata al termine di uno dei cosiddetti condotti di aereazione della Grande Piramide. Nel guardarle, ebbe la netta sensazione che quelle misure fossero proporzionate fra di loro sulla base di costanti matematiche e di costanti scientifiche assolutamente fondamentali per la visione del mondo che per solito viene considerata tipicamente “moderna”. Siccome lo scrittore era cresciuto in una cultura che gli aveva inculcato l’assoluta certezza che gli Antichi Egizi non avessero a disposizione neppure l’ombra di tali conoscenze, a dispetto di tutto il lavoro geometrico che aveva svolto quell’intuizione gli sembrò sul momento completamente folle, e dunque pensò che dovesse essere senz’altro sbagliata. Ma allora come mai la calcolatrice del telefonino dava ragione alla sua follia e non alla sua ragionevolezza? Come era possibile una cosa del genere?
Da quella notte, sia pure in mezzo a mille dubbi e a mille incertezze, cominciò un lavoro di ricerca che lo condusse a scoprire forme della matematica sempre più complesse e stupefacenti. Nel corso delle sue indagini, si rese conto fra l’altro che pi greco, un numero che col suo enigma tormentava i matematici da più di duemila anni, altro non era che una funzione fattoriale del 2 e che quindi, come il rapporto fra il lato e la diagonale di un quadrato può essere ricondotto a √2, quello fra il diametro e la circonferenza può essere ricondotto a [(2/2²)! ∙ 2]² oppure a (-2/2²)!², così che il rapporto fra il diametro di un cerchio e la sua circonferenza cerchio può essere definito come una strana funzione dell’1 e del 2 (lì per lì il tutto gli sembrò una strana versione di quelle che, quando molti anni prima aveva fatto l’università, gli avevano insegnato a chiamare “tautologie”, in questo caso del genere di quelle che, come il numero d’oro, possono essere scritte nella forma f(x) = x: però, siccome non capiva nulla di matematica, non sapeva dire se questa impressione potesse avere un fondamento, o se fosse da considerarsi un arzigogolo mentale degno di quel dilettante allo sbaraglio che di fatto era, o, meglio: che si trovava volente o nolente a dover essere)
x – (-x) = 1 = 1/2 – (-1/2) = 1/2 + 1/2 = 1
-x! : x! = 2 = (-1/2)! : (1/2)! = (-2/2²)! : (2/2²)! = √π : (√π : 2) = 2
-x!² : (x! ∙ 2)² = 1 = (-1/2)!² : [(1/2)! ∙ 2]² =
= (-2/2²)! : [(2/2²)! ∙ 2]² = π : π = 1
-x! ∙ x! ∙ 2 = (-1/2)!² ∙ (1/2)! ∙ 2 = (-2/2²)! ∙ (2/2²)! ∙ 2 =
= √π ∙ (√π : 2) = π/2 ∙ 2 = π
Alla fine, se l’equazione da cui segue il numero d’oro si può scrivere nella forma
√(x + 1) = x = ɸ
oppure in quella ancor più nota
1/(x – 1) = x = ɸ
allora quella che riguardava il pi greco la si poteva scrivere con il prodotto fattoriale, dato che
x! : (-x)! = x
e
(-x)!1/x = (-0,5)!1/0,5 = π
La soluzione era troppo semplice per poter essere vera: come era possibile che ancora nessuno se ne fosse accorto? Al mondo ci sono stati pure i Gauss, gli Eulero, gli Hilbert e tutti i loro eredi e successori: proprio un fesso di provincia come lui, che quanto alla matematica masticava solo quella delle pubblicazioni scientifiche divulgative, doveva averlo scoperto? E in quelle circostanze poi!
Ma andiamo…
Qualcuno da qualche parte doveva aver scoperto queste cose, non aveva alcun dubbio. Ma non si trattava però di scoperte popolari: dovevano essere cose talmente specialistiche che non interessavano a nessuno. Girò un po’ dappertutto su internet e non riuscì a trovare nulla sul tema, molto probabilmente perché, oltre a non capir nulla di matematica, non aveva mai imparato come si fa una ricerca on line in modo decente.
79.
Fu in quei giorni che il suo timore di impazzire, o di essere ormai diventato pazzo, raggiunse il culmine. Gli Antichi Egizi che progettavano e costruivano la loro architettura sacra per mezzo della teoria dei campi unificati e uno scrittore che non sa nulla di matematica che qualche migliaio di anni dopo lo scopre: che cosa ci può essere di più folle di una storia di questo genere? Solo quella che parla di uno scrittore che non sa nulla di matematica che, dopo aver scoperto che gli Antichi Egizi usavano la teoria dei campi unificati per progettare e costruire la loro architettura sacra, scopre anche che pi greco non è un numero trascendente, ma un numero irrazionale fra i tanti, in barba al teorema di Lindemann e al fatto che oramai da quasi un secolo i matematici davano per scontato che fosse impossibile riportare pi greco a dei numeri razionali.
No, no, no…
Questo era veramente troppo. Questa volta la realtà, nel suo tentativo di imitare l’arte, aveva decisamente passato il segno, e invece che l’arte aveva cominciato a imitare i deliri di quegli artisti che, per ispirarsi, hanno fatto ricorso ad espedienti quali Lsd, cocaina e compagnia cantante. Cercò di nuovo informazioni sul tema del prodotto fattoriale di 1/2 in relazione a pi greco, ma non riusciva a trovare altro che una nuova forma del perdere tempo in modo assolutamente inutile. Scrisse perciò un breve articolo sul tema, sperando se non altro di rendere popolare il problema fra gli appassionati di archeologia che, per qualche strano motivo, finivano sul suo sito internet.
80.
Fu così che nel giardino delle claustrofobiche angosce che tormentavano lo scrittore, che viveva oramai in un pressoché totale isolamento, cominciò a crescere anche quella che la calcolatrice del suo computer fosse guasta. Per togliersi i dubbi comprò un computer nuovo, convinto che la nuova calcolatrice avrebbe smentito tutti i calcoli che aveva fatto con l’altra. Ma, incredibilmente, anche la nuova calcolatrice ripeteva imperterrita le follie della prima. Allora, con pretesti di ogni sorta, cominciò a chiedere in prestito il computer a destra e a manca, oppure andava nei grandi magazzini e, chiedendo di vedere come funzionava, usava quella dei computer in esposizione, ma non c’era verso: anche le deduzioni più spericolate venivano inesorabilmente confermate da tutte le calcolatrici su cui in un modo o in un altro riusciva a mettere le mani. Dio mio: che tutte le calcolatrici di tutti i computer che venivano messi in commercio fossero guaste? Oppure, senza che lui se ne fosse reso conto, era diventato vittima di un qualche esperimento militare segreto, in cui delle droghe allucinogene venivano date a civili ignari per controllare se, per esempio, fossero in grado di convincerli che cretino qualsiasi potesse scoprire la teoria del campo unificato codificata nella Grande Piramide?
81.
Da quando lei se ne era andata per sempre, i suoi sogni si erano fatti ancora più criptici, misteriosamente allusivi o fin quasi mistici. I loro temi e la loro trama si confondevano con quelli di miti antichissimi, il loro svolgimento implicava viaggi in dimensioni celesti o sotterranee, la loro interpretazione poteva aver luogo solo sulla base di un qualche genere di criptografia ermetica in cui lo scrittore – che dall’età di anni undici si era convertito a un laicismo che più radicale ed estremista non si può – non aveva mai creduto, anche se in compenso aveva creduto degli squilibrati coloro i quali anche solo per scherzo facessero finta di crederci.
In molti di questi sogni lei era presente come un angelo, in altri come una sorta di presenza invisibile, in altri come un arcano che traluceva dalla diafana allusività dei simboli. Lo scrittore si svegliava ogni volta più sconcertato e sempre più convinto di star impazzendo ammesso che non fosse già impazzito. Ma poi durante il giorno, incredibilmente, i suoi progressi nella comprensione di quella forma antichissima della matematica che aveva intuito quando lei se ne era andata si facevano sempre più solidi, sempre più indubitabili. Dar torto a degli squilibrati che credono alle fole dei sogni è abbastanza facile, anche se uno di questi squilibrati era lui stesso: dar torto alla calcolatrice scientifica di windows, utilizzata in milioni o miliardi di esemplari da intellettuali laici e razionalisti di tutto il mondo era molto più difficile, anche se lo scrittore ci riusciva, pur con qualche comprensibile sforzo. In effetti, come era possibile che tutto questo non fosse un sogno, o un incubo da cui non riusciva in nessun modo a risvegliarsi?
Si, va bene, va bene, al mondo si sono viste un bel po’ di cose strane, o anche molto strane, o, come diceva sua nipote, “molto stranissime zio!”. Ma, diciamoci la verità: con tutte le cose strane o anche “molto stranissime zio!” che sono accadute al mondo, si è mai sentito parlare di uno scrittore che non sa quasi nulla di matematica, che quel poco che sa e che ha dimenticato lo ha imparato decenni prima, e che non ostante questo arriva a (credere di) scoprire che gli Antichi Egizi hanno costruito e progettato la loro arte sacra per mezzo della teoria dei campi unificati (?!), il tutto sulla base di un’ispirazione mistico-mitologica ricevuta per via onirica al momento della partenza da Firenze per non si sa bene dove di una ballerina di tango di cui, per altro verso, il genio della lampada in questione poco di più avrebbe saputo dire se non che per partire, in qualche modo, doveva essere arrivata?
No, a pensarci bene, una cosa tanto strana, ovvero una panzana meno credibile di questa non si era mai sentita, e forse per questo nessuno si era peritato di inventarla, perché le panzane, per servire a qualcosa, devono essere credute vere da qualcuno: e dove trovare al mondo qualcuno disposto a credere a una storia di questo genere?
82.
Eppure, con tutto il suo surrealistico alone di incredibilità, la panzana stava cominciando ad avere degli effetti reali di qualche genere, dato che l’indicizzazione del suo sito internet (incredibilmente appunto), col passare del tempo non solo era salita, ma aveva continuato a salire: c’era stato un mese in cui gli ingressi individuali avevano addirittura sfiorato le duemila unità. Com’è allora che lo scrittore continuava a definire il suo lavoro di ricerca “lunatico e stralunato”? Come è che non riusciva a convincersi che tutta quella storia non fosse un sogno?
Alla fine, chi andava a leggere i suoi articoli non solo doveva essere una persona realmente esistente, ma doveva anche essere una persona molto seria, un archeologo, un fisico o un matematico, non un mattoide. Dunque, se archeologi, fisici e matematici stavano prendendo sul serio il suo lavoro, perché non riusciva a prenderlo sul serio lui, proprio lui che, sia pure in mezzo ad angosce e tormenti di ogni genere, lo stava portando avanti oramai da molti mesi?
Già.
E, visto che ci siamo: perché non avrebbe potuto prenderla sul serio lei tutta quella per quanto stranissima faccenda? Se tutta questa gente seria e specializzata frequentava il suo sito internet, non era questo un buon motivo per pensare che magari anche qualcuno fra i non addetti ai lavori avrebbe potuto starlo ad ascoltare?
83.
Si, lei lo avrebbe creduto, se averla incontrata era e non poteva non essere che l’unica causa possibile, plausibile e pensabile di tutto quel che andava scoprendo! Era solo dal momento in cui l’aveva conosciuta che aveva cominciato a interessarsi a cose che in vita sua gli erano sempre rimaste più o meno indifferenti, o che aveva completamente dimenticato. Erano decenni che non studiava più matematica, e degli Antichi Egizi tutto quel che sapeva era che erano esistiti e che avevano lasciato in eredità all’uomo moderno delle piramidi, enormi quanto la loro almeno apparente insensatezza.
Ma poi, al momento in cui lei se ne era andata da Firenze, queste cose di cui non gli era mai importato nulla erano diventate il centro della sua esistenza. Nei sogni lei lo aveva accompagnato per mondi criptici, o quasi metafisici: in uno fra i più terrificanti lo aveva guidato nella sala più interna della Piramide Rossa, e lì gli aveva parlato in una lingua arcana come un geroglifico, in una lingua intraducibile che però nei sogni lui aveva compreso! Era lei ad avergli rivelato l’impensabile ora poteva esserne certo!
(Quando la teoria matematica cominciò a prendere una forma più definita, fece un sogno ce lì per lì non riuscì a capire. Da una grande distanza, vedeva sé stesso mentre vestito di bianco usciva da una immensa caverna oscura, che si apriva in corrispondenza di un’ancor più gigantesca sala da ballo di forma quadrata. Nel centro di questa sala c’era lei, che però non ballava il tango: volteggiava attorno al proprio asse con una grazia e una leggerezza talmente splendide da risultare atroci. Le mani erano sollevate in alto, come se stesse sorreggendo una grande coppa invisibile, che splendeva come un sole (le parole vennero misteriosamente pronunciate dal silenzio: ecco il Graal finalmente!).
Lo scrittore si svegliò urlando, ma solo dopo molti mesi capì il significato di quel sogno e di quel grido. Con la fine del mondo Maya (e proprio il giorno prima dello spettacolo di Parma!) era morto il quinto sole, e si era dunque alla fine di un ciclo cosmico. Con la fine di questo ciclo, l’universo si rinnovava, il primo sole di un nuovo ciclo usciva dal mondo sotterraneo, un mondo sotterraneo che nel sogno era simbolizzato dalla grotta: questo nuovo sole poteva contemplare un universo rinnovato che, come una ballerina, danzava al ritmo di quell’armonia matematica – ovvero di quel Graal dello spirito che lo scrittore, senza sapere quello che faceva, aveva tratto da un oblio durato almeno quindici secoli.)
84.
((Nel corso del suo lavoro, lo scrittore si era reso conto che in molti miti antichi o antichissimi, l’universo era visto simbolicamente come una ballerina che ruota attorno al proprio asse: in questi racconti, i volteggi della ballerina non sono altro che una metafora dell’universo intero e della terra stessa che ruotano attorno all’asse fisso e immobile dell’eclittica. E questa era una cosa che da tempo si sapeva, almeno dal tempo in cui De Santillana e Von Dechend avevano scritto “Il mulino di Amleto” (e infatti, ancora più spesso che come una ballerina, il ruotare dell’universo intorno a un asse era paragonato a quello di un mulino, o di qualcosa di simile).
Quel che invece non si sapeva, o meglio: quel che si era dimenticato è che il mito non è un mito ma verità e realtà; che l’armonia delle sfere non è il frutto dell’ingenuità e dell’arretratezza del pensiero antico, ma della sua saggezza: le forme della matematica che lo scrittore aveva scoperto e che sempre di più andava scoprendo lo dimostravano ogni giorno sempre più inesorabilmente. Alla fine, anche la leggenda di Pitagora, che nella vita precedente sarebbe stato una ballerina, non significava altro che questo: che Pitagora stesso e dunque il pensiero pitagorico altro non erano e dunque altro non sono che un’ipostasi dell’armonia delle sfere su cui si fonda e vive e sussiste l’universo.))
85.
Si, adesso finalmente ne aveva la certezza: se avesse detto la verità sarebbe stato creduto, perché quel che gli era accaduto era una cosa seria, era una cosa reale! Come poteva dubitarne adesso?
Pitagora che nelle vite precedenti fu una ballerina perché non poteva esserlo diventato ancora una volta in una delle vite successive? È vero: con ogni probabilità la ballerina non sapeva nulla del mistero di cui era stata il simbolo. Ma è davvero necessario che i simboli conoscano qualcosa del loro significato?
Dante, generando la lingua italiana usando il volgare fiorentino per scopi connessi all’alta cultura, ha al tempo stesso inconsapevolmente generato l’Italia, anche se, sul piano storico, l’Italia è nata solo sei o sette secoli dopo. Ma cambia qualcosa questo? Dante è di meno il simbolo della lingua italiana e dunque dell’Italia solo perché non sapeva di esserlo, o che lo sarebbe diventato?
Si, non poteva essere che così. Quella ballerina che solo a pochi passi da lui si avvolgeva nei vortici del tango era stata la rivelazione originaria su cui si basava il suo lavoro! Lei non era lei, ora lo sapeva: lei era i Sette Saggi, l’armonia delle sfere, Pitagora redivivo, il Graal, il mito dei miti insomma, ritornato dai mondi sotterranei a illuminare la terra! Lei non era lei: lei era un simbolo vivente in cui risuonava silenziosamente la musica che ritma i cerchi eterni in cui si avvita l’universo!
86.
Si, le cose non potevano essere andate altro che così. Oramai ne era certo, doveva esserne certo: come poteva dubitarne?
Già: come poteva dubitarne?
Eppure, anche se non poteva dubitarne, lo scrittore continuava a dubitare lo stesso, perfino quando gli capitò di essere riconosciuto per strada da della gente che di matematica e archeologia non ne sapeva nulla. Particolarmente inquietante in questo senso fu uno strano colloquio con uno studente, conosciuto per puro caso, e che con ogni evidenza di archeologia e matematica sapeva socraticamente solo di non saperne nulla. Interrompendo di colpo un colloquio che aveva preso tutt’altra direzione il ragazzo, che evidentemente si era messo a parlare con lui solo per questo scopo, gli chiese senza preamboli: ma è vero che tu sei quello che ha scoperto la matematica di Dio?
Lo scrittore, reso piuttosto sgomento dall’insorgere di una questione assai scomoda per chi come lui, anche senza bisogno di scomodare Dio, si trovava nel mezzo di una crisi di identità tanto labirintica da apparire senza uscite, non poté far altro che girare in qualche modo intorno alla domanda e assumere anche quello strano episodio come una parte, sebbene sorprendentemente realistica, della sua interminabile allucinazione. E d’altra parte, a che sarebbe servito che l’allucinazione fosse diventata parte della realtà, se oramai la ballerina non l’avrebbe vista né sentita mai più?
Tutto era inutile oramai. Lo capiva dal fatto che, anche ammesso che il suo sito internet venisse visitato da qualche centinaio di archeologi, matematici e fisici al mese, la consapevolezza della perdita irreparabile abbassava il rango di quella sua strana occupazione, che per altro verso poteva considerare senz’altro seria e impegnativa, a quello di un fallimentare tentativo di distrarsi dalla gelida fiamma di quella Caina che era diventata la sua assenza. Una fiamma che né alcol né farmaci né nient’altro riuscivano in nessun modo a temperare.
87.
Così, dopo la terribile notte di Rivoli, a dispetto della teoria del campo unificato codificata dagli Antichi Egizi nella Grande Piramide, la sua occupazione principale restò quella di prima, ovvero contare a volte i giorni, a volte le ore, a volte i minuti, a volte persino i secondi, a volte addirittura gli istanti: quanto ancora posso sopravvivere in questo stato? Quando mi verrà un collasso? Quando, semplicemente, mi accascerò a terra senza riuscire più a rialzarmi? Quando comincerò a soffocare perché da nessuna parte troverò più un minimo di volontà per respirare?
Quando?
Quando si fermerà il cuore, quando mi scoppierà la testa, quando sarà che lo stomaco e le viscere a furia di bruciare si trasformeranno in cenere, quando sarà che il fegato si trasformerà in una pozza d’acido e di fiele, quando infine questa lucida follia diventerà opaca, così che della follia finalmente non ne saprò più nulla, né del pazzo felice che finalmente sono diventato?
88.
L’orrore come una fiumana lo travolse, questo è vero. Ma, per quanto ce la mettesse tutta, incredibilmente, l’orrore non lo sommerse. In qualche modo riuscì a rimanere o, meglio: a ritornare a galla. Certo, lì per lì ritornava a galla solo per essere di nuovo sommerso, questo è vero, certamente. Ma se ogni volta e sempre di nuovo veniva sommerso, era sempre e soltanto per ritornare in qualche modo a galla.
Questo continuo salvarsi in extremis fu, in principio, una fonte ulteriore di tormento: perché non muoio subito, si ripeteva lo scrittore, perché aggiungere alla morte certa questi incerti e perciò ancor più insopportabili tormenti che, seppur destinati a terminare, sono talmente spaventosi da far pensare a un inferno interminabile?
89.
Alla lunga però, le cose andarono in modo diverso da come si aspettava. In quel periodo, a quanto pare, l’imprevisto e l’improbabile erano diventati una regola fissa, che però non cessava di sorprenderlo.
Per esempio, lo scrittore guardava la strada davanti a sé e pensava: adesso c’è una svolta a destra, ancora pochi metri a dritto e poi si spalancherà l’abisso. E invece, ogni volta, la strada svoltava a sinistra invece che a destra, e dell’abisso, sempre imminente ma mai immanente, sempre più orrendo ma mai e poi mai attuale, non si vedeva traccia. Che cosa diavolo stava succedendo? Come mai la fine della storia (storia?!?: quale storia?) con lei l’aveva azzeccata infallibilmente, mentre invece, quanto a quella della non-storia fra sé e sé stesso, le sue previsioni si rivelavano infallibilmente e inesorabilmente come delle farneticazioni?
Per fare un altro esempio, banale certo, ma che può rendere l’idea, pensare che la terra sotto i suoi piedi fosse sul punto di spalancarsi e inghiottirlo era un’altra regola fissa della sua vita quotidiana, ma anche questa veniva continuamente contraddetta dal solido suolo che, a dispetto del suo interminabile presentimento di disatro, continuava imperterrito a sostenerlo. Era ancora vivo, continuava a vivere e, se continuava a prevedere la sua imminente morte, probabilmente vivo sarebbe rimasto per ancora delle settimane, dei mesi, forse degli anni!
Sì, va bene, va bene: ma allora perché aveva questa continua sensazione di essere, come dire, sull’orlo di …? Perché queste vertigini senza caduta, perché questo terrore del vuoto senza vuoto? E intanto che così ragionava o sragionava, lo scrittore andava avanti, e intanto che andava avanti il tempo passava, inesorabilmente.
90.
Si era proprio lui: era il tempo. Senza che lì per lì potesse accorgersene, tenero, materno e paziente, il tempo aveva cominciato il suo silenzioso lavoro per curare attraverso le sue imperscrutabili vie la sua imperscrutabile ferita.
Accanto al tempo, lento e materno come il tempo, il suo gemello, l’oblio, ancora più sommesso e impercettibile del tempo cominciò a fare il suo lavoro di tarlo, tanto più umile quanto più inesorabile, tanto più sotterraneo quanto più potente ed efficace. In questo modo, cominciò a lenirsi quell’insopportabile dolore che, pur essendo insopportabile, riusciva comunque in qualche modo a sopportare. Si, va bene, ma c’era davvero da stupirsi? Non era proprio lui che da qualche parte, molti anni prima, aveva scritto che vivere è sopportare l’insopportabile, anche quanto l’insopportabile si mette per un attimo o due la maschera della felicità?
91.
Così, incredibilmente, anche per questa volta sembra che lo scrittore se la sia cavata, sia pure per un soffio, sia pure per un soffio così flebile da parere un ultimo respiro, sia pure per un nulla, un nulla così infimo da parere meno di nulla, si va bene, va bene: ma che importa? Che importa, se pur carico di lividi, di ossa rotte e di ferite, dopo l’interminabile naufragio il naufrago è riuscito infine a trascinarsi a riva, così che i lividi sono stati riassorbiti, le fratture si sono risaldate, le ferite sono diventate cicatrici? Cicatrici incancellabili, va bene, va bene. Ma che importa, se queste cicatrici incancellabili, seppure tanto brutte però fanno male solo in quel ricordo che l’oblio, lento come il tempo, continuava ancora forse per poco a concedergli?
Già, cosa importa?
Incredibilmente, come il Dante del Primo Canto della Commedia, qualche anno dopo lo scrittore avrebbe forse voluto mettersi a cantare
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
92.
Nei mesi che seguirono il giorno del settimo sigillo almeno altre tre volte, senza minimamente rendersi conto di quel che stava facendo, lo scrittore aveva tentato di ammazzarsi con il treno o con la macchina, e, in almeno un caso, a salvarlo fu un vero e proprio miracolo – o magari – chissà – sarà stato il suo angelo custode, quell’angelo custode che altro non era che il ricordo di lei, che nei sogni continuava ad accompagnarlo nei suoi viaggi nei cieli e negli inferi – o chissà dove. Però, come che sia, in qualche modo, si era salvato. Era ancora vivo! Che cosa di peggio gli poteva capitare?
(Già: che cosa gli poteva capitare?)
Beh, una cosa di peggio gli è pure capitata. Dopo circa due anni dal saluto dei saluti, a causa di problemi (come definirli? poteva definirli forse “problemi ambientali”?) talmente assurdi da parere a modo loro straordinari, se non magici o addirittura miracolosi, lo scrittore fu costretto smettere di ballare il tango, e così ad abbandonare la scuola dove aveva incontrato la ballerina. In questo modo, anche gli ultimi cimeli del suo passaggio in Toscana si vanificavano in quel nulla dove da due anni annaspava inutilmente, furiosamente, atrocemente disperato.
Adesso – ah! adesso, si, adesso proprio adesso! – non solo lei, ma anche gli oggetti che le sue mani avevano toccato, le cose che i suoi occhi avevano visto, il pavimento che i suoi passi avevano sfiorato – oh sì, ali di pura neve su pianure impercettibili di brezza! – si coprivano di quella neve sporca che aveva coperto quella deserta periferia di Torino, soffocavano in quel grigio piombo che aveva soffocato quel cielo sporco come la neve sporca – e in quel grigio oscuro, indefinito, ultimo e vago anche le sue ultime e vaghe reliquie si vanificavano per sempre, per sempre! Per sempre!!
Per sempre…
Ah, tango sozza palude di intollerabili scaglie di diamanti, ah tango d’insopportabili schiene e schiere di inebriate brine e trine irte di furie ansanti di brezze di rubini, ah tango foresta di piombo arroventato da orbite di abissali nebbie di sospiri, ah tango orizzonte triste e perenne di albe di chitarra al suo tramonto, ah tango di queste mille e mille vite, mille volte mortali e mille volte vissute non vivendo! Come poteva sperare di sopravvivere anche un giorno di più a quell’estremo lutto, ancora più di qualche istante a quell’ultimo addio?
93.
Se a questo mondo regnasse una qualche parvenza di logica, in effetti, lo scrittore, dopo aver subito quest’ennesima percossa, avrebbe dovuto stendersi a terra morto, e dunque il lettore non dovrebbe essere qui a leggere queste righe. Però anche questa volta, incredibilmente, il tempo, l’incredibile, increduto tempo, si mostrò medico e medicina che, se pur non in grado di guarire il male, fu almeno capace di addolcirne i sintomi, fino al punto di mischiarli e di confonderli con quelli di un tango triste fra i tanti che in vita sua aveva ballato, e a cui senza nemmeno troppa fatica era sopravvissuto.
Come prima cosa, dopo due anni e mezzo di tormenti inenarrabili, lo scrittore si rende conto che, in qualche modo che non sa capire come, sta cominciando (lo possiamo dire?) a stare un po’ meglio. Magari solo a tratti, e magari solo molto leggermente meglio, va bene, va bene, ma comunque sia: sta un po’ meglio. E questo “un po’ meglio” migliora fino al punto che dopo due anni e tre quarti riesce riprendere o a far finta di riprendere alcuni dei suoi vecchi hobby.
Arrivato a questo punto, lo scrittore scopre che ci sono certe volte in cui riesce nella fino ad allora impensabile impresa di dormire qualche ora senza bisogno di farmaci. Certo, cose del genere accadono con singolare parsimonia, di fatto non più di una volta al mese o una volta ogni quindici giorni: ma non aveva pensato o forse addirittura giurato che non ci sarebbe riuscito mai più?
Dopo tre anni lo scrittore scopre costernato e in preda alle ombre di un illogico ma proprio per questo umanissimo rancore (ma allora è proprio vero che nella vita nulla dura per sempre, nemmeno il dolore, nemmeno questo dolore, che tutto svanisce e che infine svanirà anche lo svanire!) di avere addirittura dei momenti di allegria, rari o rarissimi, certamente, ma che comunque promettono di tornare, sia pure le con scadenze tipiche delle vincite alla lotteria. Con non minor sgomento scopre che da qualche tempo gli capita con una certa inquietante frequenza di passare delle mezzore, o a volte anche delle ore che, pur non illuminate dal glorioso sole della felicità, risultano al tempo stesso esenti dalle ombre lunghissime e acutissime dell’angoscia. A ciò si accompagna un ulteriore miracolo, forse il più incredibile di tutti. Dopo tre anni e mezzo arrivano delle notti, per quanto rarissime, in cui il sonno gli sembra addirittura pacifico e ristoratore. Si sveglia e non si sente schiacciato dall’angoscia (ma come sono possibili delle assurdità di questo genere?).
Queste domande, sono tanto umane e normali quanto inumano è il compito di trovare una risposta. Però, intanto che se le pone, lo scrittore si distrae fino al punto che adesso ogni tanto, uscendo dalla biblioteca, gli succede di fermarsi a parlare con qualcuno che crede di conoscerlo.
94.
Dopo quattro anni infine, lo scrittore si decide finalmente a fare il grande passo, e si mette a leggere quei quaderni su cui aveva annotato quel non sapeva cosa diavolo gli fosse accaduto e che ancora, sia pure in modo più dolce e sopportabile, gli stava accadendo. Lo stile degli scritti non gli pare sulle prime qualcosa di riferibile a sé stesso, e lì per lì non li sa definire in alcun modo, anche se in alcuni punti gli fanno venire in mente il Montale più amato, quello di Satura, o del Quaderno di quattro anni. Il senso di estraneità che prova è al tempo stesso risibile e fastidioso: chi aveva scritto quella roba?
Probabilmente, non lo avrebbe mai saputo, e forse era meglio così. Chiunque fosse quel tale, se un giorno lo avesse conosciuto avrebbe dovuto confessargli che definire quei componimenti poetici o simil-poetici con il poco poetico appellativo di “roba” era un modo molto tenero e garbato per edulcorare quel che davvero pensava del delirio compositivo degli ultimi quattro anni. Poche pagine, se non poche righe, bastarono a rendersi conto che quei disgraziati testi erano una sorta di gesticolare frenetico e confuso, simile a quello di chi affogando chiede aiuto, un dibattersi a vuoto nel vuoto che non aveva avuto altro scopo che quello di aiutare quel poveraccio di sé stesso a trascinare un peso intollerabile.
No, quelle non erano poesie: nel migliore dei casi si potevano definire grida sarcastiche vomitate da un’anima stordita e/o ubriacata dall’angoscia, ovvero l’incontrollabile vaneggiamento di una persona sana di mente che recita la parte del pazzo, riuscendo in qualche modo a ingannare la follia.
95.
Ci provava in tutti i modi, questo dobbiamo dirlo. Ma, per quanto si sforzasse di essere buono con sé stesso, non poté fare a meno di constatare che non c’era praticamente un solo rigo in cui non riconosceva sconsolato degli ancor più di lui sconsolati abusi di stile, o, come anche si potrebbe dire, delle licenze poetiche prive di qualsiasi poesia. Quel poco di ispirazione che riusciva a intravedere qua e là si perdeva quasi sempre in intollerabili cacofonie ritmiche e semantiche, e se le ripetizioni fuori luogo si trovavano praticamente dappertutto, era solo per far concorrenza a fronzoli fastidiosi o addirittura riprovevoli, come anche a cadute di tono da cui sembrava impossibile rialzarsi. Molto, troppo spesso facevano capolino addirittura degli errori che gli venivano spontaneo definire di grammatica e di sintassi – sebbene, finite le elementari, si fosse immediatamente dimenticato sia l’una sia l’altra.
Ma, comunque sia, sia pure molto in fondo, gli sembrava di intravedere un fondo di verità in quella frenesia compositiva con cui aveva condito e bollito quello strano minestrone. La bellezza, no, questo era fuori discussione: quella roba che aveva messo insieme in quei quattro anni di furenti allucinazioni non aveva nulla a che fare con la bellezza, se almeno in certi punti non aveva a che fare nemmeno con la decenza. Però un fondo di verità, si, quello c’era, indubitabilmente, ed era questo che poteva e forse doveva essere conservato.
Così, decise di vagliare quelle non sapeva nemmeno lui quante centinaia di pagine di scritti e annotazioni varie, di emendarle per quanto possibile dagli errori o dall’errare che era stato lì per lì il volerle scrivere, di cancellare le date e le occasioni e di riordinare il tutto in un modo che, almeno giudicando a naso, avrebbe potuto sembrare sensato anche a qualcuno altro, oltre che a lui. Fatto questo, pubblica i versi in coda a uno degli articoli del suo sito internet, The Snefru Code (l’articolo, probabilmente, era il numero 17, la data attorno al marzo del 2016).
96.
Successivamente, passati alcuni mesi di tergiversazioni altrettanto insensate che la folle risolutezza con cui li aveva composti, ha deciso di pubblicare i suoi versi (o quel qualsiasi cosa siano o non siano) anche sull’altro sito che nel frattempo ha aperto, quel Tanghi Lontani dal quale state leggendo questa che dovrebbe essere un’introduzione. Le poesie sono più o meno le stesse che sono state già pubblicate su The Snefru Code, anche se qua e là si possono trovare dei ritocchi e qualche aggiunta rispetto alla soluzione originaria.
Per altro verso, i mesi da allora trascorsi non sono serviti a nulla, semplicemente perché non gli sono serviti a rassegnarsi a nulla.
Per esempio, lo scrittore, chissà, forse per fare onore al suo soprannome, non si è rassegnato al pensiero che quelle centinaia di scartoffie che si sono accumulate nei suoi cassetti valgono qualcosa solo come carta da riciclare. Così continua a spendere tempo, non è chiaro quanto prezioso, a correggerli e a riordinarli, sperando un giorno di pubblicarli, se non proprio tutti, almeno in larga parte.
Non si è rassegnato nemmeno a farla finita con il tango. Ogni tanto prende qualche lezione, e continua imperterrito a sognare che un giorno riprenderà a ballare, pur sapendo che non avrà mai più il coraggio di rimettere piede a una milonga.
Quanto alla ballerina, possiamo notare che il fatto di saper benissimo che nella realtà non la rivedrà mai più non è ancora e forse non sarà mai ragion sufficiente per rassegnarsi al pensiero che non la vedrà mai più. A ben vedere, questo è un fatto molto naturale. I disastri che avvengono nella realtà, per quanto devastanti, si possono cancellare semplicemente chiudendo gli occhi. Ma come sopportare l’intima persecuzione dei disastri che devastano la nostra fantasia? Con gli occhi aperti o, ancora peggio, con gli occhi chiusi, essi continuano a incendiare le viscere, a martellare sulle tempie, a sfasciare la testa, semplicemente perché essi sono le nostre viscere, le nostre tempie, la nostra testa, e dunque come è possibile liberarsene? Tanto varrebbe cercare di liberarci di noi stessi.
Così, durante il sonno lo scrittore insegue la ballerina attraverso immaginari labirinti di immagini enigmatiche, dolorose certamente (anche, dobbiamo riconoscerlo, mai veramente disperate) che i suoi sogni si ostinano ancora a fare e disfare instancabilmente, mentre di giorno si scopre a fantasticare in un modo che certe volte si fa ossessivo di incontri casuali, di coincidenze inverosimili, di eventi impensabili, di situazioni magari assolutamente improbabili ma tuttavia pur sempre vagamente possibili in cui potrà di nuovo incontrarla e, chissà, finalmente dirle quelle parole inaudite che doveva dirle, sgravandosi così di un peso che però, col passare degli anni, da insostenibile e intollerabile che era, si è fatto finalmente sopportabile – talmente sopportabile che a volte gli pare addirittura dolce.
Dolce, si, come una madre mentre canta la ninna nanna al figlio già addormentato, o come una lontana cantilena di campane tibetane alla brezza inebriata e persa nella sua stessa dolce lontananza. Ah, tango del latte e del miele, tango della dolcezza del frutto acerbo e del fiore appassito, ah tango dei ricordi e dei ricordi del tango, come sono dolci adesso le lacrime che un tempo eppur così vicino furono aceto e fiele!
97.
Come in un segreto rituale, adesso lo scrittore non prende più il treno a Campo di Marte, ma prosegue per chilometri e chilometri, verso la stazione successiva, in modo da passare davanti alla sede della sua vecchia scuola di tango, che adesso si è spostata altrove. Passa davanti alla saracinesca abbassata, contempla il cartello che propone una vendita improbabile in questi tempi di crisi, una cosa che lo consola, perché lo sa fin troppo bene che la sua vita, in qualche modo misterioso, si svolge oramai dietro quel cartello improbabile e quella saracinesca abbassata, e che dei nuovi inquilini non farebbero altro che disturbare lui e la famigliola di fantasmi con cui vive.
Mai come oggi gli paiono vere le parole di uno dei cantautori che ha amato e che ama di più, Jaques Brel
On n’oublie rien de rien
On n’oublie rien du tout
On n’oublie rien de rien
On s’habitue c’est tout
Firenze, 13 novembre 2016
COME UN’INTRODUZIONE III
Il tramonto:
i suoi rossi rosso sangue
e i suoi verdi smeraldo sulla cresta
e pastello chiaro verso il fondo,
chiaroscuri che in coro degradano
verso il viola profondo del crepuscolo
in attesa.
Io sono l’immagine delle immagini
l’informe forma delle forme
di cui mai sarà possibile
copia o imitazione.
Io sono l’altro.
Per questo taccio
devastante, devastato,
immenso,
immerso in un oceano di putride
fertilissime, caotiche parole,
segni che infinitamente mai
potranno distinguersi
dal nonsenso più vuoto,
dall’assurdo più ignorato
dal pensare più saggio e illuminato
e illimitato.
TUTTI I GIORNI
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è diventato quotidiano. L’eroe
resta lontano dallo scontro. Il debole
ormai vive interminabilmente sotto il fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza
medaglia la miserabile stella
della speranza, appuntata al cuore
con la spilla della certa e innominabile amarezza.
Viene conferita
perché non accade più nulla,
perché il rombo del fronte è ammutolito,
perché il nemico è diventato invisibile
e l’ombra dell’eterno agguato
non si distingue più dal cielo.
Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.
Ingeborg Bachmann
Parte Seconda :
UN ADDIO
« ..là ou tu n’es pas.. » I
Il tango:
gente che ride e che si abbraccia
e balla stretta poi
al ritmo di musica e testi
completamente disperati.
La vita è questa.
Non sai mai s’è meglio
incontrarsi oppure
non essersi nemmeno
mai sfiorati.
A SHAKESPEARE
Come la lumaca
l’uomo non sa perché gli sia dato
di portare lungo tutta una vita
questo guscio ingombrante
ch’è lui stesso.
Essere o non essere:
questa non è una domanda.
È il peso insopportabile
che ci portiamo appresso.
LA FINE DEL MONDO MAYA I
D’inverno fa presto
a farsi buio.
In compenso però
fuori la notte luccica
di neon multicolori:
non come nell’anima
dove ogni luce è spenta.
Allo spettacolo
ancora mancano quattro ore:
un’eternità di nulla
che non passerà mai, lo so, ascoltando
le chiacchiere inascoltabili
della stanza accanto,
o guardando il soffitto lassù,
immobile e fastidioso
sopra il letto.
Questo e altri demoni
mi scacceranno.
Il ronzio del silenzio,
che dopo ore e ore di silenzio,
a malapena si distingue
dal mal di testa,
i brusii indefiniti,
il rimbombare dei passi
e delle voci disperse nei corridoi di huis clos
e huis clos tutti inesorabilmente uguali,
inesorabilmente infernali,
il quasi tedio quasi provinciale di quest’hotel
quasi di lusso che,
non contento forse della sua quasi sartriana diabolicità,
prova pure a fare il verso a un labirinto
ma non inganna nessuno.
Gli echi di lavandini e water nemmeno alla lontana
somigliano ai mugghi di un Minotauro
per quanto irreale o addirittura inesistente,
andarsene è fin troppo semplice
e nessuna Arianna perciò
verrà mai a salvarmi:
a leggere non riesco
e di guardare la televisione
non è nemmeno il caso di parlare.
Come un Cristo che un Pilato inutile
ha liberato dal Calvario
esco e cammino,
in una via crucis
che non conoscerà stazioni:
qui come altrove
non ho un posto dove andare
e ogni girare d’angolo
è un tirare i dadi
per vincere ancora altri dadi
da tirare.
Sprofondato nel bavero,
come in un baratro,
cammino svelto per scaldarmi
ma non serve a nulla: il corpo
oramai non è altro
che il gelo insopportabile
della tua partenza.
Parma tutt’intorno
sembra un utero sterile,
come di vecchia.
Le donne che passano mi paiono
tutte un po’ brutte e storte.
Gli uomini invece
mi sembrano barbari urlanti che per un giorno,
forse per farmi un dispetto, parlano sottovoce,
con un dialetto gentile e sorridente,
dicendo qualcosa che senz’altro mi riguarda
ma che però
non vogliono farmi udire.
Quelle persone anziane, quasi sfericamente obese,
quelle gioiellerie pacchiane,
quelle vetrine tutte uguali,
le pasticcerie dove si pigiano pasticcini e gente
che parla di qualcosa,
quei neri che mostrano chincaglierie inutili
per non dire che chiedono elemosina,
fottuti in questo gelo che in Africa forse
nemmeno nei frigoriferi riuscivano a trovare:
tutto è normale qui,
proprio come se stessi camminando
sulla luna.
Sorpreso,
come preso alle spalle
penso che il tuo spettacolo
sarà probabilmente l’ultima volta
che potrò vederti.
Un addio idiota
a te come a me stesso:
poi il baratro del tuo
e del mio non essere
e poi
non so.
Così di colpo
mi scopro a piangere,
a piangere a dirotto
come si dice che a volte
un pazzo rida:
lacrime che non ha più nessun senso
mostrare né nascondere
immerso negli echi di un pensiero
che oramai da un’eternità
come un inferno mi tormenta.
E così piango, piango,
e piango però:
un passante
che parla da solo e piange
anche per me sarebbe un fatto strano.
Chissà che pensa di me questa persona che si volta,
chissà che penserei io di me
se mi vedessi,
e chissà poi
che cosa me ne importa!
Nessuno da queste parti mi conosce.
Voltato l’angolo
nessuno mi ricorderà.
Forse si nota un passante che parla da solo e piange,
chissà, forse qualcuno si rivolge al compagno o all’amico dicendo
“lo hai visto quel tale che parlava da solo e che piangeva?”
Ma poi si continua a parlare di qualcosa, o di nulla,
non importa,
e di chi parla e piange da solo
ci si scorda.
IL TUO TANGO I
Il tuo tango
onda fra le onde
brezza fra le brezze,
tedio e lentezza,
tempesta fluente,
ridere di festa.
L’andare instancabilmente stanco,
il ritmo oscuro del bandoleon,
i cieli acuti e strazianti del violino
la troppo stretta cartina dell’Europa,
il vortice di vertigini,
l’immobile viaggiare dell’ebbrezza,
l’oceano valicato,
l’orizzonte perenne da cui sorge,
con il sole accecante,
cieca la nostalgia d’Altrove:
ah se la tua leggerezza ti salvasse!
Non sarebbe patito invano quest’addio
per cui morto e ancora morto mi vorrei
e ti vorrei,
mio amore, mia ferita,
che sanguini inutilmente,
se ogni destino infine s’assomiglia,
s’assottiglia,
se l’universo intero altro non è
che una rinchiusa stanza,
se non dura la gioia
più che il gioioso fulmine,
il culmine furioso
della danza.
PARIGI (DOPO DI TE)
Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesse, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.
A. Rimbaud
Strade larghe come piazze,
piazze smisurate come il deserto
eppure piene di gente che va e viene. Parole
colte al volo qua e là,
fra i rumori del mondo e di “tout le monde”,
in una lingua nel cui suono echeggia continuamente
un nome: Arthur Rimbaud.
Poi:
musei che erigono un mistico, fantastico e proteiforme labirinto,
cattedrali ebbre di simboli che sfidano l’abisso,
lontani orizzonti normanni d’acciaio, di torri e cavalcate,
le barricate, gli incendi, le canzoni, le grida interminabili
della Rivoluzione, Napoleone, la Senna che scorre
lenta e veloce come il tempo e poi…
Poi?
Poi
tante, troppe, quasi infinite cose,
che nella memoria confusa e sterminata sfuggono
come luci scagliate via da un treno in corsa:
le nazioni, le esplorazioni, le colonie, gli imperi,
i popoli, i populismi, l’individuo, gli individualismi
la tecnica, la scienza, il progresso, la repubblica,
le democrazie, la Prima Guerra Mondiale,
il dopoguerra, il comunismo, il fascismo,
l’esistenza, l’esistenzialismo, la crisi del ’29, il nazismo,
un’altra Guerra Mondiale ancora,
ancora un altro dopoguerra,
la ricostruzione, la guerra fredda,
lo sviluppo, il Maggio,
i giovani del Maggio,
il flusso e il riflusso
e poi…
…poi…
Poi
perché lottare
per ricordare qualcos’altro
ancora?
Qui
puoi trovare davvero di tutto
e dappertutto
così che non c’è mai niente infine
da cercare.
* *
Lontana
la Tour Eiffel si sfuma
come dietro una finestra
su cui il fiato taciturno allarga un velo:
sono le lacrime al pensiero
che per anni e anni
proprio tu
hai visto questo cielo.
TEMPO FA
Tempo fa ho letto in un libro di storia medievale che
per un certo periodo fu interdetto ai condannati a morte
anche il cristiano conforto di preti e sacramenti.
Narra chi scrisse quel libro, un uomo celebre e a quanto pare
molto ben informato,
che una volta il boia accompagnando alla forca un condannato
pietosamente volle sostituirsi all’officiante,
e mentre col morituro saliva gli ardui gradini verso il cappio
gli sussurrava di pensare intensamente all’anima sua,
di chiedere perdono e di pentirsi, assicurandolo che in questo modo
sarebbe come minimo scampato dal cadere
nel fondo della pentola.
Di paradiso non era sul momento il caso di parlare
ma la misericordia di Dio lo avrebbe infine perdonato
dopo qualche anno di doverosa penitenza sul coperchio.
Pare che questo condannato fosse un assassino.
Il fratello dell’assassinato, assistendo alla pietosa scena,
si incendiò di rabbia,
pensando con disperata malizia e molto probabilmente con ragione,
che a suo fratello il manigoldo non aveva affatto suggerito
di pensare intensamente all’anima sua
mentre gli si appressava furtivo per scannarlo.
Un prete non c’era di certo a consigliarli i sacramenti,
ed è probabile così che la morte l’avesse sorpreso
con pensieri assai perigliosi in giro per la testa,
di quelli che è bene evitare
se si ha da presentarsi nel giro di qualche minuto
all’altro mondo.
Dunque chissà, forse l’anima del suo amato congiunto
bruciava in quel momento nel purgatorio o forse addirittura nell’inferno,
così che dopo al danno pure la beffa si sarebbe aggiunta:
che l’assassino arrivi in paradiso
prima dell’assassinato, e tutto questo proprio a causa delle cure
di cui di lui ci si prende una volta scoperto il suo sopruso
è un sopruso ancora peggiore del sopruso!
Quest’uomo inferocito si precipitò allora su boia e condannato
e a furia di grida e bastonate pare riuscisse a dissuaderli
da una per lui tanto beffarda occupazione.
Quel che successe al boia non viene raccontato,
mentre del condannato si dice che cadendo dalla scala
si ruppe una gamba, ma che pure in queste tristi condizioni
fu poi costretto a salire verso il cappio,
ancorché zoppicante e urlando di dolore:
ci si domanda se così conciato
si sarà ricordato della carità del boia,
tanto amorevole da sussurrargli all’orecchio
di aver cura dell’anima nell’ultimo suo istante
col pensarci.
Questo episodio mi ha colpito.
Una religione
che fa del perdono, della pietà e dell’amore universali il suo ideale
rifiuta poi per programma agli assassini quel perdono
che proprio il suo Dio esemplarmente concesse sulla Croce
al disgraziato crocifisso accanto: cosa fu questa,
stupidità, ipocrisia, una strana interpretazione
che trasforma l’estrema pietà nel suo contrario,
fu follia, stravaganza, caso oppure tutte queste cose insieme?
Vedi un boia che mettendo il cappio al collo si preoccupa almeno
della salute dell’anima dell’accalappiato,
mentre qualche papa e qualche sovrano santo, ben vivi e vegeti,
rifiutano per istituto i sacramenti in nome di quel Dio
che più morto che vivo li istituì con l’ultimo sospiro:
non si capisce come gente del genere
per secoli possa esser stata sul pulpito a predicare
esattamente il contrario di quello che faceva
senza che nessuno, presumibilmente nemmeno i predicatori,
si accorgesse di quel che stesse succedendo.
Forse non me ne accorgo neanch’io.
Il mondo è un posto strano.
Chi può dire cosa avrei fatto se fossi nato allora,
se sarei stato l’assassino, il morto ammazzato o suo fratello,
oppure uno di quei papi o di quei sovrani santi
che proibirono per istituto ai morituri i sacramenti
in nome di Dio, del perdono e dell’Amore Universale.
Fossi vissuto allora, nulla mi apparirebbe come mi appare,
grazia e dannazione sarebbero, diciamo così,
tutto un altro paio di maniche.
Mi resta probabilmente una certezza.
Che se fossi stato io l’assassino,
mentre il boia gentilmente mi pregava di pensare
all’anima mia che stava per partire
non avrei saputo pensare a nulla più
che non è chiaro affatto come chi non è mai vissuto
possa in qualsiasi modo risolversi a morire.
IL TUO TANGO II
Il tuo tango
ultimo sfuggire in eco
di cosmico e abbandonato
grido e rito di abbandono,
simbolo che a sé stesso
ed in sé stesso stringe,
che si avvolge e si svolge
giù, nelle viscere,
galassia immensa eppure persa
nell’infinità che neppure
sappiamo di non riuscire
a immaginare.
Ricordare il tuo corpo
avvinto e come incinto della danza
mi fa male come un tempo
mi ha fatto male guardarlo
e mi ferisce
come un tempo mi ha ferito
l’abbracciarlo.
L’estasi la riconosci
solo perché al suo cospetto la parola
arrossisce,
trema,
e si fa muta.
La trovi
solo se e quando la provi
sai che è già perduta.
DIALOGO I
«Io non riesco a capire perché dobbiamo
portare avanti questa conversazione. Non mi ricordo più
nemmeno perché l’abbiamo iniziata.
Di che cosa parlavamo prima, come è che ci siamo
messi a parlare di tango? Come che sia,
è inutile che ne parliamo, è meglio
se torniamo a parlare di quello di cui
parlavamo prima, magari passiamo il resto
della serata con un po’ di costrutto.
Tu insisti a dire: ma che cosa c’entra? Ebbene
io ti posso rispondere soltanto
quel che ti ho risposto prima, ovvero che il tango,
in qualche modo, c’entra sempre. Se proprio vuoi,
di dico una cazzata, una cosa che non penso,
cioè che hai ragione tu e la finiamo qui.
Ma tanto tu lo sai come la penso:
il tango in qualche modo
c’entra sempre.
«E perché?
«Perché ballare non significa ballare,
te l’ho detto. Il tango non è come tutti gli altri balli.
Se vuoi, posso cambiare metafora,
se vuoi te ne invento mille,
ma la sostanza non cambia.
Come posso dire? Quando balli il tango
ballare non significa ballare:
significa cercare
qualcuno che ti sta cercando.
«Beh, e allora?
«E allora… tu per caso
hai mai fatto qualcosa di diverso nella vita?
In tutta la vita voglio dire? E hai mai trovato
un qualcosa che lo possa esprimere,
come dire, con un certo grado di perfezione?
No, io penso di no. Io penso che non l’hai affatto
trovato. Ridi pure quanto vuoi. Però ricordati
che stai ridendo di te stesso.
Tu sei un professionista stimato e pagato,
però fra i tuoi clienti che ti vengono a cercare
hai mai trovato o anche solo sperato di trovare
qualcuno che tu stavi cercando? No, non lo hai mai
trovato, né lo potrai mai trovare. Eppure il tuo è
un lavoro serio. Il tango è un passatempo,
nessuno di stima o ti paga perché lo fai,
però lì puoi cercare qualcuno che ti sta cercando:
tu conosci un altro modo, un altro fine possibile,
per quella ricerca che infine è
tutta la vita umana?
PARIGI II (PRIMA DI TE)
Moi qui tremblais, sentant geindre à cinquante lieues
Le rut des Béhémots et les Maelstroms épais,
Fileur éternel des immobilités bleues,
Je regrette l’Europe aux anciens parapets !
A. Rimbaud
Il
cielo….
Il cielo come
cieco,
come
in eco…
Quel cielo
lontano,
andato via
e così…
…perso,
come disperso
nel deserto di pietra
avita,
senza vita
dell’inverno.
Un sorriso intristito,
impaurito
solca l’aria tetra.
Rigida,
rattrappita
nella carezza gelida
del vento,
la fronte china
sotto quel cielo basso,
in quella pioggia lenta,
troppo lenta,
troppo fine
per poterla chiamar pioggia
e troppo spessa
per poter credere vero quel portento
– sentirsi perduto nella nebbia –
in cui eppure follemente crede.
Labili schegge
di sabbia oscura: ecco
la dura Senna
dove come gabbiani all’orizzonte
si perdono
le voci e i palpiti
dei bianchi vaporetti,
che straripano di gente
che gli pare allegra.
Passeggia lentamente
carezzando dolcemente
i parapetti.
Immerso nel segreto
del suo interno silenzio,
immenso,
non ode i rumori:
dappertutto c’è gente
e non vede nessuno.
Distratto da ricordi che non sa di avere
l’adolescente timido balbetta frasi dal significato incerto
in quella lingua nasale che l’infante iniziò forse a imparare
e che l’adulto finirà poi per dimenticare
quasi del tutto.
I marmi impassibili,
Notre Dame
impossibile.
Un volto che sa di non conoscere
e che pure crede di riconoscere
svanisce dietro un angolo,
mentre come in preda alla febbre percorre
i vasti labirinti del Louvre,
dove alla fine ogni corridoio
si biforca in epoche perdute, simboli incomprensibili,
dèi e fedi surreali,
abissi di eventi e tempo che si sciolgono
poi
fra i labirinti del traffico, fra le strade gigantesche
di cui quasi non riesce ad immaginarsi
l’immane traversata,
gli occhi sperduti sulla vetrina oscurata in cui
il suo vano riflesso scruta quello
ancor più vano,
ancor più inumano
della Tour Eiffel
che si arrampica verso quel cielo
oramai così
lontano e così….
….così perso,
come disperso
nel deserto di pietra
avita,
senza vita
dell’inverno.
Una stagione all’inferno
finiva
un’altra ne iniziava
interminabilmente.
Fumavo Gauloises, bevevo cognac,
credevo di cercare un altro Altrove
– disperatamente –
e invece come un eroe
stanco e di un altro evo
stavo tornando a casa
e non lo sapevo.
INFANTILISMO
Anni ormai dal nostro incontro
ma da allor ti porto appresso
se il tuo volto più che il mondo
canta e ride nell’adesso
se il ricordo più che l’oggi
è reale, vivo e spesso.
Fu quel giorno, lo confesso,
bello e brutto al tempo istesso.
DICONO..
Dicono che l’amore
sia uno dei tanti pretesti per
poi nessuno sa dire che.
Forse per vivere,
o, chissà, forse per andare avanti,
anche se, finito com’è il mondo
in un botto di silenzio più assordante di quello
che non sente un sordo,
nessuno sa più che sia la vita o il vivere,
né se l’andare avanti significhi pur qualcosa:
nello spazio di Cartesio
come in quello di Einstein
non vi sono direzioni né progressi,
e né principi o fini,
se il tempo invece va avanti sempre e solo
in preda al suo noioso e interminabile finire.
Comunque sia l’amore,
anche quello che provavo per te,
se era solo un pretesto
non era più che questo:
dunque non era amore
era solo (e tu eri solo)
la sua finzione, il suo abbaglio,
il suo delirio,
la sua vana immagine riflessa da uno specchio
che come un bimbo rideva
senza sapere che stava
riflettendo.
LA LANTERNA
Cercare Dio
è un’attività ancora più indispensabile
che impensabile e spossante
se Dio non c’è
(a quanto pare)
altro che nel cercarlo.
Instancabilmente dunque
dobbiamo correre
avanti e indietro,
indietro e avanti
senza sapere dove o come andiamo
senza sapere mai nemmeno
– pur ansimanti e ciechi di sudore –
se siamo noi che ci muoviamo
oppure è il paesaggio che
– noi immobili –
corre via e via
chissà come
chissà dove
chissà da quando…
Come che sia,
ogni tanto ci fermiamo per riprendere fiato
e lo chiamiamo
urlando.
“Dio mio, Dio mio!”
“Dio mio, Dio mio!”
Siccome per nostra costituzione
siamo sempre vicini
a una qualche valle vuota
il grido che si leva
“Dio mio, Dio mio!”
ci torna come un’eco lontana
“…iiiioooo…iiiooooo….
…iiiiooooooo…..!”
NEL NULLA
Tu esisti,
certamente.
Ma ora non ci sei più
anche ammesso
che davvero sei mai stata:
essere ed esistere,
quale indicibile,
invincibile abisso
vi divide?
Non so rispondere.
Tutto quel che so è che adesso
c’è un qualcuno che amo
che quasi ogni giorno
si trova in un nome diverso
di questa cartina dell’Europa
che il computer gentilmente mi offre a gratis:
Googlemaps senz’altro
è un grande aiuto
per chi anche stando seduto
non può fare a meno di cercarti,
però anche così un problema resta:
nel nulla non si vede nulla
e in tanta nebbia
è inutile zumare.
IL VUOTO A PERDERE
La poesia è un’attività di difficile definizione,
in specie se si incappa nello strano destino
di arrivare per qualche ancor più strano motivo
a praticarla.
A volte, come altri fecero con la politica,
viene spontaneo definirla un lavoro che non stanca,
oppure un ozio che non riposa,
anche se oggi non manca chi la definirebbe
un’industria che non inquina
o almeno
che non inquina troppo.
Comunque sia, ben presto ci si accorge
che, contrariamente a politica e impresa,
la poesia è attività da considerarsi a priori
totalmente o quasi totalmente infruttifera,
ovvero un produrre in perdita,
se si eccettuano alcuni improbabili e fugaci
istanti di gloria che, se si è fortunati,
durano qualche millennio o poco più,
un battito di ciglia
se confrontato con quell’eternità cui il poeta
è condannato ad aspirare
un po’ come il cittadino medio
è condannato ad aspirare i gas di scarico
della sua beneamata città.
Quanto la beffa sia perfetta e totale
lo si comprende però solo nel momento in cui
– pur anche loro in bilico
su quest’istante più sottile di un capello che,
chissà perché, chiamiamo “storia” –
critici dotti o dottissimi riescono
mirabilmente o quasi miracolosamente
a fraintendere in modo
totale o pressoché tale
quel che per grazia o disgrazia
il poeta aveva o credeva
di aver da dire.
Per altro verso,
tolta la beffa e le risate annesse,
il poeta deve stare attento anche a sognar la notte
di poterci con i suoi amati versi un giorno
ancorché lontano guadagnar qualcosa,
perché – si sa – gli dèi sono invidiosi,
anche se non è dato di capire di che cosa.
L’ANGE
Quand le monde sera réduit en un seul bois noir pour nos quatre yeux étonnés, – en une plage pour deux enfants fidèles, – en une maison musicale pour notre claire sympathie, – je vous trouverai.
Qu’il n’y ait ici-bas qu’un vieillard seul, calme et beau, entouré d’un luxe inouï, et je suis à vos genoux.
Que j’aie réalisé tous vos souvenirs, – que je sois celle qui sais vous garrotter, – je vous étoufferai.
Arthur Rimbaud
Lontano…
Così
lontano..
Così lontano eppure
anche dal buio d’una stanza chiusa
poterti guardare negli occhi
vicino,
assolutamente intimo
e invisibile
come uno specchio.
Poterti seguire
lungo le vie dei taxi,
uguali
come un labirinto,
nell’immensità degli aeroporti,
uguali
come un deserto,
fra i volti delle sale d’attesa,
uguali
come fantasmi
o come gocce di pioggia
che cadono nell’acqua.
Le tabelle degli orari,
in cui il tempo tutti i giorni si sporge,
accenna un saluto
e poi va via
irreale
come un anno intero
nelle note di un’agenda
o nei numeri d’un calendario.
La prima o la seconda classe,
il benvenuto,
i saluti, gli inchini,
le presentazioni,
il bagno quotidiano
di gente nuova,
di folla,
e di sorrisi.
I sorrisi:
la garbata,
delicata,
beneucata farsa
ti insegue e ti aspetta
dappertutto,
e ti assale, ti assilla,
ti tormenta
di più ancora dei complimenti,
delle congratulazioni,
dei rallegramenti
e delle ovazioni:
non c’è un solo sogno ormai
che non si risvegli
nel tuonare delle acclamazioni,
degli applausi a scena aperta,
preceduti, seguiti e accompagnati
dai lampi ininterrotti
dei sorrisi,
luce devastata e livida,
mare di piatta e interminabile tempesta
di cui tutti i giorni c’è da fare
l’odiosa traversata
che approda infine
in un mattino amaro.
È stato tanto difficile impararlo
quanto è impossibile spiegarlo
a chi non l’abbia già imparato.
Chi non si ferma mai
da nessuna parte
è condannato ai sorrisi
come l’esiliato all’esilio,
e chi non l’ha mai provato
per sempre ne resterà stupito
e incredulo:
nessuno
ha mai niente da rimproverare
a chi viene soltanto perché
qualcuno l’ha chiamato
soltanto perché qualcuno
l’ha pagato.
Perché mostrare il volto
della dura verità,
del duro amore quotidiano
a chi non sa che sia portare
il peso invisibile del tempo,
a chi
come una nube leggera
arriva con il vento
che va non si sa dove?
* *
Lontano…
Così
lontano…
* *
Così lontano
eppure
sapere a cosa pensi
quando non pensi a niente.
* *
Lontano…
Così
lontano…
Eppure
sapere quel che cerchi
di là da quell’orizzonte chiuso,
di quel tramonto rosso di vergogna
perché un altro giorno è passato,
immobile
come quel cielo profondo,
senza fondo,
dalla finestra del tuo aereo,
il tuo nido
la tua fortezza,
che non atterra mai,
che si dirige
da nessuna parte.
* *
Da nessuna parte,
si…
Da nessuna parte
o…
….lontano…
Così lontano…
* *
Lontano,
si,
lontano
come un cieco:
eppure vedere le valige
aprirsi, disfarsi,
vomitare vestiti,
poi divorati dalla lavatrice,
dai cassetti,
poi divorati e vomitati ancora
da quelle valigie insaziabili,
interminabilmente:
interminabilmente
assaporare il dolore assopito
dietro la maschera dell’attrice
che inganna tutti
meno che sé stessa,
così lontana ormai
perfino da te stessa.
Così lontana
che nemmeno posso più pronunciare
il tuo nome, così caro,
eppure averti qui
continuamente,
inutilmente perduta,
se vederti
così lontano eppure,
come un cieco,
lo sai,
è la mia vana,
umana sorte,
è la mia vana,
strana morte,
è la mia vita quotidiana.
Così,
inevitabilmente piangerti,
inevitabilmente rimpiangerti
con lacrime che scivolano oramai
svogliate,
distratte,
senza più alcun gusto
né disgusto.
* *
Infine
sapere che tutti
siamo come tutti.
Vedere che il nostro male eterno,
materno
è questo tempo infermo,
è questo carnevale
che se non è morto,
tu lo sai,
è solo perché
è mortale.
Anche noi,
anche gli angeli
siamo fatti di quella cenere vana,
strana,
e troppo umana
delle sigarette che fumiamo,
che nei pertugi e negli angoli si fonde
con la polvere cosmica,
con la fatica comica
del cameriere che ogni mattino
passa fedele a spolverare
se l’hotel vuol conservare il suo buon nome,
se guardare un letto disfatto
mi ricorda la tua foto
non so come.
LA VEGLIA
Il tango.
Il tango in fiamme.
Il tango uragano di sospiri e di galassie,
vortice di abbagli, di sudori, di bonacce,
fiume infestato della puttana e dell’innamorato,
coro dei cieli acuti e soverchianti
della terra da sempre promessa che si avvita
intorno all’immobile centro
della sua stella polare oscurata
da una nube di fango, di luna e di falene.
Il tango.
Il tango incredulo incendio
di nostalgia e frumento.
Il tango pianura disseccata,
orizzonte senza orizzonti,
amato, armato abisso dei tuoi occhi
percorsi da un vento di sogni e di faville
lontananza perduta fra perdute lontananze,
nomi impronunciabili fra speranze sorde
di un mondo fatto di parole
che non saprei dire.
Il tango…
Il tango fissità di sguardo,
languore di carne bestemmiata,
di alcol tracannato
fra sguardi e scricchiolii sospetti,
strisciante amore,
sepolto e nitido rancore,
odore di grasso bruciato,
di sughero antico,
brezza salata nella sera
ansiosa di violino e di coltelli.
Il tango, si, il tuo tango…
Il tuo tango…
Ah, nostalgia dell’esilio impossibile,
ah, desiderio del desiderio,
ah, cadavere perennemente risorto
delle mie notti insonni!
Dove sei, dimmi,
dove sei?
Sei qui infine
a torturare la memoria
con un Gardel travestito da Pierrot
che piange e si addolora del dolore,
che lamentosamente si lamenta del lamento,
e che può morire
solo se muore la nostalgia
di cui sta morendo
interminabilmente,
con un Piazzolla di cenere in tempesta
che esplora gli spazi cosmici
appeso alla boheme della sua fisarmonica
di vento fresco di risate mentre afferra con artigli
di aquila scolpita nella pioggia
una cometa di furia e di abbandoni,
sorvolando un Pugliese che emerge
e che ancora poi sprofonda
in un oceanico coro di lentezze
aspre di fumo, di grida e ancora
di risate!
Non più sognare,
certamente.
Ma interrompere il sogno è impossibile
se è impossibile dormire.
Ah, se la morte per sempre svegliandomi
mi ridonasse all’infinita consolazione
di un infinito abbraccio!
NEL DUBBIO
Pare che l’attesa dia un senso al tempo
perché istituisce un punto nel futuro
che da compimento al presente
che trascorrerebbe altrimenti
del tutto inutile,
di vuoto in vuoto,
di dolore in dolore.
Cosa o chi aspetto io dunque,
che non aspetto più nulla né nessuno,
che parlo solo a me stesso
non credendo più nemmeno che esista
questo mio forse un tempo così intimo e paziente
interlocutore?
Nel dubbio
continuo a parlare.
Non è che poi tanto di meglio
abbia da fare.
PARE UNA BARZELLETTA
Il tango,
come tutte le vere passioni,
non ha ricette che lo rendano inevitabile:
gli ingredienti di cui si costituisce
variano come variano quelle alchemiche cotture
e quei cuochi oscuri e misteriosi
che lo cucinano ballando e ancora
poi ballando,
e dunque l’unica cosa del tango
che si può prevedere con certezza
è che il momento e le circostanze in cui accadrà
risulteranno assolutamente impreviste
perché per loro costituzione
assolutamente imprevedibili.
Ciò fa sì che il tango,
come tutti i miracoli e le grazie ricevute,
si riceva molto di rado
per quanto spesso lo si balli e dunque
per quanto intensamente si preghi
o addirittura si implori
il suo accadere.
Quando poi il miracolo accade
e la grazia infine si riceve,
tutti quei pochi che l’hanno ricevuta
si rendono conto a loro spese,
che per solito non si tratta di una guarigione
ma di una malattia inguaribile o quasi:
una malattia fatta di nostalgie indefinibili,
di malinconie incomunicabili e rabbie inconciliabili
e dunque di fantasmi o comunque sia
di immagini intangibili e dunque inattingibili,
come anche di insoddisfazioni ineluttabili,
di notti insonni, demoni o comunque sia
di volti senza volto,
o con un volto che alla fine
o addirittura a volte per principio
risulta inafferrabile e dunque già da sempre
destinato al fuggire o allo sfuggire
(la differenza infine
non è molta).
Io per me una tale malattia
l’ultima volta che l’ho presa e persa
è stato in una misconosciuta sala
di una Mantova che fuori di quella sala e di quella malattia
appare nella memoria coperta di stracci e grigia
come uno squarcio di periferia
persa nella notte gelida, uguale e squallida,
talmente uguale a tutte le notti e a tutte le periferie
gelide, uguali di questo mondo squallido
che è come se non fosse mai esistita.
Pare una barzelletta, lo so,
ma da un paio d’anni questo ricordo,
che confina e a volte sconfina nell’oblio
e di sé stesso e di me e di tutto quanto il mondo,
è più o meno quel che resta
di ciò che un tempo chiamavo
“la mia vita”:
ci vorrà dunque un altro miracolo
un’altra grazia ricevuta
e dunque per forza di cose
un altro tango
perché quella di Mantova
non sia così la morte di una morte
l’agonia di un’agonia
fatta e finita?
DIALOGO II
«Se c’è una cosa che non ho mai potuto capire
e tantomeno sopportare sono le discussioni
che iniziano per non finire. Visto che su questo tema
non siamo d’accordo, potremmo metterci d’accordo
per parlare di qualche altra cosa, in cui alla fine
possiamo raggiungere un accordo.
Che senso ha che tu stai lì con quel sorrisetto ironico
e io sto qui a ripeterti inutilmente quello che penso?
«Adesso mi sembra che stai esagerando. Lo sai
benissimo che questo è il mio modo di fare,
non è che ti sto prendendo in giro.
Magari, questo devo riconoscerlo io
ma dovresti riconoscerlo anche tu:
il fatto è che stasera sta succedendo
qualcosa di nuovo ovvero, che tu stai dicendo cose
che non ci si aspetterebbero mai
da una persona come te e io sto reagendo
in modo un po’ diverso dal solito. È tutto qui,
non è che ti sto prendendo in giro.
«Va bene, se non mi stai prendendo in giro
allora ti ripeto ancora come la penso
e se ti va ridi pure fino a domattina. Il tango,
in qualche modo, c’entra sempre. Se adesso vogliamo
cambiare argomento e parlare di qualcosa
su cui andiamo passabilmente d’accordo
oppure su cui possiamo condividere un qualche genere
– diciamo così – di disaccordo costruttivo
io sono qui. Non è che sono offeso
e me ne vado via. Solo, per favore,
cambiamo argomento.
«Va bene, va bene, non ti arrabbiare.
Però a me viene da ridere non tanto e non solo
per quello che stai dicendo, ma più che altro perché
stai parlando in questi termini mistico-metafisici
di una cosa che a me non sembra un granché.
Tu lo sai benissimo, l’ho provato anch’io il tango,
pochissime volte, va bene, questo è vero,
comunque sia l’ho provato
e non mi sono mai divertito, o, almeno:
non mi sono mai divertito più di tanto.
Il fatto è che col tango
tutto dipende dalla persona con cui balli
e nulla o quasi dipende da te
(o almeno a me è sembrato così)
Nel posto dove sono andato io, in pratica,
nessuno sapeva ballare in modo decente, maestri a parte.
Quelle due o tre volte che sono andato a una milonga
ho trovato gente con cui, se un divertimento c’è stato,
è stato quello di passare il tempo a evitare pestoni
e la gente che veniva addosso da tutte le parti.
«Si, si, ti capisco e, in un certo senso, anch’io sono portato a dire
cose di questo genere. Perché in genere le cose
vanno proprio in codesto modo, e, anzi, per dirtela tutta
a me è successo anche di molto peggio.
Però, vedi, a differenza di te,
io ho ballato un po’ più a lungo, e, alla fine, mi è successo
un po’ come ai Blues Brothers. A un certo punto,
sia pure in modo forse un po’ comico,
sia pure in modo completamente surreale e incredibile
ho visto la luce. Sembra una panzana, lo so.
Come è possibile una cosa del genere,
se il più delle volte, per non dire quasi sempre,
vai a ballare e trovi gente impacciata,
che sta lì forse perché non ha trovato nulla di meglio da fare,
che prima dei quaranta o cinquant’anni non ha mai ballato
e che dunque non ha la più pallida idea di che cosa
voglia dire tenere il tempo, che non ha la preparazione fisica,
che magari ti tratta pure male perché pensa che se sbaglia
sia solo colpa tua, o cose di questo genere.
Però vedi, un anno di rotture di coglioni,
di noia, di sfiducia, e poi, alla fine, vedi la luce.
«Ma che vuol dire, che vedi la luce?
È tutta la sera che giriamo attorno a questi concetti che,
se mi permetti, sono un po’ fumosi e inafferrabili.
«Che vuol dire, che vuol dire…
vuol dire che se lo chiedi
non l’hai mai vista.
«Mi sembra una risposta, come dire,
vagamente evasiva.
«A me sembra evasiva la domanda.
Pretendere qualcosa di preciso in questioni
che riguardano l’estetica, e dunque, in ultima analisi,
lo spirito, è altrettanto logico che stabilire il peso
della frutta moltiplicando il numero delle pere
per quello delle mele. Tu che sei sempre lì
ad ascoltare Bach, provati a spiegare in che consista
la bellezza di una fuga, dell’aria sulla quarta corda
o di quello che ti pare. Non ci riuscirai mai.
Lo spirito sfugge a questo genere di logica,
e se lo affronti con questo tipo di metodo
e di pretese, è meglio che fai qualsiasi altra cosa.
«Beh, in effetti anche Pascal parlava
di esprit de finesse e esprit géométrique,
ma non si riferiva al tango…
«Beh, suppongo che non si riferisse al tango
perché ai suoi tempi ancora non esisteva.
Se fosse esistito
si sarebbe riferito anche a quello.
NEL RICORDO
Ebbra della luce più accecante
nella nera e rossastra, atra fiamma del tango,
lievissima fra le più lievi delle sue faville
la tua immagine tracima e mi trascina
per tempeste di vuoto e angoscia e pentimenti
di cui non so vedere altra fine
che l’impensabile cessare del pensiero.
Con tragica inettitudine di clown
che sul suo piede inciampa,
il mio amore per te,
per le curve alate dei tuoi fianchi,
dei tuoi giri,
in un baratro di altezze mi consuma,
così che oramai più non potrò
riveder fra le sue amate stelle
quel cielo fondo
che esiste solo
contemplandolo dal basso.
Per chi lo abita invece
non si distingue in alcun modo
da alcun altro abisso.
LE TUE VALIGIE
La tua leggerezza, le tue valigie, il tuo partire, come li invidio!
E so di essere pazzo. Perché l’invidia
è sempre una cosa da pazzi.
Forse solo l’aria,
l’acqua e il pane
è tutto quel che c’è da invidiare
a questo mondo,
e il resto
– tutto il resto –
sono fole al vento.
Lo so benissimo questo,
e lo ripeto.
Eppure
ti invidio lo stesso.
La tua leggerezza, le tue valigie, il tuo partire,
come li ammiro!
Li vedo andare sulla superficie inutile del tempo
come un magico pesce volante
che vagamente rimbalza sulle onde,
da te benedette ora qui, ora là,
poi chissà dove!
Non riesco a credere o a pensare
che siano quelle lì le tue catene,
la tua zavorra, il tuo tormento,
il tuo destinato esilio da te stessa,
come lo è per me stesso il rimanere qui,
dove non sono.
TEODICEA
Nessuno può credere veramente
che il Paradiso Terrestre
sia mai esistito.
Qualsiasi teologia si adotti
alla fine non si può fare a meno di concludere
che se la vita fosse fatta per godere
ci sarebbe un comandamento
che proibisce di nascere.
A BORGES
L’amore non esiste:
dunque anche questo dolore che mi ammazza
neppure quello esiste
sebbene la sua inesistenza, devo dire,
non lo renda meno orrendo
di quegli altri dolori,
quelli veri intendo,
che invece di certo esistono
perché tutti sono d’accordo
quanto a questo.
Anzi.
Debbo dire che l’inesistenza dell’amore
rende i suoi dolori,
le sue luci,
i suoi colori,
ancora più orridi e accecanti
se come sostenne tante volte Borges
l’irrealtà è uno degli attributi fondamentali
con cui l’inferno insiste.
Soffrire per amore dunque non è altro
che soffrire e soffrire e poi ancora
soffrire perché l’amore infine
non esiste?
DIALOGO III
«Magari mi sbaglio, ma, almeno a quel che ho capito
da quel che mi è riuscito di leggere sul tema
(chissà forse altrove si esprime in modo differente),
Borges vedeva Gardel come fumo negli occhi
o peggio ancora, se mi passi il termine, come un cactus
dove non batte mai il sole.
A dire che lo giudicava come un traditore
dello spirito originario del tango
si addolcisce un bel po’ la situazione.
Secondo me, Borges vedeva Gardel e gente del suo stile,
tipi come Contursi diciamo, come una sorta
di piagnucoloni impenitenti, o peggio,
come degli ipocriti matricolati
pronti a far leva sul sentimentalismo più degenere e spericolato
per trascinare al piagnucolio e alla nostalgia da due lire
un pubblico di smidollati: il tutto in cambio
di fama e successo, e nulla più.
Si rifiuta a priori di considerarlo un erede, per quanto indegno,
di un passato glorioso, o come il frutto di un’evoluzione estetica,
per quanto decadentista ed estemporanea, o, se vuoi,
un’elaborazione lacrimevolmente intellettualistica
di una gioventù splendidamente rozza e selvaggia.
Sembra invece che lo considerasse proprio
come il becchino di quella che lui forse avrebbe chiamato
la verità del tango. Curioso. Borges è, ti posso dire,
il mio scrittore preferito, eppure, io che non ascolto il tango,
quando lo ascolto, ascolto sempre i tanghi di Gardel.
Vedere che il mio scrittore preferito ha dei gusti musicali
che sono in pratica l’opposto dei miei, almeno in questo caso,
mi fa impressione, mi sembra una cosa incredibile,
o perfino assurda: a me Gardel piace, sarà
anche un piagnucolone, ma quando ascolto il tango,
ascolto quasi sempre i suoi pezzi.
Certo, mi rendo conto che Borges ascoltava
quei testi in modo diverso da come li ascolto io.
Lui era argentino, ed era nato giusto a Palermo,
il quartiere del tango, e dunque conosceva
perfettamente il gergo anche gestuale dei tangueri.
Io invece sono uno che crede di sapere lo spagnolo,
e che magari sa davvero lo spagnolo, ma che non riesce
a calarsi fino in fondo in quello spagnolo lì,
così che credo di capire quel che sento dire
e invece non ne capisco nulla.
Chissà, magari io credo di apprezzare delle cose che,
se sapessi la lingua come la sapeva Borges,
disprezzerei anche più di lui.
Questi sono i paradossi che mi piace definire
“dell’esser nato e cresciuto altrove”:
quello che credo un apprezzamento
a causa di distanze spaziali e temporali
o di altro genere, è soltanto
un fraintendimento, chissà..
«Si, ho letto anch’io quelle cose di Borges,
che se non insulta Gardel lo fa non tanto perché
non ne abbia voglia, ma perché non vuole
abbassarsi al suo livello. Anche a me i suoi giudizi
fanno un po’ impressione, anche se, devo dire, come musicisti,
mi piacciono di più Pugliese, Piazzolla,
e, in generale, roba molto più moderna di Gardel.
Ma, vedi, secondo me Borges lo odia non tanto per dei
motivi estetici “oggettivi”, ma perché, in generale,
odia qualsiasi genere di forma artistica,
letteraria o musicale o quello che sia non importa,
che faccia o sembri fare, diciamo così,
spietatamente leva sulla pietà. Lui considera la pietà
come una sorta di grand guignol del sentimentalismo.
La melensaggine lo inorridiva, la considerava
un peccato estetico assolutamente imperdonabile,
e questo perché, con ogni probabilità, lui stesso
ne era ammalato in modo grave. Quando metteva gli occhi
su qualsiasi frase potesse aver un’atmosfera anche solo
minimamente melò, si irrigidiva all’istante,
a volte persino si infuriava, perché, con ogni probabilità,
qualsiasi argomento melenso gli ricordava
la parte di sé stesso che detestava di più
(per dirtela tutta, a me sembra che Borges
diceva di odiare la melensaggine per non dire
che odiava l’omosessualità e dunque l’omosessuale
che poteva vedere in sé stesso).
Perfino nell’opera di Evaristo Carriego,
va a frugare fino a che non trova un qualcosa del genere
da rimproverargli, al punto che si ha l’impressione
che sia contento ogni volta che trova un bruscolo
nell’occhio di altri scrittori, così almeno ha l’occasione
di levarsi la trave dal suo (mi sembra che in un componimento,
che probabilmente non è nemmeno dei più importanti,
Carriego parli con toni lacrimevoli, e, secondo Borges,
scialbi ed emotivamente ricattatori,
di una donna anziana, una zia, o qualcosa del genere
morta sola e malata nel suo quartiere: ma è un episodio
talmente isolato che non si capisce perché Borges
perda tempo a criticarlo).
Borges aveva un grande intuito critico, però non sono certo
che in questo caso avesse ragione di accusare Gardel
di eccesso di sentimentalismo. Mi domando invece se il machismo
e la quasi pornografia degli inizi del tango non fossero altro
che melensaggine e sentimentalismo mascherati,
ovvero, in un certo senso,
quella che potremmo definire l’altra faccia di Gardel.
«Questa è una cosa che penso anch’io.
Molto spesso una durezza ostentata non è altro
che una protezione, a volte anche piuttosto ingenua,
di una tenerezza infantile delusa e disperata.
Chissà, forse quei compositori delle origini,
quella gente che ha scritto roba come “Siete pulgadas”
erano teneramente innamorati di quelle prostitute
che a parole o magari, diciamo così,
anche coi fatti trattavano come pezzi di carne
più o meno quanto Gardel lo era dei suoi pianti e dei suoi lamenti.
Anzi, sono convinto che scavando magari un bel po’,
probabilmente si scoprirebbe che dietro
quella che Borges definisce melensaggine
troveresti in Gardel una durezza verso gli altri e verso sé stesso
che forse i suoi antenati che giravano perennemente
con la mano sul manico del coltello
in fondo non avevano.
«Va beh, comunque sia anche a me alcuni dei suoi tanghi
mi piacciono davvero. Sai, alla fine,
un cantante che parla di sentimenti è costretto
a essere sentimentale, perché anche se lui magari
è un cinico, uno che usa la pietà, diciamo così,
a fini di estorsione, i sentimenti, non c’è niente da fare,
quando ci sono, sono sentimentali.
Se li esprimi in modo equilibrato,
se li controlli, li elabori, li raffini, alla fine
fai grande arte magari,
ma non dici nulla di reale.
Un innamorato deluso, secondo me,
se deve descrivere quel che prova,
diciamo così, con la massima sincerità,
si sente maggiormente incline a usare il tono
di un Gardel o di un Contursi
che quello di Neruda.
«Già, non mi ricordo dove l’ho letto,
ma da qualche parte devo averlo letto,
che la grande poesia, per esser pienamente vera,
deve per forza di cose fare a meno
di essere pienamente sincera.
«Eh si. Un innamorato
che non si lascia andare ai singhiozzi
che non usa la pietà a fini di estorsione
scriverà pure delle grandi poesie,
ma non sarà mai
pienamente sincero.
LA BIBBIA DEGLI OTTIMISTI
C’è sempre qualcuno felice
anche dove tutti
o quasi tutti
sono tristi.
Anche le “tenebre esterne”
là dove sarà “pianto e stridore di denti”
pur essendo l’inferno per gli altri
c’è da pensare che saranno il paradiso
dei dentisti.
A CAPRONI
Qualcuno ha scritto
“Fa freddo nella storia”.
Volgendosi alla geografia però
non è che le cose
vadano poi molto meglio.
Dovunque tu vada
resti sempre qui:
qualunque meta tu possa figurarti
la noia ti aspetta già da sempre col cartello in mano
se non c’è impiegato più efficiente
di una migliore compagnia di viaggio.
Fuori dal finestrino piovoso
un orizzonte come al solito
ineffabile e nefando
minaccia anche così speranze inesistenti,
mentre mi ricordo che l’esistenza
è un possibile attributo del divino
e che il mondo e l’uomo ne sono dunque
esclusi per principio.
LA CECITÁ
La cecità è forse l’unica cosa nuova
che l’amore consenta di vedere.
Non dura a lungo.
Poi la vista torna
e con quella l’incipiente miopia
per cui non vivendo eppure
si continua a vivere
prendendo per corpo in carne e ossa
una teoria.
Non c’è stata cosa più bella al mondo
di quando, cieco come ero,
ti guardavo ridere.
LA FINE DEL MONDO MAYA II
Quando dopo lo spettacolo
sono passato a salutarti
mi hai sorriso sorpresa e mi hai abbracciato forte:
“Ma allora sei venuto!”
Questo significa che,
almeno in un certo senso,
pur non preannunciato da alcuna profezia
per qualche strano motivo mi aspettavi:
ma poi giustamente non mi hai chiesto cosa facevo lì,
né come stavo,
e la cosa si poteva ben capire:
era tardi, anzi, tardissimo,
tu eri stanca e sudata, cosa veniva a fare fin lassù
questo fantasma
a salutarti a quell’ora
e in quelle circostanze improponibili?
Chi è tanto pazzo da fare centinaia e centinaia di chilometri
per dire “auguri, ciao” per poi subito dopo,
volente o nolente, togliere il disturbo?
Ahimè: in certe situazioni
le spiegazioni che si dovrebbero dare
risultano infine ancora più incomprensibili
delle circostanze che si vorrebbero spiegare:
dunque, che senso poteva avere a quel punto
mettersi a spiegarle?
Quella congiura d’inspiegabili ritardi,
di paure inconfessabili,
di angosce peggio che sepolcrali,
di cose non dette non per impaccio o timidezza,
ma perché indicibili,
quell’incredibile coincidere in beffarda trama
di fatalità casuali o destinate dalle Parche
(chi può dirlo?)
non erano colpa mia,
se non c’è colpa
ove non c’è intenzione: ciò fa sì
che non fosse una colpa
nemmeno il tuo non capire.
Ma allora con chi prendersela, col fato, col fiato,
col destino, l’intestino, o con che altro?
Così ecco i sorrisi ed altri vuoti a perdere,
un po’ di significativo imbarazzo
(altre persone erano presenti,
di te e di me forse ancora più sgomente),
qualche frase che non mi ricordo cosa
(“i Maya ieri sera ci hanno dato buca”
è l’unico inciso che mi è rimasto in mente
perché senza saperlo avevi torto:
il mondo era finito, questo è chiaro,
ma la tua ignoranza dell’avvenuto cataclisma
era più che giustificata
dal fatto che della fine del mondo
nemmeno il mondo
era riuscito a accorgersi)
poi un arrivederci frettoloso e anche freddoloso,
una cosa comprensibile anche questa,
data la stagione.
Così, celebrato il rituale stantio ma inevitabile
dell’ultima fatale incomprensione,
me ne sono andato, con strette nella strozza
quelle parole che forse
non avrei mai dovuto nemmeno
desiderare di tacerti:
“Vedi, tu pensi che ci siamo conosciuti per caso,
ma non è così: io, sia pure in modo molto strano,
ti conoscevo da anni e,
in un certo senso, perfino ti aspettavo.
Sai, non dormivo più la notte, non sapevo più che fare,
era come se fossi perennemente alla finestra e.. ”
(o forse era meglio cominciare con
“Tu non lo ricordi ma..”?)
Ma niente.
Ora non sono completamente impazzito
perché i pazzi della loro pazzia non sanno nulla
ed io, siccome ne so qualcosa, sono sano.
Né, per altro verso, mi sento di affermare
d’essere completamente disperato,
perché nessuna ferita s’apre mai davvero
se il pungolo per quanto acuto non affonda
assieme a qualche po’ di ottusa e stupidissima speranza.
Però, finalmente, posso restar certo
almeno di una cosa:
che ben presto sarò meno di nulla anche per te,
dopo che per me stesso
in anni e anni di insistenza
non sono riuscito a sfiorare
mai, nemmeno per sbaglio,
nemmeno per abbaglio
una per quanto vaga inconsistenza.
IL TUO TANGO III
La gelosia:
perché non mi colpisce,
perché non mi rapisce,
perché
non mi tradisce?
Ti vedo come foglia solitaria,
abbandonata,
unica,
mentre ti avviti nei vortici
di un vento invisibile,
insensibile,
di una musica fatta del più abissale
e armonico vortice
di silenzi
che mai a questo mondo
si sia udito.
Dunque
se qualcuno di certo ti stringe
e ti porta
mentre balli
io non lo vedo.
La sala è grande e piena
eppure
è come vuota
se tu la riempi di un centro ubiquo
che ovunque la sommerge
di armonie.
La coreografia così
non conosce difetto
ed per questo che la gente infine
applaude
si alza in piedi
grida il tuo nome
ed per questo che io
non posso mai sentirla.
No,
non c’è nessuno attorno
e se ti guardo
è come se tu fossi ormai
sola con Dio
se nel guardarti in te si perde
quello che un tempo
si chiamava “io”.
DALLA CRISI DEL 2008 IN POI
Il mondo è pieno di disoccupati
che sono troppo occupati
a preoccuparsi di occuparsi
per fare qualsiasi altra cosa
che protestare contro la disoccupazione.
In effetti, tutti sappiamo che dovremmo
far qualcosa, un qualcosa che sia chiama
probabilmente “lavorare”: ma che si nasconda
dietro questo enigmatico verbo
nessuno lo sa dire.
Quindi stiamo tutti qui a gridare
“Vogliamo occupazione!”
e questo si capisce
perché per avere quel che non si ha
(e che naturalmente non si sa che sia)
da che mondo è mondo
ci è sempre voluta
la rivoluzione.
LA FOLLIA
La follia mi ha sempre sfiorato
eppure ancora
non mi afferra.
Ammassa truppe ai confini
minaccia sfracelli
ma non dichiara veramente
mai la Guerra.
Arretra di un passo
ogni volta che l’affronto
e un passo per volta così,
se lascia in pace me,
ha già occupato
tutto il pianeta Terra.
SENZA VOCE
Vorrei urlare il tuo nome
fino a scarnificarlo
ma non posso.
Anche questa
come tutte le parole
è già ridotta all’osso.
LA PARALISI
Guardo da più di un’ora la tua foto
e non riesco a far altro che a non riuscire
in nessun modo a piangere:
anche le lacrime rinunciano al disturbo
di scender per le gote a inumidire il colletto inamidato
dopo che con dovizia di particolari gli hai spiegato
che non c’è felicità che duri più a lungo
del piangerla perché mai avuta
o rimpiangerla perché oramai perduta:
dunque, nemmeno l’amarti per tutta la vita
– e a morte! –
sarebbe durato più di quanto dura lo stupore
nel contemplare con l’anima di piombo
un volo di farfalla.
Dentro di me lo so,
che comunque e in ogni caso
ti avrei tradita,
come ugualmente mi e ti tradisco
se sta per crollare la diga
e corro a mettere il dito nella falla,
se imploro il diluvio universale
mentre intanto mi arrangio
per restare a galla.
LOQUELA
«Terrore e felicità, amore e morte
regnano incontrastati a quanto pare
tanto al giornale che al telegiornale,
ma anche nella realtà
non è che facciano sentire più di tanto
la loro assenza.
Quanto ad amore e felicità
non se ne vede un granché in giro,
questo è vero.
Però che dire di terrore e morte?
Conditi magari da un bel po’ di noia,
si trovano ad abundantiam anche nella vita di tutti i giorni.
È solo che, se fanno capolino fuori dallo schermo,
sia esso televisivo o cartaceo, non importa,
si ha la tendenza, chissà perché,
a voltar la testa e a parlar d’altro.
A quanto pare cimiteri e ospedali,
quando non facciano da location a qualche fiction,
paiono a tutti delle mete turistiche assai poco amene,
di cui dimenticare il prima e il più a lungo possibile
l’insopportabile e insostenibile esistenza.
Il vuoto che tutti i giorni incombe
basta già da solo ad allietare la vacanza. »
Ragionavo così,
dopo esser stato catturato un momento
dalle disgrazie patinate di un’edicola
a cui non compro mai niente
per poi mettermi un poco a passeggiare
cazzeggiando fra me e me per rilassarmi
da un non so che
che mi rende nervoso
forse solo perché
non ho mai saputo
dir che sia.
Ora però – ahimè –
è giunto il fatale momento di rientrare:
ma devo stare calmo, calmo,
e continuare a comportarmi
come se il Niente non fosse.
Se, come quel tizio del quadro di Munch,
mi metto a urlare
mi trasformo di colpo in personaggio
col rischio di trascinare nel baratro
anche questa povera realtà
ch’è tutta quanta uno schermo
(o uno scherno?)
e non lo sa.
UNA VOLTA
ero progressista.
Ma poi mi sono accorto
che il progresso
non esiste.
Sarei pronto
per diventar conservatore
se solo mi riuscisse di trovare
qualcosa da conservare.
DA UNA LETTERA NON SPEDITA
Una certa M.lle de Lespinasse scrisse a un tale
che ovviamente non conosco, una lettera in cui lo informava
di un fatto che a quel che pare per lei era davvero molto importante:
“Vi amo come si deve, nella disperazione”.
Anch’io ti amo come si deve – ohibò – nella disperazione,
ma, chissà perché, mi sembra
che questa mia disperazione sia più perfetta
di quella di questa signorina, dato che lei almeno
una lettera di questo tono l’ha potuta pur scrivere
al suo amato, mentre io a te posso solo scrivere lettere
che non ti spedirò mai, compresa questa.
Non conosco il tuo nuovo indirizzo e così
il mio amarti, come si deve, nella disperazione,
mi rimarrà nel gozzo intero e totalmente,
senza nemmeno la consolazione non è più chiaro
se magra, ridicola o completamente
idiota di scriverne a chi non vuol saperne nulla.
Per il resto, posso dirti soltanto che da queste parti
il tempo passa sempre più svelto e inutile
e di te non ho altra notizia se non che non ti vedrò
mai più, il che alla fine è tutto quel che posso dirti
anche di me, pur restando nel dubbio che la cosa davvero
mi interessi.
ODE A GLORIA E MEMORIA DI LUI STESSO
La gioventù, tempo dedicato dalla Natura
leopardiana o leopardata che sia
al sogno, gli slanci, gli amori e le illusioni,
nel suo impetuoso e tumultuoso muoverci all’Azione,
che si risolve di solito in giorni non più memorabili
di quello in cui fummo centrati da una cacca di piccione,
ci spinge forzatamente a credere molte cose stupide,
che la vergogna di tutta una vita poi
non basterà a scontare. Una di queste
è che letteratura e vita siano separate
da un solco la cui profondità supera di gran lunga
quella d’un abisso (niente popò di meno
e anzi: tanta ma proprio tanta
popò di più!).
Si pensa in quei verdi anni,
quando la più consunta fra le mummie appare
come sole novissimo, di vita orgoglioso e rigoglioso,
che, ove la vita sia affare molto serio,
fatta com’è di lotta e carne e sangue,
realtà realissima di gioia,
di noia e di dolore,
vera saggezza, vera follia,
autentica viltà e certissimo valore,
prosa e poesia siano invece un vano passatempo
fatto di inchiostro vano
e ancor più vana vanità di chiacchiera:
come prender sul serio quei raggiri da mago di provincia
tanto maldestri che ci si domanda
come anche un cieco ci possa mai cascare?
Chi, se non un paralitico su una carrozzella guasta
può resistere immobile più di minuti cinque
a quelle dramme indegne d’un teatro parrocchiale,
un vero insulto al tedio, se cose tanto innocue
qualcosa o qualcuno potessero insultare?
Quale capolavoro, mi si dica, non si riduce infine
a futilità artefatte tanto per cominciare,
a una trama riciclata da un trovarobe di quartiere,
a un finale fin dal titolo
risaputo, risolto,
e consumato?
La maturità consiste poi
nel veder chiaro e tondo,
e per di più senza bisogno alcuno
di occhiali e di compasso,
quanto ogni essere umano che si abbia avuta
la grazia, la disgrazia ma più che altro
la beata indifferenza di incontrare,
altro non sia che una banale e insipida variazione
d’un qualche stracco cliché letterario,
la mal riuscita messa in scena
d’un qualche risaputo canovaccio.
L’eroe possente, il ricco, il povero,
il popolo comune, la noia quotidiana,
l’amore, l’amante, il matrimonio,
il vescovo, il moralista, l’immoralista, il professore,
il politico cinico o idealista (o in fondo tutte e due le cose insieme),
la disperazione, la speranza, quel poco d’una gioia
ch’è memoria già nell’istante in cui pur afferrata scorre,
l’infanzia del poeta o del villano,
il laureato ricco, lo studente povero,
nulla di quanto hai visto in tutta la tua vita
nulla di quanto ti resta da vedere
risulterà infine altrettanto vero e reale della polvere
che i libri ricopre e i loro personaggi,
che pur quando poco o pochissimo riusciti
ben più vivi del vivere rimangono.
Vergognoso e pentito
ti trascini adesso per mal frequentate librerie,
per biblioteche amiche si,
ma quasi soltanto del ragno e della tela,
o fra le bancarelle d’un mercato delle pulci
tra le robuste costole di gloriosi tomi
che usati furono – se furono – solo per foglia di fico
alla bianca nudità delle pareti,
apri a caso un volume scritto
da non sai chi
e non sai perché né come,
e fra pagine abbandonate perfino dai topi e dalle tarme
scopri ch’eppure non c’è frase
che più reale e duratura del mondo che fai finta
d’aver dintorno non ti appaia.
Le Idee sono eternità
e perciò somma realtà,
via, verità, e vita,
certezza di forma e dunque pura luce
giammai commista ai nebbiosi e sterili meandri
cui costringono, noi uomini finti, il tempo e la materia.
L’uom che vivo si crede
altro non è che simulacro
copia sbiadita e dunque
personaggio: come poteva aver torto Platone
che da più di duemila anni si legge e si traduce?
Contrito e ravveduto,
hai scoperto infine da quale eterno archetipo
quel tipo grigio e stanco
che ogni mattino ti scruta perplesso dallo specchio
in qualche modo misterioso sia sortito:
tu sei di quelli scrivono libri che non pubblicano,
lettere che non spediscono
e che anche così – ahimè – nessuno legge,
di quelli che pronunciano
frasi che nascondono soltanto
che nulla di nascosto
mai e giammai si tace.
MEMORIABILIA
Si parla da più di un secolo oramai
di tramonto dell’Occidente
di morte della nostra cultura,
questo è vero, ma gli eventi culturali a quanto pare
restano pur sempre
accadimenti di un rilevante peso economico e sociale
per quanto la cultura in sé e per sé
da almeno un paio di decenni
non si prenda più il disturbo,
non diciamo di morire,
ma di nemmeno far finta di esser mai esistita,
se si eccettuano alcuni pur notevoli testi
e alcune ancor più notevoli pitture
che ancora si possono trovare
nei bagni pubblici o in altri luoghi affini.
Che cos’è un evento culturale?
Un evento culturale è una sala in affitto
situata da qualche parte in un qualche centro storico
di una qualche città che un tempo fu,
e proprio dal punto di vista culturale, ci si intende,
molto importante.
Per solito prima dell’evento,
questa sala o complesso di sale che sia
è bene illuminata, meticolosamente pulita e
rigorosamente vuota e bianca: ce la si immagina bene
pensando a come deve apparire un ospedale
senza malati, senza dottori e privo di ogni sorta di mobilio.
A destra entrando, oppure a sinistra se è per questo,
il fatto non è, politicamente parlando, molto importante,
c’è per solito un banco monumentale per la receptionista
che di volta in volta l’artista di turno
affitterà insieme con la sala
per accogliere i visitatori
affittati a volte anche quelli,
non si sa mai.
Il vuoto della sala dura, beato lui,
finché l’affittato evento
non accade.
Quando infine dopo una settimana o dopo un mese
o magari dopo un anno accada
(anche questo non è fatto che abbia poi
tutta quella rilevanza che si dice)
è oramai regola fissa che al succinto mobilio
di cui sopra si diceva venga aggiunto
anche un tavolo con tartine e con bevande varie
che costituiscono quasi sempre
il profondo motivo per cui i visitatori,
quelli non in affitto, questo è logico,
si recano all’evento culturale:
la crisi morde dal 2008, lo sappiamo tutti,
e se non si dà un morso gratis alla tartina dell’evento,
a chi altri mai lo si potrà più dare?
La suddetta sala o complesso di sale
prima dell’evento e delle sue tartine,
oltre a esser quasi del tutto vuota,
ha anche la piuttosto inverosimile caratteristica
d’esser silenziosa. Chi abbia l’avventura di addentrarsi
entro i meandri di un tal impensabile miracolo
– una sala silenziosa in pieno centro:
chi può esser la causa di un fatto similmente inusitato
Gesù Cristo che tenta di nuovo di salvare il mondo? –
anche solo per questo
non vorrebbe per nessun motivo uscirne:
ma anche questo
come tutti i miracoli
è un accadimento che miracoloso appare
solo perché
singolarmente raro
e passeggero.
Poi però l’evento culturale infine si rende manifesto,
angelo dell’apocalisse accompagnato
da amplificatori e musica a tutto volume annessa,
provvidenziale tempesta che,
oltre a far tremare e fremere e vetri e muri e polsi e timpani
e tutto quanto in qualsivoglia modo possa tremare o fremere
rende praticamente impossibile
qualsiasi genere di conversazione
come anche qualsiasi riflessione
che non riguardi direttamente o indirettamente
il mal di testa acuto
che la musica dell’apocalisse
come al solito
sta inesorabilmente provocando.
Il ruolo dell’immancabile frastuono,
che oramai ci accompagna
in ogni frangente o catarifrangente che sia
della nostra cosiddetta vita quotidiana
come molte altre cose a questo mondo,
non è chiaro.
Resta però il fatto che oramai
non c’è un solo ristorante, una sola palestra,
un solo negozio, un solo giardino, un solo supermercato,
un solo pub, un solo stadio, un solo bar,
come anche un solo cesso in tutto l’Occidente
che non sia ammorbato da un coro incessante
di radio, tv, I-pod, I-pad, e ogni altra sorta
di ammennicoli elettronici amplificati
come a un concerto dei Pink Floyd o dei Rolling Stones.
Nel caso dell’evento culturale
il gran baccano si ritaglia però un ruolo assai importante,
e anche molto razionale, dobbiamo riconoscerlo,
giacché aiuta a far finta di ascoltare quel che il vicino,
gridando come un invasato per superare per qualche istante
il frastuono ancor più di lui invasato di batterie e chitarre
si sta sforzando di dire o di fingere di aver da dire
sui capodopera con cui l’artista
si sforza invano di far concorrenza alle tartine.
I quadri o le sculture infatti
sono laggiù
appesi ai muri bianco-vuoto
e dai muri stessi a volte
molto difficilmente distinguibili:
vedi qualcuno fra gli eroici invitati affittati o meno
che eroicamente staziona davanti ai capodopera
del genio rivoluzionario e/o maledetto che sia
di cui si celebra il debutto o debrutto o quel che è,
anche se certe volte si tratta addirittura
di un sospirato ritorno se non proprio dell’attesa conferma,
ma gli sguardi dei contemplanti
non paiono mai davvero concentrati,
e il motivo lo si capisce fin troppo bene:
oramai nel Catalogo dei Cataloghi
degli eventi culturali del nostro beneamato secolo
si è da tempo superata la quattordicimilionesima
o quattordicimiliardesima casella
o giù di lì: i geni rivoluzionari e/o maledetti oramai,
e dunque anche le rivoluzioni e le maledizioni,
proprio come i vip, gli attori e i cantanti di successo,
sono una folla nella folla, una fila nella fila,
un ingorgo nell’ingorgo
e distinguerne uno da un altro
è impresa tanto ardua e tanto utile
che distinguere un barattolo di pelati nazionale
da uno d’importazione. Se poi un capodopera del genio
di turno dopo attenta analisi lo distingui
da un’etichetta dei barattoli suddetti
o dalla pubblicità di un assorbente per signora
vuol dire che sei un critico di grido oppure
un cuoco o un ginecologo
molto esperto.
Comunque sia
terminata la contemplazione dei capodopera
appesi o in equilibrio precario sui palchetti
ed esauriti i paragoni del genio
rivoluzionario e/o maledetto in questione
con la folla nella folla che lo ha preceduto
come anche con la ressa nella ressa che lo seguirà senz’altro,
operazione questa che più di minuti cinque non richiede,
la maggior parte dei visitatori
sviluppa un’impellente bisogno di uscir fuori a fumare.
Intanto che fumano e sbevazzano
e gli echi dell’indimenticabile evento culturale
che ha appena avuto luogo si disperdono più lesti per fortuna
dei fumi delle sigarette, del mal di testa e dei giramenti annessi,
scopri che gli stacanovisti dell’arte moderna, incredibilmente,
già sono impegnati a parlare dell’evento successivo
che da qualche parte del mondo in qualche modo
e per qualche motivo ancor più ignoto
del milite ignoto seppellito a Roma
si prepara.
Il tutto ha l’apparenza di uno sforzo inutile,
dobbiamo riconoscerlo,
di una messa in scena che non fa ridere né piangere nessuno,
d’un farneticare o d’un parlare a vanvera,
come anche d’un modo vile di ammazzare
i tempi morti e sepolti in cui viviamo,
questo è vero, ma solo all’occhio inesperto
di chi di arte moderna,
come capita spesso con gli idraulici,
non ne capisca un tubo.
Al contrario, il vero esperto di cultura e dunque
di eventi culturali
nota che il movimento culturale
che con l’evento culturale si è prodotto
ha mosso a sua volta il prodotto interno lordo
in modo molto più significativo o almeno
molto meno lordo
che un banale picnic
o un aperitivo di quelli
che trovi ad abundantiam ad ogni girar di cantonata.
Si è affittata una sala costosa o costosissima,
acceso luci che nemmeno
per una festa nazionale o una riunione del G 8,
mangiato e forse anche digerito tartine d’alto bordo,
bevuto spumante, nazionale va bene,
ma di qualità certificata: e come negare poi
che per realizzare i capodopera con tanta cura esposti
si sono usati colori e tele e altra materia prima d’alto pregio
quale pietra dura o bronzo
che solo in certi negozi molto specializzati
puoi trovare?
Certo, se i colori fossero rimasti nel tubo
si sarebbero sentiti più a loro agio che sparsi sulla tela,
questo lo si vede anche a occhio e dunque non lo si può negare,
per non parlare poi della pietra e del bronzo che
se fossero rimasti là dove furon presi
a fare quel che facevano e per il quale furon fatti,
ovvero a fissare il ghigno del culo
o meglio ancora della faccia
dei critici esperti e degli artisti annessi,
si sarebbero sentiti anche loro assai più a posto
che nello star lì a dar forma
alla non forma che per l’ennesima volta
l’ennesimo genio rivoluzionario e/o maledetto che dir si voglia
non ha più nessuna voglia di formare:
d’altra parte, si sa, l’arte ha implicato da sempre
dolori e sacrifici d’ogni sorta,
e se l’artista di talento e grida e soffre e si contorce
perché aver pietà si dovrebbe del bronzo e della pietra?
Oltre a questo possiamo aggiungere senz’altro
che sostanziosi diritti d’autore si sono versati
per l’immancabile colonna sonora del culturale evento,
che giovani o giovanissimi designer
con un futuro o magari anche un passato remoto di talento
sono stati mobilitati in massa per volantini, manifesti,
e, soprattutto, per menù e catalogo,
e il talento dei giovani o giovanissimi designer, si sa,
è tanto sviluppato che alcuni fra i visitatori,
volontari aggratis oppure anche affittati
in questo caso una differenza significante non si nota,
sono riusciti a scambiare il menù per il catalogo
o addirittura viceversa.
Le chiacchiere che sono volate poi,
come senz’altro si sarà notato,
per un secondo o due non sono state subissate
dal rombare infernale degli altoparlanti
né da quello più astuto e più sommesso
delle zanzare che hanno banchettato
con i banchettanti, tanti o pochi che fossero e dunque
di che ci lamentiamo?
Considerato quel che si vede la domenica in tv
possiamo considerarci almeno soddisfatti,
se non proprio del tutto felici.
Infine,
siccome come tutti i creativi veraci
o voraci che siano
siamo ribelli, folli, originali, devianti,
come anche vegetariani, verdi, di sinistra,
e, naturalmente, anticonformisti,
ce ne torniamo a casa
non in macchina o in autobus,
ma bensì in bici.
DIALOGO IV
«Le metafore che potrei inventare sono mille, ma, alla fine,
sono delle metafore, e non servono a nulla.
Cose di questo genere bisogna provarle.
Una volta che le hai provate,
comprendi cosa significhino e, soprattutto,
cosa significhi la loro indicibilità.
«Fai un tentativo almeno.
«Vedi, il tango autentico, secondo me,
non è i campionati mondiali di tango, non è i lustrini,
le acrobazie, l’abilità inarrivabile dei campioni,
i commenti dei cronisti, i discorsi intellettuali,
o addirittura quello strano ramo della psicoanalisi
che ultimamente è stato innestato su un tronco che,
secondo me, ha molto poco a che fare con la psicologia
propriamente detta (io non lo sapevo,
ma il tango è diventato un passatempo tipico
e dunque un argomento di riflessione tipico
di un bel po’ di psicanaliste).
In effetti, secondo me, il tango esibizione,
e in particolare quello dei mondiali di tango,
e dunque il tango competizione, è una perversione
del tango propriamente detto, un po’ come lo è
la pornografia rispetto a due innamorati
che fanno l’amore per esprimere l’amore che li lega
e non per farsi vedere o per competere con qualcun altro
(questa naturalmente è un’esagerazione, però
credo che possa aiutare a rendere l’idea: alla fine,
non si potrebbe dire che il tango è lo spettacolo
che l’intimità dona a sé stessa e di sé stessa?).
Potrei dirti: il tango non è quel che si vede.
E potrei dirtelo, molto banalmente,
facendo leva sul fatto che qualsiasi forma artistica
ha un corpo e uno spirito. Il corpo
è quel che si può vedere con gli occhi,
lo spirito è la sua parte invisibile
che attraverso ciò che è visibile si rende manifesta.
Queste sono cose ovvie, valgono per la poesia,
per la pittura, per il teatro, etc. Il significato
di un’opera teatrale non è la somma
di tutto quel che viene detto, ma qualcosa
che si rende manifesto attraverso
tutto ciò che viene detto. Lo stesso vale per la danza
e dunque anche per il tango. Però vedi,
mi rendo conto che in questo modo ti ingannerei.
Per dirti la verità mi devo esprimere in un altro modo.
Devo dirti: il tango è il contrario di quel che si vede.
«Stasera siamo proprio in vena di poesia..
«Hai ragione, mi rendo conto che non riesco a spiegarmi,
anche se devi renderti conto che non è facile…
Come posso dirti, come è che si può definire
il contrario di quello che si vede?
Se vuoi, è come quella volta che vai in soffitta
per cercare un vecchio annaffiatoio o qualche altra
cianfrusaglia che hai messo via
perché credevi che ti potesse servire e che, incredibilmente,
anni e anni dopo ti serve davvero.
Ancor più incredibilmente,
ti ricordi anche dove l’hai messo e quindi
senza nemmeno bisogno di accendere la luce
vai a colpo sicuro e lo prendi
facendoti guidare da quel poco di luce
che filtra dalla porta.
Però, mentre sei per uscire, esiti. Nel buio incerto
si affacciano i volti di mille cose messe lì
perché diventate inutili
ma che però, pur nella loro inutilità,
non hai avuto il coraggio
di gettare nella spazzatura.
In preda all’inquietudine,
ti muovi in quello strana fossa comune di giorni dimenticati
finché da un dettaglio indescrivibilmente insignificante
risorge la memoria di un momento, o di un’intera giornata
quando sono successe certe cose,
hai pensato certi pensieri
che sono diventati poi il tuo futuro
fino a quell’istante presente in cui
perso nel buio della soffitta
galleggi oscuramente
in un buio incerto in cui si affacciano
volti passati che però
misteriosamente
sono più vivi di qualsiasi persona
che tu possa incontrare o anche solo
pensare di incontrare
andando in giro per casa tua.
Sei in un buio imperfetto,
ma anche così sei riuscito a capire
che le pietre più preziose, tu lo sai molto bene,
sono quelle che splendono
senza bisogno di nessuna luce.
GLOSSA AL DICEMBRE DEL 2012
I sentimenti,
non c’è nulla da fare,
sono sentimentali.
L’amore poi
è il più sentimentale di tutti.
Fa rima, manco a dirlo,
con cuore, con fiore e con dolore:
roba da cardiologi, dentisti e/o fisioterapisti,
o, se proprio si vuole, da psicanalisti,
col fiore che sta lì minaccioso a ricordare
le assai poco regali corone che al carro funebre
quasi sempre fanno ala.
Se il colore che richiama alla mente
è dapprima il rosso fuoco del manto del torero
quello a cui per solito prelude
è quasi sempre un azzurro Tavor o un bianco d’aspirina
o, peggio, d’ospedale,
che in poco o in nulla ricordano quello della sposa,
che fra gigli e sorrisi viene avanti
sulle note gloriose di un Mendelssohn
proteso alle maestose vette dell’altare.
Dunque la poesia, sublime com’è,
non si adatta a descrivere l’amore
e men che meno a sfogarne le paturnie
quando le cose,
come del resto era prevedibile,
vanno a male.
Parla di qualcosa d’altro la poesia:
parla d’una sublimazione,
celebra Aspasia e il pensiero dominante
comunque sia un’idea altissima, astrattissima,
ineffabile,
che vaga per le vaghezze
d’una qualche irrealtà spirituale.
Grandi beltà, sia chiaro,
ma che nulla o meno di nulla hanno a che fare
con le terrene occasioni con cui l’innamorato
– quello vero, s’intende –
ha incontrarsi o scontrarsi tutti i giorni:
se leggi una poesia, di tutto troverai,
ma non i suoi mali atrocissimi
e insieme poveri e grigi come Topo Gigio,
« Ma cosa mi dici mai.. »
Cerca nei libri:
non le avrai giammai
le sue gioie rifritte,
le sue danze, le sue esultanze
che se non banalissime
restano tuttavia banali,
le sue lagnanze inascoltabili,
le sue non-vicende men che infantili
e tutte disperatamente uguali
troppo uguali…
Siamo seri:
cosa c’è al mondo di più inopportuno del sonetto
per parlare d’un principe di stracci
che cerca la sua Cenerentola con la scarpa in mano
scambiato da tutti e in primis da sé stesso
per un trovarobe o un calzolaio matto.
Cosa di più improponibile di dramma o di tragedia
per discorrere delle querule viscere
della sua intimità rosa confetto,
che solo arrivano a gloriosa pienezza d’espressione
con la rima d’accatto o il romanzo da due lire,
anche se il meglio del meglio pare offrirlo
la canzone lacrimevole e sbracata,
molto, molto meglio di quella che si contiene,
più modestamente,
nel sentimentale?
Ciò non toglie però che l’amore assale
con la stessa sovrumana forza
della fiumana di parole che a squarciagola
lo stonano senza posa,
inesorabilmente.
Terrifico quanto ridicolo
inevitabilmente cresce, tracima
e tutto volge e sconvolge
sempre e comunque,
anche se il maremoto che ci destina
al nulla e alla rovina,
diciamo la verità,
sul piano cosmico è assai meno notevole
che una lavastoviglie quando risciacqua i piatti:
travolti, sprofondiamo,
perché esser uomini
– ahimè –
è esser ebbri di sete
e in conseguenza di ciò
completamente mentecatti.
LA GLOSSA DELLA GLOSSA
Padre, perdona loro, perché non sanno
quello che fanno: così implorò il Crocifisso
tracciando un lieve sentiero di salvezza
per i suoi stessi carnefici, che mentre lo deridevano
spartendosi le vesti, non si rendevano conto
di ricevere in quel momento come mai altri solenne
il sacramento volgarmente detto della santa ignoranza: nessun
profeta fu mai tanto lungimirante
quanto a miserie e mistero della condizione umana,
di cui fa parte inesorabilmente il fato,
di cui Egli stesso doveva essere al corrente,
che i grandi maestri siano destinati
ad essere fraintesi dai più fanatici fra i loro adoratori
più dannosamente e assai più a lungo
che dai loro infedeli scannatori.
Un tale destino è tanto inevitabile e comune
che, quanto a questo, il millenarista più ispirato
è minacciato dal grigiore quotidiano quanto e forse più
dell’innamorato bidonato dall’amata,
o del pigmalione illuso e deluso dal pigmalionato,
se il profetare più alto si trasforma in interesse di bottega
con la stessa magica e tragica fatalità con cui
un pinco pallino qualsiasi passa tutta la vita a fare
un lavoro di cui poi scopre che non gli importa proprio nulla.
Non c’è Buddha, Maometto o Lao Tzu
che sia scampato all’astorico raggiro:
maledire i ricchi, i farisei ipocriti
e soprattutto i mercanti del tempio
è il miglior modo per candidarli
al soglio più alto della futura chiesa:
a benedirli invece, c’è il serio rischio
che un Torquemada fervido e zelante
ne infilzi infine qualcuno col sacro girarrosto,
rispettando come al solito fino all’estremo sacrificio
degli altri i severi ma salvifici consigli
del divino fondatore del suo credo.
Ti puoi esprimere bene quanto vuoi,
scrivere da maestro come parlar da dio,
ma non c’è modo di scampare alle piroette ubriacanti
dell’interpretazione e degli interpretanti.
Questo è il motivo per cui
non è chiaro a nessuno storico, per quanto blasonato,
se fu il dar da mangiare ai diffamati,
oppure il dar da bere agli annegati
se fu il render la vista ai sordi,
oppure il buttar via la chiave ai carcerati,
lo sport preferito di seguaci fra i più autorevoli e focosi
di quello stesso Dio che la nostra inguardabile ignoranza
morendo sulla croce
trasformò in un degno e sacrosanto sacramento.
E d’altra parte, poteva essere altrimenti?
Noi, in effetti, non sappiamo nulla
e dunque non possiamo sapere nemmeno
se davvero stiamo facendo qualcosa o qualche nulla.
A scandalizzarci diamo scandalo, se non agli altri,
a quella povera cosa che, per non saper che sia,
ce la facciamo amica chiamandola “noi stessi”.
Noi non sappiamo nulla di nulla, giova ricordarlo,
e dunque
come pretendere che ne sappiamo qualcosa più di nulla
quegli altri esseri umani che male giudichiamo
se restano come noi o più di noi all’oscuro?
Che la buona fede, la fede e l’ignoranza abbiano qualcosa in comune,
se è una profonda verità,
è forse anche l’unica fra le catastrofi del tempo
dalla quale non è chiaro a nessuno
come è che l’Eternità, pur impegnandosi a fondo, ci potrà salvare.
Come o dove troveremo qualcosa da ridire
se in quel famoso giorno Hitler e Stalin,
accompagnati per mano da un vergine De Sade,
alla testa di una processione con Tamerlano,
Cesare, Dracula, Attila e compagnia cantante
sedessero infine alla destra e alla sinistra,
anche se magari non proprio quella del Padre,
se in grazia o disgrazia dei loro (de)meriti terreni
fosse rispettata pure in Cielo
la loro terrena collocazione parlamentare?
Parte Terza :
DAL DIARIO POST FINE DEL MONDO MAYA
COME NON DISSE SOCRATE
Più non conosco me stesso
più voglio bene ai cani.
Pensare e poetare
mi appaiono un’arte inferiore
e un minor portento
che quello di correre appresso a un bastone
e riportarlo,
di dormire tranquilli nella cuccia,
o di abbaiare al vento.
POLAROID
Da quando sei andata via
non credo più in nulla
o forse non credo più
nemmeno in quel nulla
in cui dico di non credere.
Forse allora
credo in tutto
e credendo in tutto
credo anche che nulla
di tutto quello in cui fingo di credere
possa intrattenere anche solo per disgrazia
una qualche sia pur vaga parentela
con il vero.
Se mi guardo intorno
la tua assenza è a colori.
La foto che di te mi resta invece
è in bianco e nero.
È PROPRIO VERO
La vita
è come gli ombrelli.
Non è fatta
per essere vissuta.
È fatta per essere
perduta.
VERSO RECANATI
Siccome tutto è nulla
anche quando mi ammazzo di fatica
la vita mi appare sempre e comunque
come una terminabile estate di vacanze.
Leopardi mi ha portato via
anche l’ultimo possibile lavoro:
siccome le ha scritte lui
non le posso scrivere più io
“Le ricordanze”.
ULTIME NOTIZIE
L’ultimo vero mestiere che al mondo sia rimasto
è quel che la gente definisce di solito “comunicazione”.
Quel che ci sia poi da comunicare non è affatto chiaro,
però farlo è urgentissimo, e tanto ce n’è da dire
che a trovare un angolo di silenzio non sai più
s’è una disgrazia o come vedere nella notte in tempesta
il monocolo irraggiungibile di un faro.
Nessuna notizia buone notizie:
non trovi a nessun tg
un evento più raro.
LA SIEPE
Dicono che nell’assenza
l’amore fosse pure afflitto e disperante,
come pure quello fritto e rifritto, o in affitto
o autenticamente delirante perché infitto
o addirittura trafitto, o persino squarciato e ululante
proprio allora mostra il suo senso profondo,
che è quello di far spazio al sogno che risolva
il pressante e umanissimo bisogno
di una per quanto labile e colmabile distanza
per fantasticare in una qualche
vera o presunta lontananza
un pieno immaginario
che possa porre rimedio alla vicina, ineluttabile
e realissima mancanza.
Mi domando come mai
a me il trucco non riesce:
la scodella è perfettamente vuota
eppure anche così
non riesco a intravedere la pietanza.
IL POETA
Il poeta si aggira nel presente come in una scenografia
in cui recita uno spettacolo fatto apposta per i posteri,
un po’ come fa un attore pornografico con i posteriori
che un regista in realtà più simile a un carrozziere
che a un artista gli mette intorno con un qualche poco
credibile intento estetico. Può anche darsi che il poeta,
come l’attore pornografico del resto,
offra più spesso alla contemplazione dei posteri
il suo stesso posteriore più di quanto non desideri
contemplare o addentrarsi in quello altrui, ma non è che questo
cambi poi di molto lo stato delle cose.
In ambedue i casi si recita un’intimità che non esiste
o che esisterà soltanto in modo sia pur pallido
qualche secolo dopo l’avvenuta morte,
unico temuto e sospirato momento di sincerità e verità
di quella che si chiamerà “sua biografia”,
che adesso nessuno, e lui meno di tutti,
ha l’impudenza o il coraggio di chiamare
la sua “vita”.
LA POESIA I
I sentimenti, prima di diventar parole,
sono un qualcosa nell’anima che però
è assolutamente inutile tentare di esprimere con il linguaggio,
perché così si sciupano immancabilmente.
Non c’è poesia d’amore come d’odio,
d’indifferenza come di speranza o di disperazione che sia,
che metaforizzandoli non li distorca infine
in un fraintendimento peggio che totale.
Avrei potuto tacere. Invece
scrivendo poesie ho sciupato tutta la mia vita,
e forse nemmeno più mi riesce di pentirmi o di mentirmi
pentito del misfatto, perché sembra che alla fine il futuro
sia una materia che muore nel momento stesso
in cui prende la deludente e odiosa forma del presente.
Quasi tutti i saggi sono d’accordo quanto a questo:
il destino inesorabile del tempo, se tutto va bene,
è quello di essere sciupato nel malinconico rimpianto
di quel che poteva essere e non è stato. Se tutto va male invece,
è quello di piangere acutamente un mal di denti acuto
accompagnato dalla tragica impossibilità
di prendere un cachet.
In altra epoca forse non andavano così le cose,
era altra la vita e alto il sentimento,
ma oggi la discarica universale sembra,
più che l’alfa e l’omega, l’intera litania dell’alfabeto,
e diventa difficile perfino immaginare
come è che nelle civiltà di gioventù furenti
l’idea che gli ideali sono merda che galleggia
su altra merda possa essere stata
in qualche modo evitata.
LA POESIA II
A dir le cose in rima riesce a tutti
perché qualsiasi merdata scritta o detta in rima
risulta per qualche strano motivo affascinante.
In altri casi ci si appoggia al ritmo, all’assonanza,
all’associazione musicale fra immagini,
ma, per quanto si dia fondo al mestiere, alla fine
il burrone in cui il pifferaio magico trascina
sé stesso prima e i suoi lettori poi
resta sempre quello. Ciò fa sì che col passare dei secoli e dei versi
l’oramai previsto inciampo diventa sempre più simile
a quello di un clown che, anche rompendosi una gamba,
non fa più ridere né piangere nessuno.
Invidio così
il vento sulle foglie
che si sente la prima volta
come se fosse l’ultima,
e l’ultima come la prima.
Il fatto poi che in nessun linguaggio umano
si possa tradurre il suo magico nonsenso
pare senz’altro un suo punto di forza
se non di merito.
A J. P. SARTRE
Ai tempi dell’esistenzialismo
fare conferenze sul nulla
non dev’essere stato per nulla facile.
Sul nulla non si può dir nulla
e non dicendo nulla
anche i venti minuti di una conferenza
possono trasformarsi un abisso,
magari anche solo
di risate.
Col tempo si è trovato il modo di aggirare
l’insormontabile ostacolo:
la conferenza sul nulla, come del resto
tutto il resto,
non si fa
ma non si dice,
e in questo modo va avanti da almeno trenta
o quarant’anni,
senza che nessuno minacci
di averne ormai abbastanza.
« ..là ou tu n’es pas.. » II
Dovendo organizzarmi per un viaggio
lo farei per una destinazione
dove si trovi l’oblio di me,
ma non è che siano molti i posti
ove possa anche solo un istante contemplarsi
questo grandioso monumento.
L’unico vero Altrove è là,
dove sei tu,
se il “tu” è l’unica destinazione
dove ti puoi trovare
sia pure a mezzo e al prezzo
della perdizione: non stupirti dunque
se sono qui,
ininterrottamente occupato
a far progetti per trovare il modo impossibile
di raggiungerti nel chissà dove
sei finita.
Però, per quanto sedotto e non mai abbandonato
dal mio febbricitante e frenetico fantasticare
non perdo tempo a fare le valigie e controllare
la validità dei documenti. Men che meno mi curo
di individuarti sulla carta geografica:
qualunque sia il tuo nuovo indirizzo scoprirei
che sei andata a finire proprio là
« ..là ou tu n’es pas.. »
cioè appunto proprio qui
nella tua assenza
in quello che un tempo si chiamava
il punto di partenza.
INTERLUDIO
Varsavia.
Varsavia coperta di neve
e d’invisibili fiori
che dei biancori illimitati
della neve si nutrono
e risplendono
meravigliati.
Varsavia del ghetto,
della strage.
Varsavia mille volte rasa al suolo
e mille volte
come me
risorta.
Varsavia tua patria,
tuo cielo. Varsavia nei tuoi occhi
nel mio amore
come un velo.
Varsavia del tuo riso d’argento
e di quell’intimo pianto
di cui più non mi curo
che quasi più non sento.
Varsavia dei passi che rimbombano
nel silenzio di spettri di una via laterale,
di una vita qualsiasi che passa
affranta di tristezza
e di cui nessuno poi
saprà più nulla.
Varsavia..
Varsavia che si allontana
come una valle in un’evanescenza
di nebbie senza meta,
labirinto irreale per cui si smarrisce
il cuore
mentre cerca senza posa quel che resta
di un suo perduto e splendido
dolore.
Varsavia, lo so,
ormai quasi soltanto un nome
che nel tenue sfumarsi nella memoria
si sfuma e s’attenua
come il tuo viso
in una penombra di pergola in estate,
fissando un angolo oscuro
là dove vorrei ci fossero
i tuoi occhi.
« ..là ou tu n’es pas.. » III
Il battere vuoto
dell’orologio
il buio
che non è buio
la luce dell’abatjour
che non è luce.
Vortice da vortice
polvere da polvere.
Fuliggine negli occhi
ancora
il sonno che non viene
gli istanti
alghe abbandonate
dalla marea matrigna e madre
che sulla spiaggia del tempo partorisce
il suo lamento eterno
di mare prigioniero
in un’eco lontano
di conchiglia
sua oscura discendenza
sua sola e ultima traccia
sua sola figlia…
* *
Il tuo tango fugge
come fuggiva..
Da sempre
stava fuggendo
come il tempo
o come le foglie
nel vento
o come il vento
in altro vento,
in altro tempo
perso..
Fuggiva, si,
il tuo tango:
fuggiva il tuo tempo
nel mio tempo.
Come vorrei afferrarlo
ora che non è più tempo
ora ch’è come un canto
ora che è come un vento
immenso, irreale,
fuori dal vento…
PUBBLICITÀ PROGRESSO
Gli italiani
a quanto pare
non hanno più voglia
di far figli.
Il coefficiente riproduttivo
delle donne fra i quaranta e i cinquanta
non è di nemmeno un figlio e mezzo a testa,
e questo vuol dire senza meno
che fra due o tre decenni l’Italia sarà un paese
di milioni e milioni di vecchi e di badanti,
per quanto riguarda gli italiani,
e di milioni e milioni di stranieri
per quanto riguarda i giovani
e dunque anche il futuro.
Fra le molte conseguenze più o meno inevitabili
di questa strana sorta di suicidio camuffato,
ovvero di questa morte per fame con la scusa della dieta,
di questa inondazione disastrosamente confusa
con l’esasperante ticchettare dello stillicidio,
ci sarà senz’altro il fatto che la nostra beneamata lingua,
la lingua di Dante e di Leopardi,
in un periodo che guardando ai tempi storici
risulterà poi altrettanto ponderabile
che il più classico e vano battere di ciglia
si muterà o addirittura svanirà in un groviglio di barbugli
di chissà quali e quanti dialetti,
idiomi e gerghi vari:
afro-slavo-sudamericani, sino-indo-mediorientali,
e chi più ne ha più ne metta
di tutti i pensabili o impensabili e torti e ritorti
viluppi e sviluppi di etimologie e di accenti
che l’immaginazione possa immaginare.
Tutte trasformazioni, c’è da supporlo,
più vitali di quel che resta della nostra lingua morta,
che però per forza di cose avranno il difetto
di rendere incomprensibili o quasi
i versi dei predetti poeti fra i poeti,
come peraltro anche quelli molto più umili
(o addirittura umiliati pensando a tanta
immisurabile grandezza)
che si sforza comunque sia di scrivere
quell’affaticato scriba
che chiamo “io”
sol per non doverlo chiamare
“chicchessia”.
Continuando così le cose,
e non si vede com’è che possano
in altro modo continuare,
dobbiamo prendere atto che tali versi,
quelli scritti da Dante e da Leopardi,
come anche quelli scritti da “io”
o da “chicchessia” che dir si voglia,
in ultima analisi furono e sono presentemente scritti
per un futuro che esiste ormai
solo nelle buone intenzioni del ministro della sanità
che con consiglio altrettanto lungimirante e saggio
che quello di respirare come minimo
qualche centinaio di volte al giorno,
perché respirando di meno si finisce poi per soffocare,
ricorda a tutti gli italiani e a tutte le italiane
con spot e manifesti pagati da non si sa bene chi
che il tempo per riprodursi (grazie a Dio?)
è alquanto limitato.
A parte tutto il resto,
tutto questo significa a sua volta
che i versi o quel che è che sto scrivendo
sono scritti in fondo infine per nulla e per nessuno,
se entro il breve volgere del predetto battere di ciglia,
non ci sarà più chi sia in grado di leggerli
o almeno di capirli,
posto che leggibili mai fossero stati
o che mai ci fosse stato
qualcosa per quanto poco
da capire.
È un pensiero molto triste questo qui,
anche se da un altro punto di vista non è chiaro affatto
se scrivere per nulla e per nessuno
non sia uno di quei pochissimi lavori a tempo indeterminato
che restano all’Occidente in crisi,
anche se, per certi versi, riguarda ahimè
anche tutti quei gloriosi trapassati
di cui nel presente non sappiamo più nemmeno
chi furono o se almeno
mai esistettero.
Degli ateniesi che composero tragedie memorabili
non ne ricordiamo più quasi nessuno
e poco più di quasi nulla ci è rimasto
dei loro innumeri componimenti
di cui adesso tutto quel che si sa dire
è che in modo vario sono finiti
negli abissi del mar mediterraneo
oppure comunque sia
di quelli dell’oblio.
Se la vita non fosse una tragedia,
c’è da giurarlo,
forse a quest’ora
sarebbe da un bel pezzo sparito
anche quel “quasi”.
COROLLARIO
Che le donne italiane si limitino
a meno di un figlio e mezzo a testa
è un fatto che in prospettiva risulta preoccupante,
a ben vedere,
soprattutto per il disgraziato meno di mezzo figlio,
se la pudica statistica si rifiuta di specificare
se e come queste parcelle
si potranno incollare fra di loro
in modo da formare almeno un figlio intero,
oppure se queste parcelle parcelle rimarranno
per tutta la vita parcellizzata che avranno la grazia
o la disgrazia di essere o non essere,
anche se per fortuna ultimamente
la differenza fra i due capi del dilemma
non è molta
anche per chi,
per grazia o disgrazia,
fosse nato intero.
Montale docet:
anche nascendo al cento per cento e dunque appunto interi
si vive al massimo al quattro o al cinque,
se tutto va bene,
e dunque converrà investire sui buoni del tesoro
invece che sui figli:
pare che rendano qualche punto in meno,
questo è vero,
però, a quel che si dice,
non passano la notte a piangere
e ci lasciano in questo
liberi di almeno dormire in santa pace
se non in caso di un qualche impensabile
franare della borsa.
DIALOGO V
«…e da allora, in pratica,
sono stato costretto a smettere.
Non so nemmeno
se ricomincerò mai.
«Beh, forse allora il tango non ti piaceva così tanto
come dici.
«No, vedi, non è così semplice.
Alla fine, forse anche il tango è un po’ come tutte le altre cose:
ognuno ci trova quel che ci cerca
e lo vede per come se lo immagina.
Io ci cercavo, almeno credo, più che altro
un certo tipo di abbraccio.
«Da quel che capisco, ballano migliaia di persone in tutta Italia
e anche qui ce ne sono svariate centinaia. Alla fine
troverai anche tu quello che ti piace no?
«Il problema è proprio questo: che se lo devi ancora trovare
puoi continuare a cercarlo. Ma se lo hai trovato
e poi lo hai perduto, cadi in preda alla disperazione.
A uno che non ha mai provato
le cose sembrano molto semplici
ma un abbraccio è come un volto: è qualcosa di unico,
inimitabile, è irripetibile come solo certi istanti
possono esserlo. Forse, puoi dire che un certo tipo di abbraccio
lo perdi nel momento in cui lo trovi.
È per questo che quasi tutti i tanghi,
almeno quelli di un certo periodo,
sono completamente disperati
(o almeno così ho sentito dire:
lo spagnolo del tango, in effetti, lo capisco
solo fino a un certo punto).
Il tango parla di qualcosa di unico
che una volta perso
non si può ritrovare: tutta la vita alla fine
non è altro che questo. Forse è per questo
che mi viene da dire
che il tango c’entra sempre:
perché il tempo del tango mi sembra
lo stesso che quello della vita.
IL MIO CANE
Che un nessuno qualsiasi sogni di diventar qualcuno
col successo e la carriera è uno di quegli incubi moderni
dai quali non si riesce a risvegliarsi
nemmeno col cannone.
Il mio cane non sognava mai la cena:
la guaiva, la mugolava, a volte perfino l’abbaiava
ed era forse per questo che prima o dopo
gli arrivava.
LA FOLLIA
La follia più folle è quella
d’esser nati:
rimanendo sani di mente
la si aggrava
d’un peso insopportabile
e per di più completamente inutile
anche se in certi casi
incredibilmente
riesce nell’ardua impresa
di essere dannoso:
d’altra parte, essere pazzi
è una soluzione
che appare tale
solo a chi crede
di essere normale
LA VIA LATTEA
Mi esercito al sassofono mentale
guardando le stelle annebbiate
dalla falsa via lattea
dei lampioni:
beato chi è beato
– rifletto –
e faccio male
se è felice soltanto quel morto
che non riflette più
perché l’io, il solo vero specchio,
spezzandosi
lo ha spezzato.
COME A UNA FESTA
Anche l’inferno alla fine
viene a noia.
Dunque anche quando tutte le altre
sono andate in fanteria
un’ultima speranza in ogni caso resta.
Se proprio non ne avanzano altre
pur di andare in qualche modo avanti
ci si potrà pur sempre
attaccare a questa.
NOTA IN MARGINE ALLA PRECEDENTE I
«Se l’inferno per caso
fosse quello della noia
le vie d’uscita sono talmente tante
che diventa persino idiota
menzionarne una!»
come disse il cammello
mentre tentava di passare per la cruna.
LA SAGGEZZA I
Voler capire tutto si risolve quasi sempre
in un capir nulla di nulla.
D’altra parte, anche facendo lo sforzo
di limitarsi a capire solo quel qualcosa
che si può o pare potersi capire
effettivamente
non è che le cose vadano poi molto meglio:
alla fine si scopre che il gioco
non valeva la candela, e forse nemmeno
il cerino per accenderla,
dato che il qualcosa, pur compreso,
di fronte al tutto incomprensibile,
non è nulla di nulla,
e dunque comprendendolo
non si è capito nulla.
A quanto pare
solo col non capir nulla
davvero non si capisce nulla,
a modo suo un qualcosa di solido e accertato,
ma questa è una meta difficile a raggiungersi
e anche solo a pensarci c’è il rischio
di restare bloccati alla partenza
perché la perfezione della scienza richiede
non essere esistita mai
fra il capire e il non capire
nessuna differenza.
L’ignoranza dunque è un destino
a cui non possiamo sfuggire:
se non siamo noi a possederla
è lei che ci possiede
così che da servi o da padroni
dobbiamo comunque sia
piegarci all’Obbedienza.
NOTA IN PAGINA ALLA PRECEDENTE II
La conoscenza infine
può essere assimilata
a un qualsiasi altro destino,
non troppo diverso perciò da quello
di chi ama la guerra,
il lavoro in ufficio o in officina,
arare i campi oppure
dedicarsi all’insegnamento
della letteratura, della storia, della morale
o del ridere per ridere
(la differenza infatti
può essere risibile).
Il saggio non è perciò diverso
dal pasticcere che trascorre il suo prezioso tempo
in infinite variazioni sul tema della ricetta
della torta della nonna come di quella
venduta a mezzo di innumeri bestsellers
per diventare felici in una settimana.
Gli fanno concorrenza
anche quelli che spiegano
come si possa aver successo,
o dimagrire di venticinque chili,
o sviluppare un fisico da soubrette o da culturista
sempre nella solita risicata settimana,
come anche coloro che si dedicano
al commercio di verdure o di salumi,
ai dolori di polso del bancario
o al saltare e sudare leggero
della danza.
Tutti i destini e dunque
tutti i lavori infine
portano a qualcosa di utile:
se non ci fosse stato chi umilmente studia e chi riflette
l’uomo non avrebbe mai saputo nulla di nulla
né del Nulla e né della sua metafisica e inevitabile
ignoranza.
LANDOLFI
È quasi un eroismo
L’abbandono
Il tradimento consumato appieno.
Ma perché mi bistratto,
Perché m’imbratto,
Perché nell’avvilirmi
Di vita
Non ho freno?
Morte,
E ancora morte
Notte
E ancora notte.
Se poi ancora e ancora
Non morde e non rimorde
È solo perché a furia di rimorsi e morsi
Ha consumato i denti
La coscienza
E il non credere ormai
È l’ultima cieca luce
L’ultima credenza.
IL MODERATO
Fra tutti i valori del mondo cosiddetto illuminato
la democrazia liberale sembra senz’altro il più alto e universale.
Non c’è attore o giornalista, deputato o odontoiatra,
filosofo o carrozziere che non la ritenga
l’archetipo di ogni bene e di ogni bello,
e, soprattutto, di tutto ciò che possa chiamarsi
veramente democratico.
Tanto in alto si solleva rispetto ad ogni sua
per quanto smisurata lode,
ad ogni suo per quanto smisurato monumento
che, se proprio si vuole paragonarla a qualcos’altro,
bisogna per forza di cose paragonarla
a un qualche altro genere di sia pur meno evoluta
democrazia.
Se non vogliamo diventarne dei fanatici,
e dunque incorrere in un bestiale
e bestemmiante contraddirla in adiecto,
urge quanto meno una presa di distanza,
per quanto minima, o almeno
un qualche forma di sia pur limitato scetticismo
per evitare, a furia di esaltarla,
di del tutto o comunque sia eccessivamente
consumarla.
Prendete la fila
a un bagno pubblico.
Nulla c’è di più democratico al mondo
di una fila a un bagno pubblico:
eppure non c’è chi non si sforzi
di trovare un modo purchessia
per evitarla.
IL TUO TANGO IV
Ti vedo
mentre balli stretta a un lui
che amo solo perché altro non posso fare
che amare qualsiasi cosa tu stringi
o che ti stringa.
Tanto
mi appare splendido
il tuo corpo perso nell’abissale armonia
di accenti e onde
e musicali intenti e movimenti
che altro non so che invasarmi nell’angoscia
e dell’angoscia folle di quel folle
che ama la bellezza
piangendo e pur sapendo
che amarla e desiderarla è lo stesso
che amare e desiderare nel sesso
la propria stessa morte.
IO SO
Io so come ti senti quanto arrivi sulla soglia
di quella casa che è tua ma non è tua,
accanto a quell’uomo che è tuo, ma non è tuo:
entri e guardi tutte quelle cose che si sono accumulate
andando e ritornando da un’altrove
a cui non sei mai arrivata
se non – come tutti – con il desiderio, il dolore
o la speranza.
La vita che immaginavi di fare facendo quella vita
che ogni giorno fai
era diversa.
Diversi erano i sempre nuovi hotel,
i sempre nuovi sorrisi offerti e ricevuti con l’arrivo previsto
e la partenza fatale, diversi erano gli occhi
sempre diversi
che ti avrebbero ammirata,
com’è diverso
sempre
il futuro svanito sulla soglia
dell’immobile e vuoto
sfuggire del presente.
IL MISTERO
Per il mio cane
il recinto di casa
è il confine del mondo
da lui mai valicato.
Fuori di qui
non l’ho mai portato
e di ciò ch’è oltre
poco gli dà l’avviso
il raro e vacuo comparire
di qualche ospite improvviso
che gratifica
d’una diffidente annusata.
Corre lungo l’inferriata
inquieto
abbaia al vento
con il naso all’insù.
Io stesso non saprei
dire di più.
IL MIRACOLO
Questo tempo fuori dal tempo,
in cui protesi al vento si aspetta qualcosa
che non accade e non accadrà mai,
una non cosa che alla fine
non ha nemmeno un nome così che infine
nemmeno la puoi sognare
perché non si lascia sedurre da nessuna immagine
e dunque da nessun immaginare.
Così è l’attesa fine a sé stessa che si propaga,
che diventa tempo,
l’attesa che il tempo passi mentre sta passando,
attesa che cresce, inesorabilmente,
mentre continuamente
crolla su sé stessa.
L’INSONNIA
Per ottenere qualsiasi cosa bisogna
dilapidare una passione sconfinata,
un frenesia ansiosa e furibonda
in una delusione incredula, ostinata,
in una meraviglia debole e profonda
per questo sonno vuoto,
dove non si sogna.
Io non ho più odio né amore.
Una casa dove un giorno mi sarei trasferito
per vivere con lei i miei giorni felici
ha consumato ogni bene e ogni male. È ferito
a morte il mio cuore.
Pessime attrici
le stelle danzano in un lucore vuoto
un silenzio che non conosce sosta,
un grido che non trova mai eco,
né risposta.
DIALOGO VI
«A me sembra che stai idealizzando un bel po’ la situazione
e questa è una cosa che tu di solito non fai mai.
Quando si idealizzano le cose o le persone
vuol dire che in qualche modo le si odia. Questo
non lo dico io, sto solo ripetendo una cosa che tu
mi hai detto almeno un centinaio di volte,
ricevendo sempre il mio assenso peraltro.
Poi però si comincia a parlare di tango
e dici che si tratta di un’esperienza assolutamente unica,
che per una volta la leggende è inferiore alla realtà e cose del genere.
Però, se devo giudicare dal mio ricordo,
a me sembra che ti divertivi di più quando facevi hip hop.
Ogni volta che tornavi da una serata o da una lezione
eri entusiasta, allegro, ballavi ovunque fosse possibile, e, soprattutto,
a parte quella storia un po’ particolare
con quel maestro che non ti poteva sopportare
non hai mai avuto problemi. Sembrava cioè,
che non ci fossero dei veri sacrifici di mezzo
(a parte quello di allenarsi ovviamente, la dieta, e cose così),
né dei veri attriti con nessuno: vitalità allo stato puro
insomma.
«Che cosa di devo dire, in un certo senso hai ragione,
non posso negarlo, le cose stanno proprio così.
Però il fatto è che nel tango succede qualcosa di speciale,
anche se, di fatto, succede talmente di rado
che si può credere che il ricordo di quelle pochissime volte
che è effettivamente accaduto
non sia altro che un’illusione.
«Che cosa vuoi dire esattamente?
«Che cosa voglio dire esattamente non lo so.
Invece, inesattamente, posso tentare di dirti che
quando fai hip hop l’estasi ritmica è qualcosa che si verifica
nel momento in cui questa cosa immateriale, la musica,
comincia a scorrerti nelle vene al posto sangue, o chissà,
forse nel sangue al posto delle vene.
E allora è come se tu stesso ti trasformassi in questa
non-cosa o non-entità del tutto immateriale
eppure percepibile che è la musica,
e dunque nel ritmo, nel tempo che si consuma e che pure
in qualche modo resta eterno: è questo il fascino della danza
in generale credo, non solo dell’hip hop.
Col tango le cose non vanno in questo modo.
Il rapporto fra te e la musica è mediato dal corpo dell’altro,
dal modo in cui l’altro ascolta la musica,
dal modo in cui sente il modo in cui tu la senti.
Per usare una metafora,
che però può essere molto efficace,
non devi ballare con i tuoi piedi
ma con i piedi dell’altro.
Sembra una cosa astratta, ma invece
è talmente concreta che non c’è grande ballerino
che non conosca anche la parte della donna,
e non c’è grande ballerina che non conosca anche la parte dell’uomo.
In questo modo, l’estasi ritmica è ostacolata dall’intesa con l’altro,
che, almeno a un certo livello, non si verifica quasi mai.
«In pratica mi stai dicendo che con il tango
raggiungevi lo stesso risultato che raggiungevi con l’hip hop,
solo che per arrivarci dovevi superare ogni sorta di difficoltà.
Quindi, il vantaggio del tango, posto che di vantaggio si tratti,
non era altro che quello di creare l’illusione
che dietro l’ostacolo, quasi sempre insuperabile,
ci fosse qualcosa di unico e inimitabile che però,
una volta sperimentato,
non è in nulla diverso da quello che si può sperimentare
molto ma molto più facilmente con l’hip hop.
Non mi sembra che sia poi quella gran perdita che stai lamentando.
Alla fine, di ostacoli insuperabili o quasi ne trovi ovunque,
e quindi, volendo nutrire chimere, sogni e illusioni,
puoi trovare alimento in ogni dove.
«No vedi, questo non è quello che esattamente,
o, meglio, inesattamente, ti volevo dire.
Quel che ti volevo dire è che quando l’estasi ritmica arriva
non viene come fusione con la musica in quanto entità immateriale,
ma in quanto abbraccio. In effetti, tu ti fondi con l’altro,
ma non con l’altro in quanto entità umana,
ma in quanto personificazione della musica.
Mi rendo conto che questa
è solo un’altra metafora e dunque
una di quelle cose che tu chiameresti
sogno, chimera e illusione etc.
Chissà, forse all’inizio esageravo però, però
in buona sostanza, volevo dire quel che ti ho detto.
Anche a te la musica piace molto, mi parli spesso
di Chopin, di Battiato, di Bach, di Mozart,
dici ch questo o quel tal altro pezzo ti manda in estasi
o cose del genere: ma che cos’è l’estasi,
se non una manifestazione del divino nell’anima?
Estasi viene da un’espressione greca che vuol dire
essere fuori di sé e dunque, in un certo modo,
tenersi verso l’altro.
Ballare il tango è un’estasi di quel genere
dato che puoi avere per un attimo la sensazione
di sprofondarti, di dimenticarti di te stesso
in quell’abbraccio divino al quale, chissà,
aspirano tutti, anche tu e tutti quelli che, come te, dicono
che sia un sogno, una chimera, un’illusione, etc.
IO NON SO
Probabilmente non sei più chi sei stata,
ed è giusto che così sia.
E. Montale
Chi sei, o chi sei stata? Mi rendo conto
che di te non so niente, e che di meno ne saprei
solo se qualcosa ne sapessi.
Sappiamo qualcosa
solo quando ci dimentichiamo di noi stessi:
in caso contrario
è invano il nostro consumar le unghie per scavare
un abisso di dubbi che non arriva
nemmeno al fondo senza fondo
di sé stesso.
Vago stanco per questa città stanca e il tuo nome
ad ogni passo si ripete anche se non voglio:
nel buio della mente
ti nascondi, e mi nascondo, e se ti fuggo
tu mi circondi con quest’angoscia che lo spazio riduce
a un punto senza mai confini, senza mai orizzonte.
Chi sei, o chi sei stata? Mi rendo conto
che di te non so niente, e che di meno ne saprei
solo se qualcosa ne sapessi.
Solo sappiamo il nostro non sapere:
il nostro andare a fondo
dura finché l’unghia consunta
non si trasforma anche quella
in terra da scavare.
RISORGERE
Così in questo luogo vedi ogni cosa, ma non vedi te stesso; ma in quel luogo tu vedrai te stesso e diventerai quello che tu vedi.
Vangelo di Filippo
Risorgere, risorgere! Ma non si può continuare
a vivere continuamente risorgendo, perché
continuamente risorgere significa continuamente
dover morire:
e bisogna pur vivere qualche volta
anche se non si può vivere sempre, lo so,
ma almeno un po’…
E invece
altro non so fare che questo:
risorgere, risorgere!
Questa volta è l’ennesima, e per l’ennesima volta
è l’ultima, fino alla successiva, ch’è un istante dopo.
Non ha respiro mai
questo continuo uscire dal sepolcro,
questo coprirsi gli occhi
dalla luce intollerabile.
Sono un vecchio cieco:
tutto quel che vedo sono forme che si perdono
in un crepuscolo senza confini
in un brulicare di vuoto che non riuscirò mai
a distinguere dall’alba.
COME UN AMLETO
Oramai da più di due anni ininterrottamente sull’orlo
senza baratro del suicidio
scopro con sgomento che i pur rari momenti di buonumore
rovinano irrimediabilmente la funebre eleganza
del mio pessimismo che da cosmico si fa comico:
come un Amleto che andando incontro al fantasma paterno
inciampi rovinosamente
lasciandosi per di più scappare una scoreggia.
Occorre fare qualcosa per evitare la dissacrazione
dell’ultima cattedrale che l’uomo moderno
sia ancora legittimato a costruire,
quella dell’eterno dolore per il nulla
del cosmo o della storia, o di sé stesso e del mondo,
o di tutte queste cose insieme o separatamente,
o fate voi:
in un tempo in cui è proibito calpestare l’erba
non si dovrebbe impunemente poter pisciare sulle rose
per quanto fatte di spine e di colore inconsolabilmente nero.
LA GRANDE LA MELA
Non bastando la cacciata dall’Eden
Dio volle gravare l’uomo con l’estrema umiliazione
della gloria umana. Ride dei nostri allori l’Eterno
e non riesce a capacitarsi di come i geni fatti a Sua immagine
possano esser cascati in questo scherzo da prete e meno ancora
che dopo i primi fessi ancora altri a milioni anelino a scivolare
su questa inamovibile buccia di banana che chiamiamo “storia”.
Che un secolo o un millennio di pinchi pallini ci ricordi
non vale un attimo del sollievo che ci darebbe
il dimenticarci una buona volta di noi stessi:
che gli altri poi lo facciano è un premio che quasi nessuno
riesce davvero a meritarsi.
POSTILLA ALLA PRECEDENTE
Il lato mistico delle cose
è dato a pochi poeti e poche volte
di poterlo esprimere. Io credo fermamente
di averlo espresso, almeno in un paio di poesie,
anche se in effetti per farlo ci ho impiegato
tanti di quei versi che non oso neppure ipotizzarne
il numero possibile e plausibile. Ritrovare le pietre
preziose fra tanta paccottiglia sarà impossibile,
ammesso che qualcuno sia tanto pazzo da provarci,
e questo è l’unico pensiero
che mi consola.
LA SAGGEZZA II
Risolversi alla divina Indifferenza
non è mai facile per nessuno,
e peggio che peggio quando alla fine tutto pare
– e senza alcun sforzo d’intelligere per giunta –
perfettamente indifferente
Stiamo qui a girarci sul letto di morte
per anni e anni d’irritante insonnia, spesi
fra letture banali – o che banali diventeranno –
e l’attesa di un’alba che avrà inesorabilmente
il fascino profondo d’una fossa,
e qualcuno ci raccomanda per giunta,
nel caso quanto mai raro d’un prurito
che assurga all’increduta dignità di palpito,
di prendere prontamente e debitamente le distanze!
Il fatale e provvido distacco
arriva per forza di cose poi per tutti
e non consola nessuno.
Per cui ci si sente un bel po’ scemi
a star lì gobbi a sudare per simulare credibilmente
un’insensibilità che ci verrà data infine come omaggio
insieme all’acquisto di nessuno sa bene cosa.
A FERNANDO PESSOA
Tutto è occulto e ogni cosa nel suo rivelarsi
da sempre e per sempre si nasconde.
Dietro ogni apparenza
altra apparenza ad accecarci insiste
e se chiudiamo gli occhi è solo per scoprire
che nella cecità, non visto,
l’illudersi persiste.
Dubitare del dubbio, a che ci serve?
Tutto è occulto, l’uno per l’altro, come l’io
per quel sé stesso che non saprà mai chi sia,
nessuno che nasce per morire e non sapersi,
per non vedersi, invisibile perché veduto
segreto perché rivelato
follia di specchio
dal suo riflettere
infranto e dissipato.
Come o cosa credere,
o a che pensare dunque,
se l’essere è
solo oltre il non mai saputo,
oltre il non mai creduto,
nel non mai pensato
nel non mai nemmeno per quanto
vagamente e lontanamente concepito?
PROSAICAMENTE
Da un paio d’anni penso solo
o a te o alla morte
e certe volte non mi riesce di capire la differenza:
ma questo solo perché mi hai lasciato qui,
completamente solo e perciò libero di godermi
la tua assenza.
In tua presenza la vita non sarebbe stata tanto comoda,
a malincuore, ma devo riconoscerlo.
Ogni tanto mi avresti costretto, volente o nolente, al disturbante e
illusorio sforzo di una gioia, e magari ad un abbraccio
addirittura pieno di futuro e d’entusiasmo: tornare alla norma
sarebbe stato poi un orrore ancor più orrendo
di quello della morte che bontà sua non da problemi,
almeno per quanto riguarda
gli sbalzi d’umore.
LIRICAMENTE
Odi?
I venti dell’est che fin qui
t’hanno portato
ancora si levano,
– ancora –
come sempre si levarono
e come si leveranno
sempre.
Odi:
forse ricordano la steppa
fischiando ora sui tetti
come stonata cornamusa,
ora invece sospirando
fra i rami e fra le foglie,
ora sbuffando lenti
come locomotiva
vecchia e stanca.
Sembra un canto
– un incanto –
questo lamento
questo vortice
che come foglia lieve
ti solleva
e ti porta
e poi ti posa
a Barcellona, Berlino, Amsterdam,
Milano, Reggio, Londra, Parigi,
Varsavia, Rotterdam, Torino
girando intorno a un centro
che tu conosci perfettamente
proprio perché
non ne saprai mai nulla.
Il tango che attraversò l’oceano
t’aspetta irrequieto nel suo porto d’argento
pronto per la contraria traversata.
Altri mondi ti attendono,
altri cieli saranno la ristretta stanza
della tua ansia perenne
di partire.
Non le odi più,
davvero,
davvero
non le senti?
Altre illusioni si innalzano per te,
brezza di canzoni
su mari di sirene,
altre disillusioni affilano di lame
il loro abisso
se il desiderio è da sempre e per sempre
di sé stesso
Eumenidi ed Erinni,
se nemmeno al dolore
si cessano i suoi cori
fatti di affanni,
d’inganni,
anni e danni stupendi
come inni.
Io resto qui a fissarti
con gli occhi chiusi della nostalgia.
Passeggio da solo
per strade dove cerco di non trovare mai
anima viva,
anima mia,
e non mi lamento più
se la tua immagine col tempo si fa
sempre più vana,
se il vivo dolore si scolorisce
in questa nebbia inquieta di follia,
in ottusi e straniti labirinti
di penosa e pensosa malattia.
Forse l’ho sempre saputo
che né più né meno di così
avresti potuto
essere mia.
CONTRO CARTESIO
Io penso, dunque non esisto.
Come S. Paolo vedeva il bene ma faceva il male,
così io vedo il problema chiaro e tondo,
ma non so trovare nemmeno uno straccio di rimedio.
Inutilmente mi affanno in cerca di una forma,
inutilmente mi frugo dentro in cerca
di una sostanza più malleabile di quel vuoto
di cui non consisto: non trovo nulla di nulla,
nemmeno quel meno di nulla che non sono,
e se trama di questa tragedia non prevede colpe
neppure posso sperare un giorno
di trovar perdono.
DIALOGO VII
«È vero che ogni cosa ha le sue ragioni
però ci sono cose che continuano a stupire
anche dopo che ne hai scoperto le ragioni.
A me per esempio, capita di stupirmi ogni volta che rifletto
sul fatto che il tango degli inizi non abbia nulla
o meno di nulla a che vedere
con quello che poi è diventato qualche decennio dopo,
non solo a Parigi, ma anche nella stessa Buenos Aires.
Un rituale d’accoppiamento fra prostitute e clienti,
una fucina di sbronze, di grida e di litigi,
la colonna sonora di sfide all’ultimo sangue fra uomini
che si ammazzavano solo per vedere
chi fosse più bravo a maneggiare il coltello,
alla fine diventa una danza di borghesi che fanno finta d’esser nobili
e di nobili che fanno finta d’avere ancora qualcosa a che fare
con la nobiltà. La radio, il successo internazionale, i divi,
le scuole… Cose da non credere.
Non mi vengono in mente sul momento altri esempi di cultura
popolare che abbiano avuto un’evoluzione del genere.
Lo stilnovismo in generale e Dante in particolare
prendono le mosse dalla poesia popolare
e ne fanno l’apice del medioevo, ok, questo lo sanno tutti
e lo dicono tutti. Va bene.
Però la poesia popolare che gli stilnovisti prendono a modello
non aveva nulla a che fare con la pornografia
o con lo sfidare a duello il tale o il talaltro
perché altro di meglio non si trova da fare.
E pensa che oggi si sta arrivando
a un tale livello di raffinatezza che manca solo
che ci facciano un corso di laurea alla Sorbona.
Cose da non credere. L’unico paragone
che mi viene in mente è quello con la politica italiana
degli ultimi decenni. Da arte raffinata
si è trasformata appunto in un rituale di accoppiamento
fra demagoghi tangentari ed evasori fiscali all’occasione
con vallette televisive marchettare
che non vedono nessuna differenza fra il parlamento
e il palcoscenico di una telenovela.
Però, in questo caso, il percorso è stato quello inverso,
dall’alto in basso insomma, e in questo modo sembra
un po’ più comprensibile.
Passare dalle stelle alle stalle
è una cosa talmente comune che anche i ciechi
hanno avuto modo di vederla.
Passare dalle stalle alle stelle invece
è una cosa talmente rara che,
quella volta che accade,
diventa difficile togliersela dalla testa.
«Anche a me la cosa impressiona un bel po’.
In effetti, cose del genere non è che succedano
molto spesso. Però, secondo me,
anche adesso che il tango delle origini si è perduto
praticamente del tutto, ne rimane comunque un’immagine
indelebile, anche se non è facile da decifrare.
La differenza fra gli albori del tango
e un’epoca come quella di Gardel
sembra proprio che negli albori il tango
è vita, diciamo così, allo stato puro:
non c’è riflessione, non c’è autocoscienza.
È come un grido di rabbia che viene fuori incontrollato,
come un’imprecazione, come il commento sguaiato
fatto da un ubriaco, come sudare quando fa troppo caldo,
come piangere spudoratamente
perché tanto nessuno vede.
Poi però, nel giro di qualche decennio,
si trasforma in un canto nostalgico
di una vita che non c’è più ma che però non si rassegna
in nessun modo a non esserci più. Ed è in questa incapacità
di rassegnarsi, secondo me, che l’immagine
delle origini si conserva perfino in quei tanghi
e in quelle atmosfere dove di tutto diresti,
meno che abbiano avuto origine
in un bordello.
«È vero e, anzi, aggiungerei una cosa:
che l’immagine delle origini si conserva
anche nell’intimità della danza. Perché, vedi,
secondo me il tango non è qualcosa che si vede
dall’esterno. Io non ho nulla contro i campionati mondiali,
i festival con spettacolo annesso eccetera. Però,
secondo me, il tango non ha nulla a che fare
con quella roba. Intendo dire: non ha nulla a che fare
con quel che si può vedere con gli occhi. Il tango
è qualcosa che si sente mentre si balla, quando si raggiunge
un certo tipo di intimità con la persona, magari casuale,
che hai invitato. È a quel punto che, come ti dicevo prima,
vedi la luce, cioè: vedi il tango.
Ai mondiali ci sono tutti quei lustrini, tutte quelle cosce
e quelle mutande al vento, la gente salta sui tacchi a spillo,
si avvita attorno a delle gonne surreali, si sommerge
di cerone e trucchi e tutta quella roba. Ma il tango,
il tango quello vero, o, almeno, il tango che intendo io,
quello di cui ti parlavo all’inizio, non ha nulla a che vedere
con queste cose. Anche perché, inteso come spettacolo
fatto per gli occhi del corpo non c’è ballo
che non sia superiore al tango. Alla fine,
quando devi metterti a saltare e a fare acrobazie
la connessione intima con l’asse dell’altro
non è nulla di più che un ostacolo, per non parlare poi
dei tacchi a spillo, che per forza di cose
mettono la donna in una condizione di impaccio
che è difficile superare anche essendo delle atlete vere.
Secondo me, puoi percepire che cosa intendo io
con la parola “tango”, quando vai a qualche milonga
dove balla gente normale, magari particolarmente scalcinata.
Lì non vedi fare cose particolari. La gente non salta per aria,
non si mette a scalciare qua e là: però, in un modo segreto,
vedi che qualcuno ogni tanto, magari anche solo
per pochi istanti, riesce a trovare la connessione
con il compagno, con la sua sensibilità profonda,
con il suo ritmo, con il suo respiro, vorrei dire,
con il suo sudore. Magari non è nemmeno durante
la coreografia propriamente detta. Magari è durante una pausa,
magari una pausa particolarmente lunga.
Il tango è un’arte oscura,
come quella di vivere. A metterla
sotto i riflettori non la si esibisce: la si cancella.
IRONIA DELLA MORTE
Il piacevole, il divertente, la distrazione:
tutto questo si è sostituito all’estasi della danza
che va a tempo eternamente con il cosmo
o, per esser più precisi, di quella felicità spasmodica
che nel dolore tragico trova il suo culmine nel sangue.
Non siamo più capaci di nulla di simile
nemmeno nell’immaginazione
e va da sé che passiamo poi la vita con su stampato sulla faccia
l’ironico sorriso che ironizza infine
pure sull’ironia, dato che su altro più
non c’è da ironizzare.
È triste pensare che felicità e splendore
possano esistere e durare solo nell’assoluta ignoranza
della loro esistenza, così che a volte dubito persino
se il contemplarli dall’alto, o dal di sotto
o dal di lato non sia infine l’essenza ultima
dell’infelicità e del baratro in cui
a furia di ironie
non ci riesce più nemmeno di cadere.
IL PADRE DELLA POESIA MODERNA
L’impossibilità di una nuova forma
come di una nuova non forma mi tortura.
Non ho nulla da dire e nemmeno una nuova
forma o non forma che costituisca un pretesto
sufficiente per non dirlo!
Il mestiere di vivere stanca fino alla morte,
ma anche quello di scrittore sa esasperare
se i ferri del mestiere esistono e magari
sai anche come si fa a tenerli in mano,
ma non c’è nulla di nulla su cui poterli adoperare
se non un Nulla oramai tanto stanco di non esistere
come il poeta del suo non dire.
La Stagione all’Inferno
è stata scritta in altro luogo.
Il padre
della poesia moderna non ha visto, beato lui,
il fondo di quell’abisso che si chiama
“Modernità”, o se l’ha visto
l’ha visto talmente di sbieco e di lontano
che ancora poteva far nascere l’illusione
d’un qualche genere di profondità.
ERRATA CORRIGE
Finire in fondo a un abisso,
in effetti, sarebbe stata una fine nobile,
ma l’un tempo glorioso Occidente
non è riuscito a fare nemmeno quello,
a meno che il fondo dell’abisso
non coincida con quello un po’ meno nobile
del cesso.
Il nichilismo in effetti,
è riuscito nell’ardua impresa
di divorare, digerire e ricacare tutto,
senza fare eccezione
nemmeno per sé stesso.
IL LIBRO DELLA DISPERAZIONE
Mille volte cantare la disperazione
non serve a nulla, lo so,
mille volte cantare la disperazione,
lo so, non serve a nulla:
eppure, pur non servendo a nulla il canto,
non posso non cantare anche se,
lo so, sono stonato, ripetitivo
e non so dir null’altro della mia disperazione
se non che sono disperato.
Non ho idea se il mio sia un male universale
o particolare, se mi manchi un senso alla vita
o se mi manchi la vita punto e basta,
se è perché Dio sia morto o vivo,
se perché il mondo sia un meccanismo nato
per stritolare l’uomo o viceversa o tutte e due le cose
insieme: so solo di essere completamente
disperato, e lo ripeto,
come ripeto che si tratta
di cose già viste
per lo meno da quando Pessoa
nel “Libro dell’Inquietudine” scrisse:
« Io non sono pessimista,
sono triste.»
BOTTA (di Tommaso Landolfi)
Se tu credi nel male sei perduto
E sei già preda della morte:
Non altro atto di nascita è richiesto
Dai due sodali, di cui questa
Il primo perfeziona.
Perché non sogni d’essere felice?
Non potrebbe tal sogno avere eguale
Forza generatrice?
RISPOSTA
Si, ma questo vaglielo a spiegare
dopo il terremoto a quelli di Amatrice.
I CONTRARI
La quiete può essere e di solito risulta
uno dei peggiori martiri che si possono soffrire
in specie quando null’altro supplizio ci tormenti.
D’altra parte
non è che la tempesta assomigli alla quiete in altro
se non per il fatto che tormenta.
Al gioco dei contrari manca un capo
mentre l’altro imperversa sempre in qualche modo:
il grido e lo sbadiglio
sono variazioni di un tema monotono
ed è raro che alla fine ci sia qualcuno
che non se ne accorga.
A SIGMUND FREUD I e II
I.
Tormentati dalla coscienza
abbiamo nostalgia dell’ingenuità dell’inconscio
che agogniamo giusto per non avere
la più pallida idea di quel che diavolo
possa non essere.
Don Chisciotte caricava lancia in resta
i mulini a vento:
a noi non ci sono rimasti neppure quelli.
II
Non mi ricordo più
se l’ho letto o meno,
ma, siccome lo dicono tutti,
sono convinto anch’io che Freud fosse convinto
che il sogno proibito di ogni maschio
sia quello a cui allude la trama dell’Edipo
uccidere il padre
per sposare la madre.
Quale amara disillusione.
E io che avevo sempre creduto
di voler ammazzare Alice
per poter così convolare a giuste nozze
con il Coniglio Bianco, o almeno,
con il Paese delle Meraviglie!
DALLE PAGINE DEL DIARIO
Non annoto più i sogni. Non ho più voglia.
Nemmeno quelli sono più in rifugio
o una rivelazione sopportabile.
I sogni non rivelano più nulla di diverso
da questa paralisi totale in cui sono sprofondato,
da questa paralisi finale
che sono diventato.
Sono solo al mondo.
Anzi: sono solo e basta.
Perché quando si è soli
non c’è più nulla
e dunque non si può più nemmeno
giocare a far finta che il nulla che si ha attorno
abbia qualcosa a che fare,
ancora,
con un mondo.
La vita è la farsa
che tutti devono recitare:
la recita è una farsa che tutti
devono far finta che sia vita.
La voglia di sbattere la testa nel muro,
di urlare, di ululare disperatamente
a una luna piena
più vuota ancora e ancora
e ancora
della luna assente.
Non saper più che fare,
né che dire.
La voglia di sbattere la testa contro il muro
che si scontra con l’impossibilità
(e dunque contro il muro)
di trovare un muro o qualsiasi altra cosa
in cui andare a sbattere: quindi
in un certo senso
sbattere continuamente la testa
contro il Muro.
Non aver più niente e nessuno,
o avere solo un quaderno
in cui scrivere inutilmente
la confessione ultima,
ovvero
che non si ha più nulla di nulla
da confessare.
Capire che a questo mondo
c’è di tutto
e che si è avuto
e che si avrà di tutto,
ma quell’unica cosa
che serve a qualcosa
non solo non la si avrà mai,
ma neppure si avrà mai il coraggio
di nominarla.
Essere in un deserto
dove la morte resta
quello che è sempre stata
l’unico e l’ultimo miraggio.
Percorrere a tentoni
un labirinto di buio
in cui inutilmente
ci si muove in tondo
ritornando perennemente
a un punto di partenza
che è il labirinto di buio
ch’è dovunque.
LO SPECCHIO
Come si china il capo di fronte al fato
io chino gli occhi di fronte a me stesso,
a quest’estrema, estranea fatalità
che per me stesso sono.
Poco posso fare contro il mondo
e nulla di nulla contro quel non so che
che mi ritrovo dentro,
tanto più soverchiante quanto più inafferrabile,
tanto più impenetrabile
quanto più suona vuoto.
Così chino la testa
a quel non so chi
che nello specchio dell’io
per chissà quale motivo
si riflette
e gli obbedisco docilmente
inesorabilmente,
senza volere né poter discutere:
se una volta lo faccio
è solo perché lo specchio
per qualche incomprensibile motivo
l’ha ordinato.
REFRAIN
1.
Rosa del mio dolore,
rosa del tuo dolore,
rosa delle rose
così ti tormenti, inutilmente,
se questo dolore che fin nel fondo rode,
che ancora oscuramente batte,
e ancora e ancora,
che mi divora
è solo perché
nel tramonto che si spegne
splende suadente e misteriosa
la prima cresta dell’aurora
se il tempo passa
inesorabile
eppure
ti amo ancora
ti amo ancora..
(ti amo ancora?)
2.
Sazi di stupori
sazi, si, lo so,
di splendori.
Sazi di illusioni
e confusioni.
Sazi di fame e sazietà
sazi di sapere e di curiosità
sazi di tempo e vento
sazi della vita che è
e della morte che verrà.
Sazi di sogni e sonno
sazi della notte,
sazi della veglia
e della luce che ovunque
s’insinua ed ogni cosa e tutto
e il Tutto indora
se ti amo ancora
e ancora..
(ti amo ancora?)
NEL PALAZZO
Sono passati tanti anni
da allora.
Talmente tanti che oramai
– ahimè –
potrei o dovrei forse
parlare di decenni:
è per questo che, ovviamente,
non sono sicuro, davvero,
più di nulla.
Tutto quel che mi riesce di rimettere insieme
con un minimo di logica interna
se non di persuasione
è che il papa in questione
doveva essere un Torlonia,
o qualcosa del genere:
dunque
un esemplare della nobiltà più nobile di Roma,
come si suol dire.
Se non vado errato
doveva essere un o addirittura il
celebre mecenate di Canova:
talmente celebre che,
chissà perché,
non riesco in nessun modo
a ricordarne il nome
nemmeno cinque minuti dopo
aver chiuso il libro
in cui l’ho appena letto.
Mi ricordo però del palazzo
sebbene, appunto,
siano passati gli anni
e continuando a passare
su ciò che fu memoria
sempre più fitta si fa
la nebbia dell’oblio.
L’edificio
era quasi inumano per quanto si stagliava
o mi pareva si stagliasse
gigantesco.
Un titano minaccioso, interminabile,
fatto di sale, salotti, saloni,
di soggiorni, scale, scaloni, scalinate
e stanze e vani e camere,
che anch’essi naturalmente
inumani per quanto giganteschi
mi apparivano:
com’era intimidito il ragazzino
che confuso, tremante e quasi incredulo
si aggirava per quello sconfinato labirinto
in cui la realtà svaniva
dietro l’inenarrabile maschera
delle sue decorazioni!
A dispetto o a gloria di tanta dismisura,
ogni dettaglio di quel meraviglioso mostro
era curato in modo maniacale
o addirittura quasi
furibondo:
di questo ne ero
come ne resto certo
sebbene gli anni siano passati,
così tanti – ahimè –
che potrei o forse dovrei invece
parlare di decenni.
Ovunque fissassi lo sguardo
non c’era minuzia che non fosse
molto più che minuziosamente elaborata,
incisa, scolpita, laccata, effigiata,
intarsiata, intagliata, sbalzata, cesellata,
cucita, disegnata, dipinta e poi curata
e poi curata ancora,
fino al delirio o addirittura
fino alla vertigine.
Non c’era un solo ambiente
che per sé solo non avrebbe valso
l’umile omaggio a quell’abbagliante reggia
costruita incastrando miriadi di gioielli
come in un puzzle inventato da fate impazzite poi
a causa dell’eccessiva fantasia e del troppo lusso.
Non c’era un dettaglio,davvero,
che non fosse degno di stupore in quella meraviglia
che viaggiando intatta per il tempo
si è trasformata insensibilmente,
dalla tremenda e magnifica corte che era stata,
in un museo
e dunque in una civettuola attrazione
per quelle file civette di turisti
che per solito intendono
o nulla o meno di nulla o poco più
di quel che guardano o fanno finta di guardare.
Un finale, dobbiamo riconoscerlo,
forse un po’ inglorioso
per questo che fu forse il simbolo
più chiaro e più abbagliante
di un potere fra i più alti
fra quelli che sono sorti e tramontati
nel millennio scorso:
tanto possono i secoli e i lenti mutamenti
nel pensiero e dunque
negli usi e nei costumi.
Dimentico di tutto, anche del suo sgomento,
il ragazzino timido si aggirava
per quel fantastico intrico
di quasi impensabili e di del tutto indescrivibili bellezze.
Non c’era centimetro di quelle stanze immani
che non fosse affrescato, o in qualche altro modo decorato:
stucchi, rilievi, arazzi, tendaggi, cripte, altari,
colonne, false colonne, oppure, naturalmente,
quadri meravigliosi e meravigliosamente incorniciati.
Capolavori di tanta disumana stazza, bisogna riconoscerlo,
se non tolgono il respiro, tolgono almeno
qualsiasi senso alle parole con cui
li si vogliano come che sia rappresentare:
anche la più felice Musa di un Dante entusiasta ed ispirato
si sarebbe ridotta infine, c’è da giurarlo,
a una consecutio di più o meno tradizionali elogi
e di più o meno infantili esclamazioni di stupore.
Anche lasciando perdere i pezzi di rilievo
e dunque di sicura e universale fama
e trattenendosi invece sui soprammobili più trascurati e vili
non c’era pezzo che non si potesse
o addirittura si dovesse definire
come un capolavoro figlio di un’abilità artigiana
di cui il presente può avere solo un nostalgico rimpianto,
stante che mani come quelle che dettero forma a quelle brocche,
a quei vasi, quei vassoi, quegli incensieri,
a quelle saliere, quelle penne, quei candelieri e quelle coppe,
sono oggi indisponibili persino ai padri padroni
di quelle nullità virtuali
che, nessuno sa né come né perché,
pagano cinquanta dollari
per ognuno di quei milioni che senza fare un tubo,
oppure facendo cose che nulla hanno a che fare
con ciò che un tempo si chiamava “fare”,
a migliaia e migliaia in ogni caso
mettono in saccoccia.
Come definire una tale residenza
se non come un’apoteosi della maestà e dell’oro,
della gloria, del potere e dunque,
per conseguenza,
della più alta e incomparabile
perfezione artistica?
La timorosa contemplazione di quel luogo
di inconcepibili e irraggiungibili splendori però
a un certo punto fu turbata
dal ronzare di una mosca
forse plebea e banale
ma che però
a dispetto o in grazia
della sua incoercibile ignoranza
sorda e ininterrotta ha preso ad aggirarsi
nei recessi più oscuri dell’anima e del corpo
di quel del ragazzino intimidito
che per quei raffinati meandri si aggirava,
e dell’uomo che poi,
volente o nolente,
è diventato.
Pensava il ragazzino
e pensa l’uomo:
quando nei libri di storia e nelle guide
si dice che la tale o la talaltra grande opera
fu costruita da quel tale o talaltro fra i potenti
non si vuol dire, naturalmente, che il tale o talaltro fra i potenti
mise mano in concreto alla sua effettiva costruzione.
Non si è mai visto un potente che si abbassi
a porre mano a formare la materia, ed è già troppo
se se ne è visto o qualcuno se ne vede
por mano a scannare i suoi nemici,
o – non si sa mai – almeno qualcuno dei suoi amici,
oppure dei suoi familiari o dei suoi sudditi.
No: quando si dice che il tale o il talaltro fra i potenti
ha costruito la tale opera o talaltra
si intende invece che l’ha ordinata e dunque,
parlando di epoche come il Rinascimento,
che coi soldi suoi o di chissà chi
l’ha finanziata.
Ora, quel gigantesco e splendido palazzo,
era un pensiero questo che non potevo evitare di pensare,
era stato ordinato e dunque finanziato
da un sovrano di tipo un po’ particolare
dato che il suo potere era fondato nel rappresentare,
o almeno nel credere di rappresentare,
o, comunque sia,
nel far credere in qualche modo ai sottoposti
che lui fosse il solo degno rappresentante e solo erede,
fra i peccati e la corruzione della terra,
di Lui, proprio di Lui, si, del Sovrano Celeste,
di quel Dio d’Amore solo e unico
che un paio di migliaia di anni prima
si era preso il disturbo di farsi carne e sangue
e in carne e sangue farsi fare a pezzi
per redimere gli uomini da peccato e corruzione,
non meno che per annunciare quel Vangelo
che il papa protettore dell’arte e di Canova
stringeva nelle mani come simbolo
del divino e assoluto suo potere
non meno del divino diritto a esercitarlo
nel modo in cui meglio gli pareva,
compreso scomunicare chi non avesse
o non volesse scucire la pecunia
che sarebbe poi servita a finanziare
il suo grandioso o quasi smisurato amore
per la gloria e per l’arte,
e dunque per artisti e perfezione artistica.
La cosa, in certo senso, stupisce o dovrebbe stupire
almeno un po’,
dato che nel Vangelo, strano a dirsi,
non si trova un sol rigo in cui sia espressa
una qualsiasi stima per ricchi e per ricchezze
né per poteri e potenti non meno che dei simboli
di cui possano andare in giro rivestiti.
Neppure si trova un solo luogo in quegli scritti,
in cui il Dio solo e unico in questione
domandi ai suoi seguaci presenti o futuri ch’essi siano
la costruzione di palazzi o cattedrali temporali
per di più a spese o dispetto di chi non abbia
nemmeno di che mangiare o da coprirsi.
Parlando con qualcuno che di soldi ne aveva certo molti,
ma certamente molti meno di quelli che dovettero servire
a costruire una sola stanza del mostro papalino,
il Dio incarnato ebbe al contrario a dire
«Quanto difficilmente coloro che possiedono ricchezze
entreranno nel Regno di Dio!
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel Regno di Dio.»
Questo è un detto famoso,
tanto famoso che forse è persino inutile citarlo,
dato che non c’è credente o ateo
o persino cammello che non lo conosca fin troppo bene,
come non c’è credente o ateo,
almeno dalle nostre parti,
che non conosca la triste fine
che il Dio incarnato riserva all’Epulone ricco
e ai suoi piaceri terreni a spese di quel Lazzaro
a cui per crudeltà non concedeva
nemmeno un piatto o le briciole
dei suoi lauti banchetti.
Chissà, forse non serve nemmeno ricordare
quella tremenda scena del Giudizio Universale
dove il Re premia o condanna a seconda della misericordia
che ad affamati, assetati, carcerati, ammalati
e miseri e bisognosi di ogni sorta
si è concessa durante il breve soggiorno in questo mondo.
Quale strana e inusitata meraviglia!
Il Re elegge degli straccioni da nulla, e non i ricchi,
a suoi veraci e soli rappresentanti
in questa terra di corruzione e di peccati,
se almeno diamo retta a quel che nei Vangeli è scritto
e non alle interpretazioni di quei nobili e quei papi
che ne sono padroni ormai
solo nelle statue, nelle miniature e nei dipinti.
Così,
come allora, ora non cessa di ronzarmi nel cervello
l’annosa o forse addirittura secolosa
e dunque perciò anche petalosa questione:
è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel Regno di Dio, si va bene,
ma che vuol dire questo
se poi al ricco e al potente si consegnano
per secoli o addirittura per millenni
le chiavi, le porte
e pure le finestre del suddetto Regno?
Cos’è stata questa,
un’interpretazione tendenziosa,
o un’insensibile e lento deviare dello spirito,
che quasi inevitabilmente perde la via e decade
dalla profezia della tremenda apocalisse,
che per secoli e secoli si attende e non accade,
nei colpevoli e vanitosi vezzi di un presente
che arriva a credersi infine inamovibile
o addirittura immortale e eterno?
Di che cosa dobbiamo sparlare sennò
di una peccaminosa e voluta distorsione,
oppure sbuffare di uno dei tanti accidenti
o incidenti della storia,
se non proprio di uno scherzo
particolarmente ironico e crudele del destino,
o, chissà, chissà,
forse di un far male credendo di far bene,
di un bestemmiare credendo di pregare e render grazia,
oppure, come dicono i papi suddetti,
questa fu la verace e profonda volontà di Dio
e su chi osa negarlo sia rogo e sia anatema?
Nessuno ne capisce molto.
Storici e teologi, dopo un dibattito peggio che secolare
concordano nel dire che questo è uno dei milleeuno
o forse più misteri che circondano
la fede in questo Dio che, chissà perché,
fra le tante sue stranezze, come quella impensabile
d’esser Trino e Uno, si è permesso pure
di andare in giro in carne e ossa sulla terra
prendendosela proprio con quei ricchi,
quei farisei ipocriti e quei mercanti,
che fossero fuori oppure dentro il tempio non importa,
che diventeranno in seguito i più influenti fra i suoi rappresentanti
qualche secolo dopo la sua predicazione, morte e ascesa al Cielo:
e d’altra parte, fuori che sia un mistero,
che altro mai potrebbe dirsi sul tema,
od inventarsi?
Parlare di ricchezza e di potere in certi casi
è un po’ come parlare di pioggia
in caso di diluvio universale:
l’abisso che divideva i miseri del tempo
da quel papa amante dell’arte in ogni forma
sembra ancor più indescrivibile
della bellezza di quel palazzo, apoteosi di Canova
e dunque della suprema compiutezza artistica:
quanti cristiani saranno crepati dal freddo e dalla fame,
di malattia, o in prigione o condannati a morte,
in quanti si saranno trascinati a malapena coperti da due stracci
in catapecchie invase dalla polvere e dal fango,
dai topi, dalla peste e dagli insetti,
mentre a gloria di Cristo, della Misericordia e della Croce
si trasformavano in valli montagne di capitali smisurati
forse più smisurati ancora del palazzo mille volte smisurato
per decorarne ogni canto, ogni cantina e ogni cantuccio?
Quando mi vengono in mente queste cose
non so mai cosa dire,
neppure se sia giusto infine
dire qualcosa.
Ai tempi nostri, grazie a Dio,
i papi contano meno di molti politici neppur tanto maggiori,
la povertà sta ritornando in auge fra i cristiani,
anche se ahimè, a un tale mistero alto e gaudioso
pare strettamente connesso quello doloroso
di un cristianesimo che si fa minoritario.
Il papa non è più un multi-multi-multimilionario,
non dichiara più guerra a destra e a manca
in nome dell’Amore e della Pace.
I suoi anatemi, pur se ancora qualcuno ne proclama,
sono del tutto scevri dalla minaccia odiosa
di ruote, roghi, e squartamenti e impalamenti vari.
Con tutto il bene che di questo si può dire,
il lato negativo di tanta conversione
è che la gente del presente consumista
ha la tendenza a sottrarsi anche ai più dolci e cristiani
e facili fra i suoi comandamenti. Che vorrà dire
un fatto come questo?
Di nuovo,
non so rispondermi.
Il rumore di sottofondo di talk show, pubblicità,
dibattiti, telegiornali, giornali e notiziari,
dal tempo in cui il ragazzino timido e sgomento
si aggirava tremante per il labirinto di gioie papaline
si è fatto dapprima frastuono onnipresente
e poi bombardamento a tappeto,
metodico e incessante.
L’immenso ronzare delle opinioni e degli opinionisti
assomiglia oramai a quello del traffico vasto e inarrestabile
di uomini, mezzi e merci d’ogni sorta,
si perde nel rombo folle e isterico della colonna sonora
che accompagna ogni gesto e ogni commercio umano,
in coro e in eco al trillare ubiquo di miliardi
e miliardi ancora di telefonini:
le chat si moltiplicano,
i commenti si commentano da soli
posto che qualcun altro non li voglia commentare,
le immagini delle mille guerre o guerricciole,
come di carestie, terremoti, inondazioni e di disgrazie varie
che pullulano sul globo in ogni dove
non sai più distinguerle dall’ennesimo capolavoro hollywoodiano,
che a sua volta non sai se interrompa o sia interrotto
dal profluvio di spot che incensano e propongono
prodotti di cui mai e in nessun modo
un uomo moderno si potrà privare:
profumi, cioccolatini, ciprie,
e calze, calzini, calzoni e calzerotti,
e poi birre e limonate e aranciate ad libitum,
vini, caffè, pomate, telefoni cellulari e frullatori,
che come in un vortice di vortici sono inseguiti e inseguono
le luci e le grida e le risate di pastine, insalate, vacanze,
banche, mobili, immobili, gelati e surgelati,
creme antidolorifiche o antirughe o antisole,
fondotinta, rossetti, preservativi, condimenti,
e inscatolati e insaccati di ogni sorta.
Oramai solo il ritorno di Cristo
oppure la guerra atomica si prega
per liberarci da scarpe e vestiti per uomo o per signora,
per assicurarci da assicurazioni, falciatrici, saponi, abbonamenti,
caramelle e borse e accessori di ogni tipo,
per liberarci da nuove tv a pagamento o aggratis,
nuovi programmi, politici o turistici cosa importa,
come anche da dentiere, busti, reggiseni, sughi, mutande,
pannoloni, pannolini e
– ma perché dirlo? –
da ogni nuovo prodotto che promette
una svolta, una rivolta, un mutamento di rotta,
una rivelazione, una luce, una decisione
decisiva o più che decisiva
o peggio ancora.
La vita umana
è strana,
e ancor più strano è il pianeta
in cui non è più chiaro se si svolga
si volga
o si sconvolga.
Forse il tutto fu fato e fatto
perché nessuno mai e poi mai
in nessun secolo e in nessuna circostanza
possa capirne niente di niente
o anche di meno,
e solo non capendone niente dunque
se ne realizza in qualche modo il senso.
IL TUO TANGO V
Giocare a non dir nulla con quel nulla
che non si è mai detto
e che non si ha più da dire,
parlare per non tacere,
tacere per non parlare, bisogna,
qualcuno ha detto, dire che non c’è nulla da dire,
ma per quanto ancora questo gioco
può durare?
Pensare alla morte
per avere qualcosa a cui pensare,
fare, dire, baciare lettere
che non spedirò a nessuno,
un testamento in cui non lascio
il mio silenzio a chi non l’ha mai ascoltato: eppure
solo un anno fa nel chiuso nel tuo abbraccio
il tango mi parlava, e io rispondevo e dunque
allora qualcosa c’era da dire e da capire,
anche se non dicevo nulla,
anche se capivo meno,
anche se…
Solo un anno fa…
Adesso invece
sono solo,
senza nulla più da dire, o da capire,
perché non ci sei tu
né ci sarai più
a dire quelle parole che l’oblio di me
in te resuscitava come un mago
il tuo tango.
Ascoltami!
– vorrei gridarti – strozzandomi
nella vanità di questo vuoto,
di questo abisso gelido, folle e informe,
catastrofe che nulla può distruggere se nulla rimane più
se non la tua, la mia stessa
assenza –
Ascoltami! Ascoltami, ti prego!
Ma tu non ascolti, non mi senti,
e non mi sentirai più.
se dormire non posso
e il sogno è tutto quello che mi avanza,
se la corsa al prossimo treno,
al prossimo taxi,
al prossimo aereo
vola più alta e più lieve
e più lontana
di una danza.
Parte Quarta:
QUADERNO PER «INTERLUDE»
LE TANGO
Le tango :
gens qui rient et qui s’embrassent,
et qui après dansent fermés
au rythme de musiques et de paroles
complètement désespérés.
La vie c’est come ça.
Tu ne peux dire jamais
s’il est mieux se rencontrer
ou autrement
ne s’avoir jamais effleurés.
INTERLUDE
Ah ! cette vie de mon enfance, la grande route par tous les temps, sobre surnaturellement, plus désintéressé que le meilleur des mendiants, fier de
n’avoir ni pays, ni amis, quelle sottise c’était. – Et je m’en aperçois seulement !
A. Rimbaud
Varsovie
Varsovie couverte de neige
et d’invisibles fleurs
qui des blancheurs illimitées
de la neige se nourrissent
et resplendissent
émerveillées.
Varsovie du ghetto,
du carnage.
Varsovie mille fois balayée
et mille fois
comme moi
ressuscitée.
Varsovie ta patrie
ton ciel.
Varsovie dans tes yeux
dans mon amour
comme un voile.
Varsovie de ton rire d’argent
et de ces intimes souffrances
dont je ne souffre plus
qui presque sont oubli.
Varsovie des pas qui retentissent
dans le silence de spectres d’une rue latérale,
d’une vie quelconque qui passe
fatiguée de tristesse
et dont après personne
ne saura rien.
Varsovie encore en vie
pourtant
sous un déluge de temps
qui jamais ne se retient.
Varsovie
qui s’éloigne
comme une vallée dans une évanescence
de brume sans destin,
vague labyrinthe
où le cœur
s’égare,
cherchant sans cesse ce qui reste
d’une perdue et splendide
douleur.
Varsovie,
je le sais,
désormais presque seul un nom
qui dans le ténu s’évanouir de la mémoire
s’évanouit et s’attenue
comme ton visage
dans une pénombre d’une tonnelle en été,
fixant un coin obscur,
là où je voudrais
rencontrer tes yeux.
PARIS (AVANT TOI, APRÈS TOI)
1. APRÈS TOI
Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesse, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.
A. Rimbaud
Rues larges comme places,
places illimitées comme le désert
et pourtant pleines de gens qui vont et viennent. Paroles
saisies à la volée ici et là
entre le bruit du monde et de “tout le monde”
dans une langue qui résonne obsédante et possédée
par un seul nom : Arthur Rimbaud.
Puis :
musées qui érigent un mystique, fantastique, protéiforme labyrinthe,
cathédrales ivres des symboles qui défient l’abîme,
lointains horizons normands, d’acier, de tours et de cavalcades,
les barricades, les flammes, les chansons, les cris sans fin
de la Révolution, Napoléon, la Seine qui coule
lente et rapide telle que le temps et après …
Et après ?
Et après
un fleuve, une mer, un naufrage, un tourbillon des choses
qui dans la mémoire confuse et illimitée s’échappent
tels que les feux jetés par un train en marche :
les nations, les explorations, les colonies, les empires,
les peuples, le populisme, l’individu, l’individualisme,
la technique, la science, le progrès, la république,
les démocraties, la Première Guerre Mondiale,
l’après-guerre, le communisme, le fascisme,
l’existence, l’existentialisme, la crise de ’29, le nazisme,
une autre Guerre Mondiale, encore,
un autre après-guerre, encore,
la reconstruction, la guerre froide,
le développement, le Mai du ‘68,
les jeunes du Mai,
le flux et le reflux
et après …
Et après …
….et après
pourquoi lutter
pour se souvenir d’autres choses
encore?
Ici
on peut trouver tout
– et partout ! –
de sorte que rien n’est jamais
vraiment
à rechercher.
* *
Loin
la Tour Eiffel s’estompe
comme derrière une fenêtre
où le souffle silencieux étend un voile :
ce sont les larmes à la pensée
que pendant des années et des années
juste tes yeux
ont vu ce ciel.
II.
PARIS AVANT
Le ciel….
Le ciel comme aveugle,
comme un aigle…
Ce ciel
loin,
parti
et ainsi…
….perdu,
comme rendu
au désert obscurci,
endurci,
sans vie
de l’hiver.
Un sourire affaibli,
apeuré
franchit l’air morne.
Rigide,
engourdi
dans la caresse gelée du vent,
le front baissé
sous ce ciel bas,
sous la pluie lente,
trop lente,
trop fine
pour l’appeler pluie
et trop épaisse
pour croire vrai ce prodige nu
– se sentir perdu dans le brouillard –
en qui pourtant
follement
il croit.
Labiles éclats
de sable noir : voici
la dure Seine
où comme goélands à l’horizon
se perdent
les voix et les frémissements
des blancs bateaux
débordant de gens
qui lui semblent heureux.
Il marche
lentement,
caressant doucement
les parapets.
Plongé dans le secret
de son interne silence,
immense,
il n’entend pas les bruits :
partout
il y a de gens
et il ne voit personne.
Distrait par des souvenirs
qu’il ne sait pas d’avoir
l’adolescent timide bégaie des phrases incertaines
en cette langue nasale
que l’enfant commença peut-être à apprendre
et que l’adulte finira pour oublier
presque entièrement.
Les marbres impassibles,
Notre-Dame
impossible.
Un visage qu’il sait de ne pas connaître
– et qui pourtant il pense de reconnaître –
s’évanouit derrière le coin,
tandis que comme en proie à la fièvre il parcourt
les vastes labyrinthes du Louvre,
où à la fin chaque couloir bifurque
en ères perdues,
symboles incompréhensibles,
dieux et fois surréels,
gouffres d’événements et temps qui fondent
puis
parmi les labyrinthes du trafic,
dans le gouffre des rues
et des places gigantesques
dont presque il ne peut pas imaginer
l’énorme traversée,
les yeux éclipsés sur la vitrine obscurcie où
son vain reflet scrute celui
encore plus vain,
encore plus inhumain
de la Tour Eiffel
qui grimpe vers ce ciel
désormais tellement
loin
et tellement….
….perdu…
…éthéré,
comme dispersé
dans le désert de pierre,
de verre
de l’hiver.
Une saison à l’enfer terminait,
une autre commençait
interminablement.
Je fumais des Gauloises,
je buvais du cognac,
je pensais de chercher un autre Ailleurs
– désespérément –
mais comme un héros
fatigué et d’un autre âge
j’étais en train de revenir à la maison
et je ne le savais pas.
TES VALISES
Un coup de ton doigt sur le tambour décharge tous les sons et commence la nouvelle harmonie. Un pas de toi, c’est la levée des nouveaux hommes et leur en-marche. Ta tête se détourne: le nouvel amour! Ta tête se retourne: le nouvel amour! « Change nos lots, crible les fléaux, à commencer par le temps », te chantent ces enfants. « Élève n’importe où la substance de nos fortunes et de nos vœux », on t’en prie.
Arrivée de toujours, tu t’en iras partout.
A. Rimbaud
Ta légèreté, tes valises, tes départs, comme je les envie !
Et je sais d’être fou. Parce que l’envie c’est la folie même.
Peut-être que l’air, l’eau et le pain
sont tout ce qu’il y à envier dans ce monde
et le reste – tout le reste – sont des fables au vent.
Je le sais trop bien tout cela, et je le répète. Et pourtant
je t’envie quand même.
Ta légèreté, tes valises, tes départs, comme je les admire !
Je les vois aller sur la surface inutile du temps
comme un magique poisson volant
qui vaguement rebondit sur les vagues
par toi béni tantôt ici, tantôt là-bas, après
qui sait où….
Je ne peux même croire
ou imaginer
que celles-ci ne soient rien d’autre
que tes chaines,
ton fardeau,
ton tourment,
ton destiné exile de toi-même
comme il est pour moi-même
de rester ici
où je ne suis pas.
NOVEMBRE
Mes étoiles au ciel avaient un doux frou-frou
Et je les écoutais, assis au bord des routes,
Ces bons soirs de septembre où je sentais des gouttes
De rosée à mon front, comme un vin de vigueur ;
A. Rimbaud
Cette soir
de novembre !
On devrait geler,
on devrait mourir
mais pourtant
il semble d’être
en été…
L’été…
En été,
oui,
quand une brise bénie
bénit l’adieu du soleil
dans le premier s’annoncer
du crépuscule.
Je…
…non…
…moi…
…je ne vais pas partir :
…moi
…je vais revenir…
Je vais revenir
parce que tu m’as appelé :
écho de ta voix,
d’une musique
qu’en cessant
pourtant
ne peut pas oublier
la rivière du silence
d’où jaillit,
là
dans la mère du silence
où elle se perd.
* *
Tu m’as appelé et pourtant
quand je suis arrivé
tu ne m’as pas reconnu.
Tu m’as regardez avec un sourire
étonné
par cet étonnement qu’en voyant
quelque chose qu’on n’a jamais vu
nous émeut pourtant
parce qu’il nous rappelle
quelque chose d’autre,
déjà vu,
déjà vécu
et donc déjà
perdu,
oublié
et donc déjà
pardonné.
Mais pour moi aussi
tu étais une autre
même si je te reconnaissais:
et toi aussi étais déjà perdue,
même si j’étais en train
de te rencontrer.
Tu étais une autre
mais oui…
…une autre….
D’autre et d’ailleurs me semblaient
ces noirs cheveux
comme suspendus
sur la noire splendeur des yeux,
reflets de rosée perdus entre reflets de roses,
blancheur de peau d’enfant
trempée du lait et des rêves
et…
…et il était matin,
oui,
même s’il était soir.
Et tu étais la même
même si tu étais une autre,
même si tu étais
différente.
Tu étais là,
vraie, vivante,
comme tu es maintenant
dans la mémoire
qui pendant que de toi se souvienne
comme la surface d’un étang dans la brise
vibre et presque tremble
des infinis mots que nous échangions
pourtant
sans dire presque rien.
Ils sont toujours là
toujours les mêmes
ces paroles.
Mais désormais
seulement avec le silence
je les peux répéter
et seulement dans ce silence,
dans ce Novembre tiède
quand on devrait pleurer,
quand on devrait mourir,
je les peux encore écouter,
et comprendre,
comme seulement là,
«..là où tu n’est pas.. »
encore
je peux te chercher
et encore retrouver,
et encore
(encore)
perdre…
L’ANGE
Quand le monde sera réduit en un seul bois noir pour nos quatre yeux étonnés, – en une plage pour deux enfants fidèles, – en une maison musicale pour notre claire sympathie, – je vous trouverai.
Qu’il n’y ait ici-bas qu’un vieillard seul, calme et beau, entouré d’un luxe inouï, et je suis à vos genoux.
Que j’aie réalisé tous vos souvenirs, – que je sois celle qui sais vous garrotter, – je vous étoufferai.
Arthur Rimbaud
Lointain…
Si
lointain…
Lointain
et pourtant
même d’une pièce fermée
pouvoir te regarder dans les yeux
voisin,
absolument intime
et invisible
comme un miroir.
Pouvoir te suivre
le long des rues des taxis
égales
comme un labyrinthe,
dans l’immensités des aéroports
égales
comme un désert,
entre les visages des salles d’atteinte
égaux
come fantômes dans les yeux
ou comme des gouttes de pluie
qui tombent dans l’eau.
Les tableaux des horaires
dans lesquels le temps tous les jours
se défait, irréel,
comme une année entière
dans les notes d’un agenda
ou dans les nombres d’un calendrier.
La première ou la seconde classe,
la bienvenue,
les salutations et,
surtout,
les sourires…
Les sourires :
ça ne rate jamais…
Cette farce se récite partout,
et t’harcèle
et te hante
plus encore que les courbettes,
ou les ovations :
il n’y a pas un seul rêve
qui ne se réveille pas
dans le tonnerre des acclamations,
des compliments
éclairés par le clignotement
des sourires,
lumière livide et détestée,
mer en tempête
dont tous les jours on doit faire
l’interminable traversée
qui débarque enfin
dans un matin amer…
Il était dur de l’apprendre
et il est impossible
de l’enseigner à quelqu’un d’autre.
Celui qui ne s’arrête nulle part
est condamné aux sourires
comme le banni au bannissement,
et celui qui ne l’a jamais éprouvé
pour toujours restera incrédule :
personne
n’a jamais rien à réprimander
à celui qui vient juste parce que l’on a appelé,
juste parce que l’on a payé.
Pourquoi on devrait montrer le visage
de la dure vérité,
du dur amour quotidien
à celui qui jamais porte le poids du temps,
à celui qui comme un nuage léger
vient avec le vent
qui va on ne sait où ?
* *
Lointain…
Si
lointain…
* *
Si lointain,
et pourtant
savoir ce que tu penses
quand tu penses à rien.
* *
Lointain…
Si
lointain…
Et pourtant
savoir ce que tu cherches
de là de cet horizon fermé,
de ce coucher de soleil, rouge de honte,
parce qu’un jour de plus est passé,
immobile,
comme ce ciel si fond
sans plafond,
de la fenêtre de ton avion,
ton rempart,
qui n’atterre jamais,
qui se dirige nulle part.
* *
Nulle part,
oui….
Nulle part
ou….
….lointain…
Si lointain…
* *
Lointain,
oui,
comme un aveugle :
et pourtant
pouvoir voir s’ouvrir et se défaire
les valises,
vomir vêtements,
puis avalés par la machine,
par les tiroirs,
puis dévorés encore
par ces valises insatiables,
sans cesse :
sans cesse
savourer la douleur assoupie
sous le maquillage de l’actrice
qui trompe tout le monde
sauf toi-même,
si lointaine
même
de toi-même…
Si lointaine,
oui,
que je ne peux plus même prononcer
ton nom, si cher,
et pourtant t’avoir ici,
continuellement,
inutilement perdue,
si te voir,
si lointain, pourtant, comme un aveugle,
tu le sais,
c’est mon sort pérenne,
c’est mon étrange mort,
c’est ma vie
quotidienne.
Ainsi,
inévitablement te pleurer,
inévitablement te regretter
avec des larmes qui tombent
désormais distraites,
sans commotion,
sans pudeur,
et désormais
sans aucun goût
ni dégoût.
* *
Enfin
savoir que nous sommes
comme tous.
Voir que notre mal eternel,
maternel,
c’est un destin béotien,
et s’il n’est pas mort,
tu le sais,
c’est juste parce qu’il est
mortel.
Nous aussi,
aussi les anges,
sont faits de la même cendre,
étrange,
des cigarettes qui nous fumons
et qui dans les coins se mélange
à la poussière cosmique,
à la fatigue comique
du serveur qui l’époussette tous les matins,
si l’hôtel veut conserver son nom
s’il ne veut pas être considéré un fainéant,
si regarder un lit défait
me rappelle ta photo,
je ne sais pas comment.
DANS LE BROUILLARD
Nostalgie, nostalgie,
oui:
mais nostalgie de quoi?
Nostalgie de toi,
de ton corps élastique ?
Nostalgie de Buenos Aires
ou j’ai été avec toi
centaines des fois
dans mon esprit ?
Donc j’ai nostalgie
de tous les tangos fantastiques
que nous n’avons pas dansés
et que jamais nous ne danserons
peut-être ni même avec le pas
dément et silencieux
du désir,
si désirer est une dance
que je ne sais plus danser
si tu n’es pas ici.
Donc j’ai nostalgie
de je ne sais pas quoi:
nostalgie des fantômes
qui t’entouraient,
peut-être,
et qui sûrement
me tourmentaient.
Nostalgie de l’Amour,
de ce dieu des nuages
auquel toute joie est sacrifiée
– qui sait –
peut-être parce que seulement dans l’enfer plus profond
le bonheur peut exister,
vaine illusion
qui sûrement pour les damnés existe
si être heureux est la seule et unique
et humaine,
trop humaine,
damnation.
* *
Mais je suis racheté maintenant :
quelqu’un (je ne sais pas qui)
a tendu la main et m’a sauvé.
Donc,
si maintenant j’ai nostalgie de quelque chose,
c’est seulement des ces souvenirs
qui m’oppressaient,
qui me hantaient,
qui me dévoraient,
mais qui maintenant
je ne peut même pas
me rappeler !
Et si j’avais alors
nostalgie de la nostalgie ?
Mais oui,
mais sûrement !
Avec mon regret
je regrette seulement un nom
– si nostalgique ! –
dont le sens lointain
et désormais
désespérément vide et incompréhensible
me fait rêver cet horizon
que ni même dans mes rêves
toutefois
j’ai le courage
de regarder.
Donc ce que je ressens
n’est pas de la nostalgie pour toi :
mais alors est nostalgie de quoi,
de tout,
de rien,
ou de quoi d’autre?
* *
Enfin,
je ne sais pas de quoi j’ai nostalgie
et peut-être je ne sais plus ni même
ce que je dis.
Tout ce que je possède,
tout ce que je sais,
sont le parole d’Hamlet
«..paroles, paroles.. »
paroles faites des paroles,
bourdonnement bourdonnant d’intime silence
qui dans autre et plus vaste silence
s’en va et se perd,
par couloirs fatigués,
épuisés,
dans le labyrinthique se combattre du sommeil,
de l’ultime brouillard qui,
comme on le sait,
gagne toujours,
de toute façons
et dans tous les cas
tôt ou tard.
JUIN (2012 – 2013)
2012
Perdues, décolorées colombes,
de tes yeux dans la course !
Ailes battant furieusement,
inutilement en lutte
avec barres suffocantes d’horizon :
il est tard.
Astral, ancestral supplice de tes dissoutes,
dissipées racines,
douces, musicales dentelles de tes silencieuses
et vierges vertiges,
lent et fatigué planer de tes cils
sur joues débordantes d’alcoolique genièvre
par fleuves de miel inondés par fleuves de papillons,
nuages et brouillards enivrés par vallées
de dynasties de féeriques et fatales rois mages de lassitude,
de médiévaux et tremblants soupirs
de sentinelle en exil sur une tour décrépite,
oubliée et abandonnée : il est tard.
Il est tard, anciennes prophéties, il est tard, anciennes déités,
anciennes brumes, anciens ciels, anciennes étoiles :
il est tard.
Il est tard.
Tourbillons de vide érigés
le long du chemin de la nostalgie qui te suit
par oblongues perspectives de mémoires faites
d’immobiles élans et horribles cirrocumulus,
feux gravés de corneilles fracassées,
éviscérées, fragmentées et en fleur,
quand vous creusez abîmes d’angoisse
et d’espérance désespérée
dans mon ventre :
il est tard, il est tard, il est trop tard!
Il est tard,
pierre d’affabulées lumières de corail
cassées entre les prunelles effrayées
de tes équinoxes d’épatée et trop blanche coquille :
il est tard, il est tard,
et où tu a fui,
reflet d’un Oedipe qui dans le miroir contemple
la plus impénétrable entre les Sphinges ?
Intime, intimidé cloche qui retentit joyeuse,
qui célèbres débridée
la résurrection de la fragile, étourdie
tempête de nocturne légèreté de ton cheveux,
aube glorieuse de millions de colombes en éclosant,
des sillages suspendus au voile fragile de ton anneau de fantômes,
entre les lunes occultes et profondes de ses seines
qui sûrement en autre et très lente campagne
s’adonnent au course-poursuit : il est tard, il est tard !
Vraiment : il est tard ?
Oui, il est tard.
Il est tard,
agonie d’horizon perdu sur un mirage de quartier,
agonie agonisante,
agonie seule, morte et désolée
de goéland martyrisé par phalènes qui crie
sur une agonie de lames hébétées et silencieuses,
sur un nom incompréhensible qui est l’âme et le mal,
qui est l’ultime navire,
qui par l’ultime foi vire,
ultime silence,
ultime cri,
ultime,
intime
port et suffrage,
ultime
naufrage…
2013
La rivière insaisissable
du temps …
Ce se tendre au-delà
tournoyant,
immobile mais inexorable,
infatigable et pourtant
déjà fatigué à sa source,
si douce,
comme s’il était déjà a sa bouche,
avec tous ses très blancs feux,
tous ses noirs creux,
voix de cieux
qui disparaissent dans échos
de plus et des plus lourds
et sourds
dans la musique absurde
de ce dimanche d’après-midi
quand tout
comme le Tout
semble immobile.
Je me demande,
si tu pouvait arrêter tout cela.
Oui :
pouvait-il ta seule présence
jeter une lumière
ou une ombre
d’éternité
sur ce néant
qui passe semblant
d’être quelque chose
et me guérir enfin de ce mal
qui a le goût de l’aberrance,
de la distance ?
Aurait eu ton corps voisin le pouvoir
de faire palpable cette apparence d’âme
que je fais semblant d’avoir
ou même d’être,
de traverser cette abîme que j’appelle
moi-même
qui par ses mêmes entrailles grandit
et dans ses mêmes chaines se débat
sans pouvoir se débarrasser de soi même,
sans pouvoir jamais crier
d’être né ?
Ironique, désespéré, vain,
vaniteux demander de celui qui sait
de n’avoir pas des réponses !
Et pendent que je demande
tu t’en vas,
là où le temps va,
en passant par l’énigme
qu’un sphinx sarcastique et distrait
nous tend
sans nous promettre
ni saluts ni damnations.
Tu t’en vas
oui…
Mais si tu es lointaine,
si lointaine,
pourquoi je peux te voir
ici
dans cette place vide
où il y a seulement le néant
de l’attente qui berce
sans cesse,
sans fin,
comme le ciel dans les yeux,
obsédée et lente
comme la ressac de la mer,
comme le silence
de Dieu ?
JOURNAL DE LA SOIRÉE
I.
Ce matin :
un matin quelconque.
Un matin
parmi tant d’autres,
parmi tous les matins
de ces années
égales
qui sont passées comme ça,
seulement parce que le temps est temps,
et si le temps est temps
de quelque manière
il doit passer.
* *
Un réveil
en proie a l’angoisse
au chaos.
Puis
cette étrange envie de pleurer
que de temps en temps me saisit
comme par surprise
comme par-derrière.
Larmes qui semblent
monter aux yeux
malgré moi-même,
malgré tout.
Larmes que je trouve dans mes yeux
comme flaques sur la route,
comme rosée sur l’herbe,
comme le voile d’humidité
sur le verre.
Larmes
qui je ne sèche pas
parce que la merveille
la stupeur
la peur
de pleurer
me paralyse
et m’étouffe.
Larmes qui néanmoins ne coulent pas
parce qu’elles me remplissent de honte,
et si elles ne sont pas miennes
je ne saurait même pas dire
parce que cet autre,
cet étranger dont je ne sais rien,
utilise mes yeux pour pleurer,
ou, qui sait,
pour te pleurer…
II.
Aubes qui nous attendent
au-delà de la mort.
Aubes d’autres vies
peut-être :
ou sinon
l’unique aube de quelque chose
qui parce qu’elle est éternelle
nous ne savons même pas s’il est juste
de l’appeler « vie »,
ou, d’ailleurs,
avec n’importe quel autre
nom humain.
Aubes
qui nous surveillent.
Aubes qui nous accompagnent
dans cet invincible coucher du soleil
qui nous appelons « temps ».
Aubes qu’ébauchent images
dans l’obscurité de la pensée :
rêves aveugles,
parce qu’éblouissants,
lumières, comme on dit,
ou feux
qui nous préparent à l’oubli
ou, qui sait,
comme des ambages
qui nous donnent le temps
pour nous préparer à voire Dieu
dans son visage.
LA BIBLIOTHÈQUE DU RÉVEIL
Incrédule.
Incrédule,
comme en découvrant
un feuilleton du dimanche,
totalement insignifiant,
écrit avec un style pire que médiocre
par un auteur sans talent
et donc destiné à rester
totalement et légitimement
inconnu
Cette imitation d’écrivain,
ce triste gratte-papier,
de toute évidence,
voulait écrire quelque chose de réaliste
mais les personnages qu’il invente
sont chimériques et sans consistance
comme ceux d’un conte de fées
(qu’au moins sont vrais et crédibles
dans leur intangible et fluide
trace onirique).
Par conséquent
la trame qui sort
est inutile par principe
et vulgaire jusqu’à la fin :
un menu de sornettes et balivernes,
un friperie de babioles que je lis seulement parce que
– pour des raisons qui sont logiques seulement dans le rêve –
je n’ai rien d’autre à lire.
Donc, si je veux me distraire de ce je ne sais quoi
que j’appelle « vie »,
ou « ennui », ou « angoisse », ou « mort »,
je dois nécessairement m’intéresser aux vicissitudes
– larmoyantes jusqu’à la putréfaction –
du protagoniste de cet intrigue bon a rien,
qui en se posant de stéréotype sous-culturel
passe d’un cliché démodé à l’autre,
en terminant pour aimer une certaine « S. »
– de laquelle l’on peut douter s’il connait même
les autres lettres du nom et qui quoi qu’il en soit
il n’a pas vu depuis deux ans –
comme si elle était très réelle et dans sa pièce,
ou comme si sa vie était enchaînée à celle de sa bien-aimée
par un lien d’autant plus fort qu’il est invisible,
indéfinissable
et donc aussi complètement
incompréhensible.
Un véritable outrage ou pudeur littéraire,
on voudrait dire,
une opéra de quatre sous après quelques années d’inflation,
comme il est clair dès le début
de ce petit rien à rire,
mais en contrepartie capable de faire rougir de honte
le plus affaiblie et languide
entre les romans de charme.
Le fait que je le lis serait de ma part
un miteux céder à la grossièreté,
un acte de véritable incivilité,
si dans ce bric-à-brac primitif et confus
n’était pas finalement
– et avec toute gravité – .
toute ma vie
et toute ma réalité.
EN COMMENÇANT PAR MOI-MÊME
1.
EN REGARDANT AU-DEHORS
Une prison.
Ou non,
non…
…non…
Non pas une prison,
non…
Au contraire
une sorte de cercle
au même temps maudit et magique,
fait de désert indéchiffrable
et d’horizon vide.
Oui,
peut-être il est juste
ainsi…
Dunes toutes différentes
et toutes égales
sur le chambranle grisâtre
de la sable interminable
Et puis,
…puis…
Oui!
Puis encore dunes,
dunes et nuages :
nuages tous différents et tous égaux
sous le plafond labile et éblouissant
du bleu sans fond.
Un abîme dans lequel,
comme il arrive de tout,
rien de rien
ne va jamais arriver.
C’est de cette manière
que mon âme
se ressemble à tes paysages.
Si je ne t’aurais pas perdu ailleurs
je t’aurais perdu ici,
dans mon esprit,
dans ce labyrinthe de poussière,
dans cet aveugle infini brouillant et blême
où tout est perdu
depuis toujours
en commençant par moi-même.
2.
CAUSES ET EFFETS
Notre vie :
être dans le fond le plus fond
d’un gouffre de coïncidences
aucune desquelles
nous appartient.
T’avoir connue,
par exemple.
Pour première chose :
une photo de toi que j’ai vu par chance
sur un hebdomadaire trouvé par chance
dans un train que j’ai pris par chance.
Un hebdomadaire quelconque,
que j’ai commencé a lire
pour me relaxer du nient
qu’en août l’on fait
pendant les vacances.
Une photo en blanc et noir
dans laquelle ton visage pouvait sembler
le même qu’un autre,
comme il apparaît pris par un profil si glissant
qu’il précipitait presque totalement
dans le fond obscur de la perspective.
Ainsi :
sentir dans cette image anonyme
ta voix qu’avec la douceur
de celui qui sait qui sera obéi
me disait simplement : viens !
Puis :
te rejoindre en savant qu’enfin
je ne t’aurais jamais rejointe.
Encore :
te voir dans cette salle
remplie de miroirs
comme dans le désert
l’on voit un mirage.
Encore :
accueillir dans les rêves
ton message obscur,
qui déchirait le sommeil avec l’insomnie
tout d’abord,
et puis le réveil,
et puis la veille,
et puis le monde entier et tout le temps
avec le néant de l’angoisse la plus pure
à me ravager
jusqu’à qu’il n’y avait plus ni monde,
ni temps
et plus une seule chose
à nier.
La mémoire envahie
par souvenirs
qui ne m’appartenaient pas.
La folie et la mort
dans chaque coin,
dans chaque grain de poussière.
Encore :
respirer dans chaque instant
l’aire vitreuse
à la fois glacée et suffocante
de la terreur.
Arriver finalement au centre et:
voir…
Voir, oui : voir!
Voir…
Voir, et ainsi s’enfoncer dans un savoir
fait de lumières similaires aux ténèbres
et de ténèbres similaires à la lumière.
Un savoir fait d’inouïe souffrance,
d’agonie de croix, de lance dans le flanc,
de vinaigre, sang et eau,
d’un Dieu qui m’avait abandonné
seulement parce que je pouvait enfin ressusciter
des enfers à ces vivants auxquels pourtant
je devrai taire pour toute ma vie
mon secret.
Donc je me tairai.
Mais ça ne va pas se passer
par loyauté à un mandat
ou parce que je crois que le monde
est indigne de le connaître,
ou incapable de le comprendre :
et ni même parce que quelqu’un
obscurément m’oblige.
Ni même je vais me taire par humilité,
ou parce que je crois
qu’un tel secret doit,
pour raisons elles-mêmes secrètes,
rester un secret :
non, c’est rien de tout cela.
Mon secret va à rester secret
parce qu’il n’y a pas aucun mot
d’aucun langage humain
qui serait capable de le révéler :
l’ébaucher avec cette bégayement de poème
a été une manière quelconque
pour le cacher à tout le monde
en commençant par moi-même.
LE BARON DE MÜNCHHAUSEN
Pensées faites
en nuages…
Paroles dispersées
dans une autre partie
qui n’a pas autre nom
qui le vent qui siffle
obsédant,
dispersé dans autre vent,
dans autre temps
inutilement
perdu
comme cet élan
d’être moi même
et dans le même moment
lointain..
Autrement :
nuages faits de pensées.
Pensées qui le vent
en sifflant emporte vers ce
“je ne sais où”,
où tu es évanouie,
une “nulle part” que je cherche
inutilement
de partout.
Qui sais…
Nuages faits de pensées
ou pensées faites de nuages :
qu’importe, ou qui m’importe de vous,
nuages faits de nuages,
pensées faites de pensées,
qu’importe à vous de moi,
si tout ce qui se passe,
se passe dehors cet horizon coïncidant
avec l’éthéré, le creux argent de mes pupilles,
qui me regarde quand je le regarde
sans comprendre qu’il est un miroir
reflétant un outre miroir,
un miroir qui désormais n’a pas rien à réfléchir,
hâte complètement inutile d’arriver
nulle part,
si l’autre part est déjà ici,
si l’avenir est déjà maintenant
dans ce non-temps dehors du temps,
où regarder sa montre
c’est comme s’attrapper à une perruque chauve
pour se soulever du marais
qui ne veut rien savoir de nous
ni moins de nous avaler,
et dans lequel enfin
nous ne sommes peut-être
pas même tombés.
LE GOUFFRE
Le gouffre..
( le gouffre ? )
Ou non, non,
non pas le gouffre
mais :
l’abime.
Autrement :
le labyrinthe.
Le labyrinthe, oui..
Celui dont le seule
invaincu Minotaure
s’appelle : “solitude”.
Je n’en reviendrai jamais,
maintenant je le sais,
comme je l’ai toujours su
pourvu que j’y ais jamais entré.
Le fil d’Ariane
s’est brisé avec la vie :
et il n’est pas claire ni moins
si avec la mort je pourrai attraper de nouveau
son bout.
Toutefois, je t’attends,
sûr que tu ne vas pas retourner.
Aimer
une image vide :
je ne peut faire rien d’autre.
* *
Être saoul de solitude
et pourtant
ne pouvoir pas arrêter de boire.
Devoir lamper cette liqueur noire,
ce fiel,
avec la vie elle-même,
comme s’elle était la vie,
et non pas la mort dans la vie
qui fait rouler l’horizon
dans le roulis désespéré des pas
de plus en plus incertains et vains
dans le désert de plus en plus incertain et vague
de la foule dans laquelle le visage de tous
c’est le visage de personne,
dans le vide pouls des tempes
dans la crampe du trop penser à rien,
dans ces heures impies dans lesquelles le gouffre ouvert
ni nous vomit ni nous avale,
mais continuellement,
comme l’aigle de Prométhée
le fois nous mâche, nous ronge,
nous consume.
Mais sourire pourtant
comme si de rien n’était.
Sourire,
comme s’il y avait quelqu’un
qui souhait ou mérite un souris.
Sourire,
et continuer à boire
cette liqueur noire et amère
qu’est dégoutante mais forte
et peut-être le seul qui vraiment existe,
et donc le seul
dont on peut espérer
en buvant
d’oublier..
BANLIEUE
Au loin
des haillons de nuages sombres,
quelques débris de lumière
qui me rappelle
que jadis peut-être
a existé le soleil:
quelques souvenirs, encore,
et puis
à nouveau
seul avec moi-même
avec ma mort.
Une maison qui semble
faite de morceaux et de gravats.
Poubelles jamais remplis et donc
jamais vidées,
là-bas
au fond d’une cour
faite de gris
et d’herbe grise.
Un chien en approchant
qui me regarde
avec yeux de chien,
solitude de chien,
stupidité de chien :
puis
seulement la solitude
seulement la mort,
ma mort..
Ma mort et
le vent..
Vent qu’en m’entrainant
entraine un peu de poussière,
quelques feuilles,
quelques vieux papiers
sur lesquels
personne n’a rien écrit.
Sur le mur
gris
une affiche
a moitié détachée
qui dans le vent se débat
inutilement :
puis
seulement la mort.
La mort honnête.
La mort tout court.
Quelque pas en avant.
Puis
se retourner
pour se réassurer de ce
qu’est déjà absolument certain :
que rien et personne
est derrière nous,
que rien et personne
n’y aura jamais avant :
et puis
seulement la mort
(la mort).
VARIATION I, II et III
I.
La terre a oublié le ciel
en le confondant avec la migration des oiseaux.
Mes doigts caressent sillons gonflés d’ambre
creusés par les ongles impalpables de l’eau.
Je ne sais plus distinguer,
ou je ne sens plus
la nécessité.
Rien au-delà du temps
fait de poussière et sable.
Et alors seulement,
lentement,
doucement,
tandis que pas toujours plus incertains
vacillent fatigués
avant de s’écrouler,
et alors seulement,
désespérément,
sur la dernière feuille,
du dernière branche
du dernier arbre
mon dernier cri
se niche.
II.
Verte, crépitant contre le soleil et la poussière
insouciante ou peut-être inconsciente,
au point d’être plus forte et dévote
qu’une nouvelle printemps
voilà ma lutte
se paumer dans sa victoire.
Tant il est immense l’horizon qui s’ouvre
qu’il ressemble à le mur de vide
que toujours j’ai eu devant,
a côté
et derrière.
III.
Elle semblait une très grande conspiration.
Je sortais du palace de noir cristal de mes malédictions
et personne ne me sourit.
Je trébuchais irréparablement
dans des furieuses mémoires
épuisées par la nocturne lutte avec l’ange insomnieux
qu’on appelle Insomnie.
Je me regardais dans une hallucination de miroir,
je levais mes yeux en cherchant fausses promesses:
et personne ne me sourit.
Je me suis lavés les yeux dans des flaques de boue,
je glorifiais la cécité avec le sourd chant
de mes sanglots muets :
telle était la recette pour vivre heureusement?
Je m’enfuyais, désespéré et seul,
à la pensée confuse d’être encore en vie,
occupé à m’ennuyer avec détermination énorme,
avec l’héroïsme liquéfié et pourri
de la victime sacrificatoire.
Faim de baiser et de caresses.
Défié par temps et arrogance
au fond de l’abime de vides lunaires et primitifs,
presque ancestraux, j’en savais assez,
j’en avais assez!
Et personne ne me sourit.
Je me suis trompé,
j’ai tout recommencé,
tu le sais,
toujours et en tout lieu,
continuellement,
mais dans tous le cas,
inutilement…
À UNE OMBRE, 2011
Un símbolo, una rosa, te desgarra
y te puede matar una guitarra.
J. L. Borges
Même sur le jour le plus glorieux et sublime luit enfin
Le soleil couchant, et même sur la plus haute harmonie
Tombe enfin le rideau du silence. Ainsi s’accomplie
Notre intime, obscure essence, la mort, notre fin
Cachée, notre certaine et ultime, aride espérance,
Notre dernier dieu, dont pourtant s’alimente le mystère
D’être crées à cet inutile tourment, à cette errance
Qui de gouffre en gouffre nous emmène, raide sentier
D’épines sanglantes, des roses vagues et imaginaires,
Si fragiles et vaines que dans le rêve seulement une main
Rêvée peut-être peut cueillir. Si par prodige l’humain
Destin se rencontre avec l’incroyable merveille d’une joie, amères
Mâchoires l’arrachent à l’âme avec fureur d’affamée
Hyène. Ainsi, trop tôt il aura été en vain t’avoir aimée
Mon bien, mon Tout, mon adorée.
QUAND
Nadie hubo en él; detrás de su rostro (que aun a través de las malas pinturas de la época no se parece a ningún otro) y de sus palabras, que eran copiosas, fantásticas y agitadas, no había más que un poco de frío, un sueño no soñado por alguien.
J. L. Borges
Quand il mourra “je”, il ne mourra personne, ou mourra peut-être
Ce quelqu’un que je n’ai jamais été. Une muette présence
Disparaîtra des yeux muets et vides, dans le vide miroir
Et muet, du matin, et une muette absence, ma présence,
Dans le vide et muet miroir des yeux d’autrui. Dans mon soir,
Peut-être, victime du temps inexorable, ou, qui sait, peut-être
De mes pas plus incertaines mains, fortes d’une résolution
Qu’oubliait tous doutes, qu’à chaque arrêt et regret,
Qu’à chaque rancœur pour toujours tournera le dos, embrassée
Enfin à ce néant, qui par l’oubli la fin douce et suave nous promet
De ce parcours d’illusions âpres et déçues, de la mémoire égarée
Entre les mémoires harcelées et vagues. Ce sera aussi l’instant de la
[ révélation:
Je saurai finalement qui demande « qu’est ce que cela veut dire
[ “moi”? »
Qui de toujours me cherche, pendant que de toujours je n’y suis pas.
1994, SEPTEMBRE
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine dell’anima
che non sa più dare un grido
E. Montale
Ton histoire finit comme ça,
mon âme :
sur la plage déserte
tu te promène,
ombre égarée et nue,
blanche mémoire faite seulement
de paroles,
hébétées, épuisées ,
arrachées au sommeil
ou au délire.
Nous sommes comme ça :
chaque coquille parle la même langue,
chaque vague cache son secret,
que tout le monde connaît.
Nous sommes comme ça:
sans la doleur
reste seulement le mal,
une mère fatiguée,
dispersée,
égale…
VARIATION IV
Fernando Pessoa
La vie, comme beaucoup gens
– ou peut-être –
comme tout le monde,
je l’ai vécu en le vivant..
Jusqu’où mon cœur a tenu
il a continué de battre.
Ensuite, ma journée n’a été que ce rien de rien
qu’enfin a toujours été :
un stérile s’occuper
d’obtuses et bêtes routines,
la plus inutile de toutes
a été celle d’évader du détesté cercle
seulement pour se retrouver ensuite serré
dans celui que tout de suite il le ferme
plus haï et étroit que le premier,
duquel, je le sais, je ne suis jamais échappé.
Ainsi, quand à l’aube insomnieuse je me retrouve
une frénésie de mort homicide me dévaste
verve exaspérée d’immortalité convoitée,
qui pour ne mourir pas est avide
de jamais, de non plus dormir !
Et en avançant,
entre milles de brouillards hallucinées je rêve
de départs immobiles, de lointains friables,
de querelles risibles contre anges fugaces,
d’espérances de plus en plus creuses et labiles,
de délivrances définitives, ultimes
et impossibles.
Hélas ! Tout mes serrés
et brûlants soupires
n’ont pas d’autre issue
hors du sommeil
qui ne vient pas !
En vain, en vain je lutte
pour posséder les jours
qui me bouleversent,
ombres changeantes,
cauchemars nombreux.
Je refuse,
je m’abuse,
je m’accuse dans le temps !
PENELOPE
Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, oh lames,
Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,
Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.
A. Rimbaud
Ithaca lointaine, aux tours d’argent.
Ithaca chantée, par le crépuscule silencieux,
Feuille sur laquelle navigue mon adieu
Enfant de rêves sur le genoux du temps.
Ithaca ailée, salée, nuages de mirages:
Cœur de pierre, brisé par la doleur
Mer sans temps, sens rivage
Âpre et perdue fragrance de l’amour
Confuse come est-il confuse chaque souvenir.
Oh diaphane soir, oh mort à laquelle tu ne crois pas
Le chant qui tu ois ne connait pas harmonie
Si cela qui fut horizon est seuil derrière, là-bas,
Si le voyage finit dans sa dissoute fragrance:
Seulement il brûle le sot enfer de la doléance .
NOTA BIOGRAFICA SULL’AUTORE
Anonimo Fiorentino, al secolo Tomas F. H. Rakoczy, nasce alla fine degli anni sessanta in quello che, essendo in vena di esagerazioni, si può senz’altro definire come un villaggio sperduto da qualche parte nei Carpazi ungheresi (pensando alla sua antica magione, all’autore viene spesso in mente il nome “Pest”, che in teoria potrebbe essere quello della sua provincia natale). La parola “villaggio” in questo caso potrebbe essere esagerata e fuorviante – a parte la rima naturale con “selvaggio” – dato che, molto più realisticamente, potremmo parlare di un gruppuscolo di case disperse lungo una stradina di montagna, che nessuna autorità ha mai creduto necessario battezzare in alcun modo (gli abitanti della zona lo chiamavano con un nome che in italiano suona “Rocca dell’Aquila Dormiente” a causa di una roccia che, se osservata con quella stessa immaginazione con cui i bambini guardano le nubi, poteva sembrare effettivamente un’aquila con gli occhi chiusi). La sua sorprendente familiarità con la lingua italiana, che pare far dispetto alla radicale estraneità della sua nascita, dipende dal fatto che il nonno, di cui molti anni dopo erediterà tanto il cognome quanto la toscana passione per vino, sigari e barzellette, era un prigioniero di guerra italiano, per quel che si ricorda un sottufficiale, che, finita la Prima Guerra Mondiale, rimase dove il vento delle circostanze lo aveva trascinato. Quest’uomo, per motivi non facilmente comprensibili, si peritò di insegnarli la sua lingua natia con ancor più dedizione e pazienza di come aveva fatto con la figlia, prima di morire serenamente e – ahimè – piuttosto presto, come una volta facevano più o meno tutti i nonni.
Qualche anno dopo la sua nascita, i giovanissimi genitori del futuro autore del presente libro si trasferiscono a Budapest in cerca di lavoro e di una vita più moderna, ma mal gliene incoglie, dato che, con modalità e ragioni degne di un incubo di Kafka, vengono dapprima coinvolti nei movimenti di dissenso contro il regime stalinista e poi nell’inevitabile quanto spaventosa ondata di repressioni avvenute fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 in tutto l’Oltrecortina. Ciò fa sì che in breve tempo la giovane coppia si trovi dapprima costretta a riparare nel villaggio originario che, essendo in pratica sconosciuto a tutti tranne che a loro, diventa il rifugio per un ansioso ma per fortuna molto breve periodo di latitanza, che dura finché non riescono a espatriare in Austria, dopo un viaggio attraverso le montagne, lungo e piuttosto avventuroso, di cui il nostro ricorda solo fuggenti paesaggi innevati, intravisti dal finestrino di un treno che pareva non voler fermarsi mai e poi mai. Una cosa del tutto comprensibile quest’ultima, dato che il viaggio, a quel che gli è stato raccontato dai genitori, avvenne per lo più a piedi, oppure in automobile.
Comunque sia, dopo un breve soggiorno in una località situata vicino al confine austriaco, i rifugiati vengono indirizzati a Parigi da altri compagni di sventura. Lì vivono per qualche tempo, prima di trasferirsi ad Amsterdam, poi da qualche altra parte che non ricorda e infine in Svizzera, dove a tutt’oggi risiedono la madre e la sorella.
Fra niccole e naccole, siamo probabilmente all’inizio degli anni ottanta quando, dopo le solite difficoltà e amarezze che da che mondo è mondo patiscono tutti gli emigranti di questo mondo, da qualsiasi parte del mondo vengano e in qualsiasi parte del mondo emigrino (difficoltà e amarezze che, molti anni dopo, commentando la prima pagina di un noto giornale nazionale, gli fecero affermare, fra lo stupore generale, che fra Firenze, Ginevra, Parigi, Amsterdam e Lampedusa le differenze possono non essere poi tutto quell’abisso che si dice), Anonimo Fiorentino, che allora Firenze non l’aveva ancora vista nemmeno con il binocolo, si allontana dalla famiglia per ineluttabili motivi di studio, che, come del resto era prevedibile, si trasformano nel breve volgere di alcuni mesi in un pretesto qualsiasi per andare un po’ in giro per il mondo.
Non è chiaro dove abbia preso l’ispirazione per fare un’idiozia di questo genere. Chissà, forse la colpa fu dei ciechi furori della gioventù, resi ancor più ciechi da un qualche libro di cui grazie a Dio non ricorda il titolo, in cui aveva o credeva di aver letto che il mondo è l’unico libro che, potendosi stampare, sarebbe degno d’essere stampato, e che viaggiare è dunque l’unica vera scuola d’umanità, di saggezza e di vita.
A dispetto di tali rosee e romantiche premesse, dopo alcune vicissitudini su cui tacere è bello – vicissitudini attraverso le quali il cosiddetto “libro del mondo” gli spiega con quel rude sistema per solito conosciuto con l’inquietante appellativo di “metodo del bastone e della carota” (bastone sulla schiena quando sbagliava, cioè quasi sempre, carota nel didietro quando ne indovinava una) quali siano quelle tediose e irritanti incomodità che nei libri di carta pretendono il nobile appellativo di “avventura” – Anonimo Fiorentino si rompe le scatole a una velocità che, se non possiamo definire come superiore a quella della luce, di certo fu paragonabile con quella con cui arrivano le bollette (quelle della luce, certo, ma anche tutte le altre). L’inevitabile conseguenza è che ben presto, in circostanze un po’ fortunose, il nostro eroe trova il modo di sistemarsi in Italia – paese che ha prontamente adottato, un po’ perché non ne poteva più di nuovi treni, nuovi indirizzi e nuovi nomi, un po’ perché uno ne doveva adottare, ma un po’ anche perché in questo modo ha potuto adottare anche la lingua, il cognome e, soprattutto, il vino, i sigari e i dolcissimi sarcasmi di suo nonno.
Al di là di questi non poi così piccoli e piacevoli dettagli, quel che Anonimo Fiorentino veramente abbia pensato o pensi della sua nuova sistemazione non è chiaro, anche perché dopo alcuni decenni tutte le nuove sistemazioni, come le mogli, diventano vecchie e fastidiose. Ma, comunque sia, se qualcuno glielo chiede, lui risponde che l’Italia è un Paese che ama intensamente e profondamente – sebbene negli ultimi venti anni l’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi, da lui affettuosamente soprannominato “il Grande Bunga”, gli abbia fatto a più riprese rimpiangere, ancorché con prudenza e discrezione, il suo lontano e dimenticato villaggio nei Carpazi. Per quel che si ricorda, anche da quelle parti i programmi televisivi non erano un granché, però nessuno aveva la televisione, e questo, a quanto pare, bastava a risolvere molti dei problemi insolubili del mondo moderno.
Comunque sia, al di là dei pochissimi rimpianti, quel che oggi gli resta dei suoi anni ruggenti è un presente da esodato, che campa di lavoretti in giro qua e là, oppure qui e lì (oramai quelli su e giù sono soltanto un tenero ricordo), dei ricordi più fastidiosi che altro, e un futuro che la speranza dipinge ancor di rosa ma che – ahimè – di anno in anno si fa di un anno più breve.
Muore in data da destinarsi e luogo da stabilirsi.
Firenze, Marzo 2013